Ecuba/Introduzione
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Il Patin, a proposito dell’Ecuba e de Le Tròadi, che accomuna nel suo studio, scrive: «Queste due tragedie non sono che quadri, quadri simili a quelle immense e complesse rappresentazioni del Pecíle d’Atene e del Lesche di Delfi, dove il pennello di Polignoto aveva espresso, ispirandosi ai poeti ciclici, i medesimi soggetti. A quei quadri poté bene ispirarsi Euripide».
Il confronto, certo suggestivo, calza piú per Le Tròadi che non per l’Ecuba. Perché i due drammi, ad onta di quanto può farci credere una prima impressione, sono assai differenti.
Vero è che anche i punti di somiglianza son molti.
Primo e principalissimo, in entrambi c’è la medesima protagonista, e in entrambi sta in scena dal principio alla fine.
Uguale in entrambi la scena: l’accampamento degli Achei su la spiaggia del mare (qui nella Tròade, lí nella Tracia), e precisamente dinanzi alle tende dove son rinchiuse le prigioniere troiane.
E tanto nell’Ecuba quanto nelle Tròadi, il coro è formato di schiave troiane partecipi della sventura e dello strazio di Ecuba. E simile il contenuto delle parti corali in funzione lirica, e in tutti e due i drammi si svolge sui tre motivi medesimi: pittura dell’ultima notte di Troia: evocazione delle cause della guerra funesta: induzioni sui luoghi della Grecia dove saranno condotte.
E analogie si possono scoprire anche nella fattura. Per esempio, l’uno e l’altro dramma cominciano con un prologo a cui segue un monologo di Ecuba, che poi si intreccia con l’entrata del coro, formando un vasto pezzo cantato.
E molte e molte altre somiglianze di particolari si potrebbero rilevare, d’altronde rese quasi inevitabili dalla identità del soggetto.
Ma queste somiglianze non importano che i due drammi costituiscano un doppione, né che il secondo sia quasi continuazione dell’altro, come è implicito nel confronto del Patin, o tanto meno, una imitazione, come dice il Cinquini1.
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Il tèma dei due drammi è dunque unico: la passione di Ecuba. Ma in questa passione si rispecchia e si assomma la passione di Troia. Questa la visione che ha affascinata la fantasia d’Euripide.
Il tempo con la sua opera di corrosione e di annebbiamento, ed anche, un po’ i traviamenti di alcune fasi di cultura, hanno tolta alla nostra sensibilità la pronta vibrazione verso quegli eventi troppo remoti, e fino a poco tempo fa relegati, da una sufficiente ipercritica, nel regno delle chimere, che, necessariamente, interessano meno della realtà. Ma per i Greci, da Omero sino ad Alessandro, la fatal rovina di Troia fu esempio e mònito a tutti gli uomini della instabilità e della caducità delle sorti umane.
E gli artisti di Grecia non la consideravano con l’amara ma serena obiettività del filosofo, bensí con partecipazione commossa. Fu osservato piú volte, che tanto Omero quanto gli altri poeti di Grecia, se, pparentemente, e, quasi direi, in maniera ufficiosa, parteggiano per i Greci, in sostanza, si mostrano piuttosto attratti verso i vinti Troiani. Involontaria, inconscia reminiscenza, forse, della fraternità etnica che li univa ai Troiani: certo, riconoscimento del valore etico del popolo vinto. Perché l’episodio di Paride e dell’intervento di Afrodite, e della vendetta di Atena, quelle, sí, erano storielle; e la verità era che uno stuolo di Achei, bestie da preda, aveva distrutto un gran popolo ricco e felice ed eticamente superiore, che accoppiava il valore all’umanità, la magnificenza alla semplicità, e il senso dell’arte alla purezza dei costumi: un popolo che alla figura d’Agamènnone, il quale, o per paura, o per ambizione, non si peritava d’immolare la figlia Ifigenia, contrapponeva il vecchio Priamo, che sapeva esser mite perfino con Elena, ad Achille, fiera sanguinaria, Ettore maestro d’ogni umanità, alla magalda Elena la pudica Andromaca, a Clitemnestra, assassina dello sposo, Ecuba, che rimane all’ammirazione dei secoli modello di sposa e di madre.
Euripide, per la sua indipendenza di fronte ai giudizi convenzionali o comuni, per la sua sensibilità etica, in certa misura antieroica, per la sua speciale penetrazione della psicologia femminile, sentiva profondamente tutti questi motivi. E scrisse intorno al soggetto che lo interessava due drammi, scegliendo come figura sintetica la regina Ecuba, che un tempo era stata l’apice e il fiore d’una felicità favolosa, e adesso era fatta schiava fra gli schiavi, abbattuta al suolo in vesti da pitocca.
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Vediamo ora come s’incarnò la sua visione rispettivamente nei due drammi. Abbiamo già rilevata la linearità de Le Tròadi, che tornano alla schietta sagoma eschilea, rinunciando ad ogni lenocinio costruttivo, per raggiungere l’effetto mediante la sola espressione dei sentimenti, degli affetti, delle passioni.
Nell’Ecuba, invece, appare, e abbastanza complesso, l’intreccio — la mechané tanto aborrita da Aristofane — , nell’episodio di Polidoro e Polimèstore, che probabilmente il poeta inventò di proprio.
Ora, può bene essere, come dice il Cinquini, riecheggiato, a distanza di 10 anni dal Méridier2, che Euripide, dipingendo un Ecuba non già rassegnata, ma ribelle, infine, alla sua triste sorte, e vendicatrice del figlio, abbia voluto «farla rivivere di vita nova e fornirla d’un valore morale cui finora essa era stata estranea». Ed anche giusta è l’osservazione dello Stumpo3 che l’Ecuba è il dramma «in cui si alterna la pietà e il terrore»: sicché, giudicandolo a norma della famosa definizione d’Aristotele, sarebbe la tragedia per eccellenza. Ma vediamo se quella intenzione del poeta e questa aderenza con una definizione teorica giovino realmente a sublimare il dramma verso una ideale eccellenza artistica.
Polimèstore è, senza dubbio, un esecrabile ribaldo. E tuttavia, quando lo vediamo arrivare su la scena urlante, brancolante, cieco, e lo udiamo narrare con quanta efferatezza le donne troiane gli hanno strappati gli occhi, all’orrore che c’invade si mescola necessariamente un senso, sia pure remotissimo, di compassione. E quando udiamo lo scempio dei suoi teneri figli, attratti dalle donne con lusinghe affettuose, materne, e poi sgozzati senza pietà, non possiamo non ripetere fra noi e noi le parole che Dante pronuncia a proposito dei figli del conte Ugolino4. Cosí, la nostra compassione, che finora era tutta orientata verso Ecuba, viene sviata. Anzi, perché Ecuba appunto concepisce l’orribile scempio, e lo conduce a termine con fredda ferocia, alla simpatia si mescola un’ombra d’avversione. E la figura d’Ecuba, nonché esaltata, come opina il Méridier, ne riesce ombrata e sciupata.
Come già un po’ ombrata era stata quando, per impetrare da Agamènnone la vita della figlia Polissena, si fa quasi un merito del disonore dell’altra figlia Cassandra.
E queste macchie tanto piú offendono, perché dalle prime scene appare chiaro che la concezione originaria del poeta era differente. Era quella che troveremo poi incarnata ne Le Tròadi: di una santa madre, sulla quale si abbattono tutti i dolori, e tutti essa li sopporta, senza cercare un conforto, senza cercare una vendetta, ché entrambi sarebbero impari e indegni. Né la morte giunge a liberarla: sicché il suo dolore ci sembra veramente eterno ed infinito. Una tale figura sarà meno complessa di quella che troviamo realizzata nell’Ecuba, sarà meno un «carattere», nel senso tecnico; ma dal lato della poesia è infinitamente piú grande. Rievocando Demètra, annuncia Maria. Da questa grandezza fu ammaliato il poeta. E, dopo dieci anni, germinato nel suo cuore piú d’un sospetto intorno all’eccellenza di tanti presunti «progressi» dell’arte drammatica, ritornò alla antica visione, e la riprese ne Le Tròadi, esprimendola questa volta con semplicità immacolata.
Ma torniamo all’altro elemento, della costruzione. Quasi tutti i critici moderni, lodando l’introduzione dell’episodio di Polidoro, che conferisce al lavoro vera entità di dramma — mentre Le Tròadi sono una semplice sfilata di scene staccate — respingono l’appunto dei critici antichi, i quali condannavano la duplicità del soggetto, osservando che l’unità è costituita da Ecuba, alla cui sensibilità si riferiscono tutti gli episodi.
Eppure, questa volta, gli zelatori dell’unità risicano di non aver tutti i torti.
È un fatto che i due episodii di Polissena e di Polimèstore hanno ben poco a fare l’uno con l’altro; e, per quanto il poeta s’industrii quanto può a trovare legami, l’impressione complessiva è che il dramma sia diviso in due parti distinte.
Ora, né questa duplicità, né qualsiasi molteplicità offenderebbero minimamente in un dramma concepito fin da principio come una successione di liberi episodii, come, appunto, Le Tròadi (dove del resto i varii episodii sono palesemente omogenei, fratelli). Ma qui, evidentissimamente, il dramma vuole essere ad intreccio. E nell’intreccio tutto deve essere disposto e coordinato ad un fine. Nei suoi riguardi, il razionalismo può accampare i diritti che non possiede di fronte alle pure intuizioni artistiche.
E dove impera la logica, se la logica patisce violenza, anche la sensibilità estetica riesce turbata.
È quello che appunto ci avviene leggendo l’Ecuba. Ecco perché non saprei associarmi al giudizio del Patin, il quale, seguito dalla maggior parte dei critici, osserva che «di fronte a Le Tròadi, l’Ecuba presenta un carattere piú elevato, perché in questo dramma interessi meno numerosi si trovano riuniti da un legame piú stretto.»
A me sembra proprio il contrario. A me sembra che, fra una tecnica abituale e prediletta, ed una concezione che la trascendeva, l’Ecuba riuscisse un prodotto un po’ ibrido. E che per la coscienza di tale ibridità il poeta riprendesse, dopo dieci anni, il soggetto ammaliatore, riuscendo questa volta ad incarnare pienamente la visione artistica balenatagli una prima volta in momento meno propizio.
⁂
Ma se non fra i puri capolavori, l’Ecuba va certo annoverata tra i felici lavori d’Euripide. Tutta la parte patetica è di alta efficacia. E accanto alla figura d’Ecuba, pur sempre grande, ad onta di quelle che ci parvero macchie, si leva Polissena, sorella delle immacolate eroine che tanta luce effondono nella meravigliosa torbida atmosfera del mondo euripideo. Tutto il suo discorso alla madre è meraviglioso, e le ultime parole sublimi, indimenticabili, soffuse d’una grandezza poetica che non impallidisce di fronte ai piú bei momenti di Eschilo. La narrazione della sua morte va anch’essa annoverata fra i piú felici racconti di messi del teatro d’Euripide. Alla efficacia patetica si accompagna in essa una potenza plastica stupenda. Per esempio:
Ed essa, udito dei signori l’ordine,
al sommo de la spalla il peplo prese,
e sino a mezzo il fianco lo strappò,
vicino all’umbilico, e il petto e il seno
bellissimi mostrò, come di statua.
E forse qui, e certo altrove, il virtuosismo pittorico gli prende la mano. È un po’ ricercato che Ecuba, in mezzo a tanti mali, dica ad Ulisse:
da lungi
guardami, a guisa di pittor, considera
che mali io soffro.
Cosí, le donne troiane fatte schiave, nel ricordare la funesta notte di Troia, dicono (il Coro parla al singolare):
Io componea fra i vincoli
delle bende i miei riccioli,
e le luci, degli aurei
specchi figgevo nel fulgore intèrmine;
equesta pittura, in sé graziosissima, non solo per l’evidente frivolità, ma anche per l’eccessiva minutezza, introduce una nota díssona in un’armonia che dovrebbe essere tetra ed austera.
Tralascio qualche singolarità tecnica, che oramai ogni lettore potrà facilmente rilevare. Merita però speciale rilievo il lungo brano in cui Agamènnone rivolge la parola ad Ecuba, e questa non risponde, ma parla fra sé e sé, discutendo l’opportunità di rispondere. È il classico aparte, di cui si doveva poi far tanto uso ed abuso, ma di cui sino a questa scena d’Euripide essenzialmente non esistevano esempii.
⁂
Già osservammo come, súbito dopo il prologo, ci sia un lungo brano (59-215) nel quale interloquiscono Ecuba, poi il coro, poi Polissena; e che è tutto in metri anapesti, con mescolanza d’esametri dattilici. E certo fu declamato in paracataloghè, ossia con grande enfasi e con accompagnamento di flauto, se pure non interamente cantato. Un brano simile, anche anapestico, ma con mescolanza assai piú grande di metri lirici, e con divisioni strofiche, e, dunque, piú schiettamente cantato, troviamo ne Le Tròadi.
Il medesimo attacco, da dramma musicale piú che da tragedia nel senso classico, era già balenato al poeta sin nell’Ecuba. Ma anche qui, come in altri atteggiamenti, la originaria intuizione si smarrí; e il dramma riprese i suoi diritti, si mise per le vie solite. La concezione musicale si perdé, tanto che in nessun altro dramma d’Euripide la parte monòdica è cosí scarsa come nell’Ecuba, composta quasi tutta in trimetri giambici.
E quando appare, due volte, ci offre, e l’una e l’altra, motivo di sorpresa. Strano ci sembra il subitaneo trapasso dalla recitazione al canto, nel momento in cui Ecuba riconosce il cadavere di Polidoro. Ed anche piú strano ci sembra che Polimèstore accecato esca cantando. Proprio non riusciamo a figurarci, come, dopo brani recitati, poté essere intonato quel canto. Ma sono dubbî che non si potranno mai risolvere, se la fortuna non ci farà recuperare qualcuna delle partiture musicali perdute dei drammi euripidei.
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Nelle tarde scuole bizantine il libro di lettura preferito fu una scelta delle tragedie d’Euripide; e conteneva Le Fenicie, l’Oreste e l’Ecuba. Parrebbe dunque che i Bizantini preferissero l’Ecuba a Le Tròadi.
Superfluo soggiungere che la loro autorità non vale a scuotere la mia convinzione.
Note
- ↑ Nella ottima prefazione alla sua edizione commentata dell’Ecuba, Livorno, Giusti, 1918.
- ↑ Euripide, Edit. «Belles Lettres», II (1927).
- ↑ Edizione commentata dell’Ecuba, Albrighi Segati.
- ↑ Ha un bel dire il Patin (pag. 390), che «il dolore di Polimèstore, infame assassino giustamente punito del suo delitto non ci deve commuovere, ma solamente spaventare», e che il poeta «non ci mostra un uomo, bensí una bestia feroce ferita dal cacciatore, alla quale hanno ucciso i cuccioli». Ebbene, in quelle condizioni, c’ispira pietà anche una bestia feroce.