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ECUBA | 187 |
ché in questo dramma interessi meno numerosi si trovano riuniti da un legame piú stretto.»
A me sembra proprio il contrario. A me sembra che, fra una tecnica abituale e prediletta, ed una concezione che la trascendeva, l’Ecuba riuscisse un prodotto un po’ ibrido. E che per la coscienza di tale ibridità il poeta riprendesse, dopo dieci anni, il soggetto ammaliatore, riuscendo questa volta ad incarnare pienamente la visione artistica balenatagli una prima volta in momento meno propizio.
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Ma se non fra i puri capolavori, l’Ecuba va certo annoverata tra i felici lavori d’Euripide. Tutta la parte patetica è di alta efficacia. E accanto alla figura d’Ecuba, pur sempre grande, ad onta di quelle che ci parvero macchie, si leva Polissena, sorella delle immacolate eroine che tanta luce effondono nella meravigliosa torbida atmosfera del mondo euripideo. Tutto il suo discorso alla madre è meraviglioso, e le ultime parole sublimi, indimenticabili, soffuse d’una grandezza poetica che non impallidisce di fronte ai piú bei momenti di Eschilo. La narrazione della sua morte va anch’essa annoverata fra i piú felici racconti di messi del teatro d’Euripide. Alla efficacia patetica si accompagna in essa una potenza plastica stupenda. Per esempio:
Ed essa, udito dei signori l’ordine,
al sommo de la spalla il peplo prese,
e sino a mezzo il fianco lo strappò,
vicino all’umbilico, e il petto e il seno
bellissimi mostrò, come di statua.
E forse qui, e certo altrove, il virtuosismo pittorico gli