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Troia fu esempio e mònito a tutti gli uomini della instabilità e della caducità delle sorti umane.
E gli artisti di Grecia non la consideravano con l’amara ma serena obiettività del filosofo, bensí con partecipazione commossa. Fu osservato piú volte, che tanto Omero quanto gli altri poeti di Grecia, se, pparentemente, e, quasi direi, in maniera ufficiosa, parteggiano per i Greci, in sostanza, si mostrano piuttosto attratti verso i vinti Troiani. Involontaria, inconscia reminiscenza, forse, della fraternità etnica che li univa ai Troiani: certo, riconoscimento del valore etico del popolo vinto. Perché l’episodio di Paride e dell’intervento di Afrodite, e della vendetta di Atena, quelle, sí, erano storielle; e la verità era che uno stuolo di Achei, bestie da preda, aveva distrutto un gran popolo ricco e felice ed eticamente superiore, che accoppiava il valore all’umanità, la magnificenza alla semplicità, e il senso dell’arte alla purezza dei costumi: un popolo che alla figura d’Agamènnone, il quale, o per paura, o per ambizione, non si peritava d’immolare la figlia Ifigenia, contrapponeva il vecchio Priamo, che sapeva esser mite perfino con Elena, ad Achille, fiera sanguinaria, Ettore maestro d’ogni umanità, alla magalda Elena la pudica Andromaca, a Clitemnestra, assassina dello sposo, Ecuba, che rimane all’ammirazione dei secoli modello di sposa e di madre.
Euripide, per la sua indipendenza di fronte ai giudizi convenzionali o comuni, per la sua sensibilità etica, in certa misura antieroica, per la sua speciale penetrazione della psicologia femminile, sentiva profondamente tutti questi motivi. E scrisse intorno al soggetto che lo interessava due drammi, scegliendo come figura sintetica la regina Ecuba, che un tempo era stata l’apice e il fiore d’una felicità favolosa, e adesso era fatta schiava fra gli schiavi, abbattuta al suolo in vesti da pitocca.