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Vediamo ora come s’incarnò la sua visione rispettivamente nei due drammi. Abbiamo già rilevata la linearità de Le Tròadi, che tornano alla schietta sagoma eschilea, rinunciando ad ogni lenocinio costruttivo, per raggiungere l’effetto mediante la sola espressione dei sentimenti, degli affetti, delle passioni.

Nell’Ecuba, invece, appare, e abbastanza complesso, l’intreccio — la mechané tanto aborrita da Aristofane — , nell’episodio di Polidoro e Polimèstore, che probabilmente il poeta inventò di proprio.

Ora, può bene essere, come dice il Cinquini, riecheggiato, a distanza di 10 anni dal Méridier1, che Euripide, dipingendo un Ecuba non già rassegnata, ma ribelle, infine, alla sua triste sorte, e vendicatrice del figlio, abbia voluto «farla rivivere di vita nova e fornirla d’un valore morale cui finora essa era stata estranea». Ed anche giusta è l’osservazione dello Stumpo2 che l’Ecuba è il dramma «in cui si alterna la pietà e il terrore»: sicché, giudicandolo a norma della famosa definizione d’Aristotele, sarebbe la tragedia per eccellenza. Ma vediamo se quella intenzione del poeta e questa aderenza con una definizione teorica giovino realmente a sublimare il dramma verso una ideale eccellenza artistica.

Polimèstore è, senza dubbio, un esecrabile ribaldo. E tuttavia, quando lo vediamo arrivare su la scena urlante, brancolante, cieco, e lo udiamo narrare con quanta efferatezza le donne troiane gli hanno strappati gli occhi, all’orrore che

c’invade si mescola necessariamente un senso, sia pure remo-

  1. Euripide, Edit. «Belles Lettres», II (1927).
  2. Edizione commentata dell’Ecuba, Albrighi Segati.