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ECUBA | 185 |
tissimo, di compassione. E quando udiamo lo scempio dei suoi teneri figli, attratti dalle donne con lusinghe affettuose, materne, e poi sgozzati senza pietà, non possiamo non ripetere fra noi e noi le parole che Dante pronuncia a proposito dei figli del conte Ugolino1. Cosí, la nostra compassione, che finora era tutta orientata verso Ecuba, viene sviata. Anzi, perché Ecuba appunto concepisce l’orribile scempio, e lo conduce a termine con fredda ferocia, alla simpatia si mescola un’ombra d’avversione. E la figura d’Ecuba, nonché esaltata, come opina il Méridier, ne riesce ombrata e sciupata.
Come già un po’ ombrata era stata quando, per impetrare da Agamènnone la vita della figlia Polissena, si fa quasi un merito del disonore dell’altra figlia Cassandra.
E queste macchie tanto piú offendono, perché dalle prime scene appare chiaro che la concezione originaria del poeta era differente. Era quella che troveremo poi incarnata ne Le Tròadi: di una santa madre, sulla quale si abbattono tutti i dolori, e tutti essa li sopporta, senza cercare un conforto, senza cercare una vendetta, ché entrambi sarebbero impari e indegni. Né la morte giunge a liberarla: sicché il suo dolore ci sembra veramente eterno ed infinito. Una tale figura sarà meno complessa di quella che troviamo realizzata nell’Ecuba, sarà meno un «carattere», nel senso tecnico; ma dal lato della poesia è infinitamente piú grande. Rievocando Demètra, annuncia Maria. Da questa grandezza fu ammaliato il poeta. E, dopo dieci anni, germinato nel suo cuore piú d’un sospetto intorno all’eccellenza di tanti presunti «pro-
- ↑ Ha un bel dire il Patin (pag. 390), che «il dolore di Polimèstore, infame assassino giustamente punito del suo delitto non ci deve commuovere, ma solamente spaventare», e che il poeta «non ci mostra un uomo, bensí una bestia feroce ferita dal cacciatore, alla quale hanno ucciso i cuccioli». Ebbene, in quelle condizioni, c’ispira pietà anche una bestia feroce.