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188 | EURIPIDE |
prende la mano. È un po’ ricercato che Ecuba, in mezzo a tanti mali, dica ad Ulisse:
da lungi
guardami, a guisa di pittor, considera
che mali io soffro.
Cosí, le donne troiane fatte schiave, nel ricordare la funesta notte di Troia, dicono (il Coro parla al singolare):
Io componea fra i vincoli
delle bende i miei riccioli,
e le luci, degli aurei
specchi figgevo nel fulgore intèrmine;
equesta pittura, in sé graziosissima, non solo per l’evidente frivolità, ma anche per l’eccessiva minutezza, introduce una nota díssona in un’armonia che dovrebbe essere tetra ed austera.
Tralascio qualche singolarità tecnica, che oramai ogni lettore potrà facilmente rilevare. Merita però speciale rilievo il lungo brano in cui Agamènnone rivolge la parola ad Ecuba, e questa non risponde, ma parla fra sé e sé, discutendo l’opportunità di rispondere. È il classico aparte, di cui si doveva poi far tanto uso ed abuso, ma di cui sino a questa scena d’Euripide essenzialmente non esistevano esempii.
⁂
Già osservammo come, súbito dopo il prologo, ci sia un lungo brano (59-215) nel quale interloquiscono Ecuba, poi il coro, poi Polissena; e che è tutto in metri anapesti, con mescolanza d’esametri dattilici. E certo fu declamato in paracataloghè, ossia con grande enfasi e con accompagnamento di flauto, se pure non interamente cantato. Un brano