E. Kant nel secondo centenario dalla sua nascita

Piero Martinetti

1926 Indice:Martinetti - Saggi e discorsi, 1926.djvu E. Kant nel secondo centenario dalla sua nascita Intestazione 8 marzo 2024 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Saggi e discorsi (Martinetti)
[p. 127 modifica]

nel secondo centenario dalla sua nascita1.


Il vanto che Kant si attribuisce spesso di avere eretto la sua filosofia critica arbitra, anzi trionfatrice nella controversia secolare fra dogmatismo e scetticismo, corrisponde abbastanza bene alla realtà delle cose: il merito suo, più che nell’averci dato un sistema filosofico completo e definitivo, sta nell’aver eliminato per sempre forme e posizioni del problema filosofico, che da secoli davano origine a controversie vane quanto insolubili. Fin dagli inizi del pensiero noi vediamo infatti disegnarsi nella storia della filosofia due correnti opposte ed inseparabili. La prima è quella che potremmo dire la corrente metafisica, platonica; è la filosofia che ha la maggiore affinità con le religioni, dalle quali del resto deriva, e delle quali è stata anche, in certe età, l’ancella: i suoi oggetti non sono tanto le realtà visibili che costituiscono il mondo, quanto le realtà invisibili che si rivelano soltanto al pensiero: Dio, l’anima, la libertà. Questo mondo di esseri soprasensibili è il mondo più vero e sostanziale: anche noi vi apparteniamo per la parte più nobile dell’essere nostro e dobbiamo in esso cercare il fine ultimo della nostra vita. [p. 128 modifica]

Questo indirizzo filosofico è senza dubbio in accordo con le nostre aspirazioni più alte: ad esso dobbiamo i sogni più belli che lo spirito umano abbia sognato sul mistero delle cose. Ma questi sogni non sembrano essere veramente, se noi li analizziamo a fondo, che veri e proprii sogni. Se noi scrutiamo i grandi sistemi filosofici, noi dobbiamo riconoscere che essi rassomigliano piuttosto a grandiose immaginazioni poetiche che non a costruzioni logiche. Essi partono, è vero, da nozioni chiare ed evidenti, ma per risalire ben tosto, senza una legittimazione logica sufficiente, alle affermazioni più ardite intorno a cose e ad esseri, circa i quali non abbiamo nessuna esperienza e perciò nessun mezzo di controllo. E il dubbio è tanto più giustificato in quanto nessuno di questi sistemi così faticosamente costruiti riesce ad affermarsi stabilmente: ad essi subito si oppongono e subentrano altri sistemi, destinati, alla lor volta, alla stessa sorte. Di più essi ci danno in molte parti l’impressione che il filosofo si affatichi intorno a questioni insolubili: il mondo è creato od increato? Come ha luogo l’unione dell’anima e del corpo? Come si concilia l’esistenza di Dio con la libertà dell’uomo? E con l’esistenza del male? Ma, ciò che è più grave, queste dottrine in più d’un punto si mettono in contraddizione con l’esperienza. Noi vediamo che le scienze, di mano in mano che progrediscono, rigettano nel regno delle favole molte delle loro affermazioni: sì che finiscono per screditarne le pretese, i metodi, i problemi e quasi per darli in pasto al ridicolo come un’aberrazione dello spirito.

Quindi non è meraviglia se contemporaneamente a questo indirizzo vediamo svolgersi, come un accompagnamento necessario, un indirizzo opposto quello che potremmo dire positivo, naturalistico, scettico. Quest’indirizzo sorge, si può dire, ad un tempo con la scienza; anzi non appare da principio che come una continuazione dell’opera della scienza. Quindi sembra partecipare anch’esso della solidità della stessa ed opporre con giusto orgoglio ai sogni della metafisica una filosofia veramente scientifica, fondata sul sicuro terreno dell’esperienza.

Ma anche questo si rivela, a breve andare, come un’illusione. Una critica sagace non tarda a scoprire che anche qui l’esperienza è fatta servire a conclusioni arbitrarie con gli stessi metodi della metafisica: il materialismo è anch’esso una [p. 129 modifica]metafisica e per di più una metafisica grossolana e puerile. Si aggiunga ancora che l’analisi dei principii e dei metodi della scienza finisce per condurre a questa constatazione: che gli stessi principii fondamentali della scienza non sono realmente fondati sull’esperienza, ma sembrano presupposti arbitrarii diretti solo a rendere possibile la concatenazione delle esperienze. La scienza conserva così il suo valore pratico, ma perde ogni valore teoretico: ed allora come si può parlare d’una filosofia scientifica? Sembra allora che lo spirito non possa trovare rifugio se non in uno scetticismo radicale: ma anche questa non è una soluzione, perchè, per giudicare che nulla si sa, si deve pur possedere un criterio per giudicare del valore del sapere. Quindi nè l’uno nè l’altro punto di visto è definitivo: lo spirito umano sembra condannato ad oscillare in perpetuo fra l’uno e l’altro senza speranza alcuna.


* * *


Nell’età kantiana questa contraddizione si era venuta facendo sempre più insopportabile. Da una parte la filosofia, seguendo le tendenze razionalistiche del tempo, non era riuscita che a mettere meglio in luce la vanità del suo compito: le sue costruzioni superficiali ed arbitrarie erano cadute nel più completo discredito. Dall’altra la filosofia empirica e scettica aveva scalzato senza rimedio, con le basi della metafisica, anche quelle del sapere: e sembrava così aprire la via ad uno scetticismo universale in cui dovevano naufragare e la religione e la morale e la filosofia. Come da una parte rinunziare alle aspirazioni ed alle credenze più radicate e più profonde del nostro spirito? E come d’altra parte negare le conclusioni inesorabili della scienza e della critica?

Mai forse lo spirito umano si era trovato dinanzi ad una contraddizione così grave e così vitale. E mai lo spiritò umano risalì con tanta forza alle più remote origini dell’essere suo per cercarvi la soluzione d’un problema che il pensiero aveva da secoli chiesto invano alle cose. Kant nella lunga evoluzione filosofica che antecede la composizione della Critica della ragion pura, aveva attraversato e vissuto queste posizioni [p. 130 modifica]opposte: la sua soluzione critica le supera e le riconcilia in un punto di vista superiore. Quale è questo punto di vista?

Kant parte nella sua ricerca da un fatto che egli considera come indiscutibile: questo fatto è la verità della scienza. Si può dubitare della filosofia, ma chi dubiterà della matematica o della fisica? Tuttavia è certo — in questo gli scettici hanno ragione — che i principii più essenziali della scienza non provengono dall’esperienza: nessuno crederà per es. che le leggi matematiche siano ricavate da esperienze. E nelle stesse scienze sperimentali vi sono elementi, che gli analizzatori più positivi dell’esperienza hanno riconosciuto non derivare dall’esperienza. Come è possibile allora che la scienza abbia un valore obbiettivo? Quest’affermazione non può essere mantenuta, secondo Kant, se non col riformare il nostro concetto del conoscere: ed è appuntò a questo nuovo concetto del conoscere che si riattacca la riforma kantiana della filosofia.

Tutti conosciamo o crediamo di conoscere qualche cosa: ma pochi hanno meditato su ciò che vuol dire conoscere e saprebbero dire che cosa esso implica. Il concetto che il pensiero comune ha del conoscere è questo: che esso è un rispecchiare, un raccogliere passivamente in noi una realtà presente fuori di noi, che apparirebbe così anche ad esseri diversi da noi, perchè è così in sè stessa, indipendentemente dagli esseri che la conoscono. Il centro di gravità è, secondo questo modo di vedere, nelle cose: la nostra conoscenza si modella su di esse e ne deriva. Ora che il conoscere non sia un fatto così semplice e che lo spirito conoscente concorra per qualche cosa nella costituzione della sua esperienza ce lo hanno detto anche gli scettici antichi: e questo è un primo avvertimento che i concetti di conoscenza, esperienza, realtà e simili non debbono venir accolti così senz’altro dal pensiero comune. Ma il concetto kantiano va ben oltre. Secondo Kant l’analisi della nostra conoscenza ci rivela questo singolare fatto: che quella rigorosa obbiettività, quella validità assoluta che caratterizzano ai nostri occhi l’esperienza e la scienza, non sono prodotte in noi dai sensi, ma ci vengono appunto da quei principii generali, i quali sono come la trama dell’esperienza e della scienza ed hanno l’origine loro nelle leggi costituitive del nostro spirito. A questo proposito Kant rileva che ciò che ha rinnovato nell’età moderna le scienze [p. 131 modifica]fisiche non è stato tanto l’esperimento quanto la riforma geniale del metodo: l’aver cioè riconosciuto che l’ufficio dello scienziato non è solo nel ricevere dalla natura passivamente i suoi insegnamenti, ma anche e più nell’ordinare il materiale così ricevuto secondo principii posti dallo spirito stesso. Il merito di Kant sta nell’avere generalizzato e portato a chiara coscienza questo principio: che a costituire il mondo della nostra esperienza non entrano solo i dati del senso, ma anche elementi che hanno la loro origine nello spirito umano e che non sono elementi accidentali, ma leggi necessarie procedenti dalla costituzione essenziale del nostro spirito. Così per una rivoluzione analoga a quella di Copernico il centro di gravità è trasportato dalle cose nello spirito: non sono le cose immobili, esterne, per sè stanti che ci impongono la loro immagine, ma è il nostro spirito che secondo le leggi sue più essenziali dà al mondo delle cose quella forma e quella costituzione per cui ci appare una realtà obbiettiva governata da leggi. E così è risolta la prima questione che Kant si è proposto circa la possibilità della matematica e della scienza. Esse sono possibili come sapere obbiettivo ed assolutamente valido perchè i principii essenziali che inquadrano il sapere e gli danno il carattere dell’obbiettività e della necessità derivano dalla natura del nostro spirito conoscente in ciò che esso ha di essenziale e di comune a tutti gli uomini.

* * *

Prima conseguenza di questo nuovo concetto del conoscere è, in Kant, una concezione della realtà decisamente idealistica. Bene avevano già ab antico i più grandi intelletti pensato che il fondamento della realtà deve essere in qualche cosa di ideale: in fondo la teoria tradizionale che considera il mondo esteriore come una creazione di Dio, cioè dello spirito, è un modo di esprimere questa verità. Ma lo stesso ricorso al concetto della creazione, cioè dell’incomprensibile, mostra che resistenza del mondo materiale era per la filosofia idealistica un problema insoluto ed un mistero. In appresso l’analisi dei filosofi empirici aveva, anche prima di Kant, condotto a vedere chiaramente che tutto ciò che noi diciamo esperienza, realtà, cose, è costruito con i materiali del nostro sentire e del nostro [p. 132 modifica]conoscere. Ma questa conclusione sembra dover condurre alla paradossale conseguenza che il mondo è per ciascuno soltanto una fantasmagoria, un’allucinazione personale: come è allora possibile parlare ancora di valore obbiettivo della scienza? Questa è la causa per la quale Kant, creatore del moderno idealismo ci dà nella Critica una confutazione dell’idealismo e si mostra corrucciato contro coloro che confondono la sua dottrina con l’idealismo dei suoi precursori. Anch’egli parte dalla stessa constatazione che il mondo è costituito dai materiali che ci danno le nostre attività conoscitive: ma non per questo, dice Kant, deve la filosofia vedere nel mondo sensibile solo un’immaginazione subbiettiva. Il mondo non è una costruzione del soggetto personale, ma dello spirito umano in genere: è il mondo dell’esperienza umana, la realtà tale quale deve necessariamente apparire allo spirito umano. Quest’affermazione vuol dire in primo luogo che il mondo è realtà, non allucinazione dei sensi; che è la traduzione d’un originale a noi inaccessibile: traduzione che necessariamente dà a questo originale una forma tutta sua, ma che in qualche modo lo rende a noi e dalla relazione con questo originale riceve realtà, senso e valore. In secondo luogo vuol dire che questa traduzione non è una traduzione personale, ma fondata sulle leggi universali, immanenti a tutti gli spiriti umani: perciò essa costituisce non un’apparenza soggettiva, ma un’esperienza comune a tutti gli uomini, il mondo della realtà umana. Ed allora si capisce come in un mondo, che pure è soltanto la nostra esperienza, siano possibili la conoscenza dell’esperienza e la scienza. Questo mondo dell’esperienza umana è retto da leggi, modellato da forme che sono le stesse leggi costitutive del nostro spirito: soltanto ciò che è costruito secondo queste leggi universali dello spirito vale come realtà, esperienza obbiettiva, verità: l’errore, l’illusione nasce da ciò che è soltanto soggettivo, individuale e non si conforma alle leggi obbiettive dello spirito.

Uno dei punti più popolari e nello stesso tempo più difficili e più fraintesi di questa dottrina kantiana dell’idealità del mondo è quello che si riferisce al tempo ed allo spazio: che sono, secondo Kant, le forme più elementari della conoscenza umana, le forme in cui deve necessariamente presentarsi alla coscienza ogni realtà per diventare esperienza umana. Che, [p. 133 modifica]per esempio, questo grande spazio nel quale noi ci moviamo come dei punti impercettibili non sia un recipiente nel senso comune della parola appare già da questo: che quando fossero tolti tutti gli esseri che esso contiene, sparirebbe anche il recipiente. Ma nemmeno Kant ha voluto con la sua teoria insegnare che tutto questo grande spazio sia solo nel soggetto che lo percepisce: e cioè che l’io singolo o peggio il suo cervello, che è anch’esso in un punto dello spazio, contenga in sè tutto lo spazio. Vero è questo: che quando noi contempliamo un oggetto nello spazio, ciò che noi riceviamo passivamente dai sensi è solo una somma di punti sentiti: la quale diventa un oggetto esteso solo in quanto questi punti vengono dallo spirito riuniti in una forma spaziale. Ma questa forma non è un’illusione od un arbitrio dell’individuo! Essa è una legge coestensiva a tutti gli spiriti conoscenti. Perciò quando io dico di essere nello spazio, il senso della mia proposizione è questo: io sono un momento, un punto d’un’attività spirituale universale, che traduce la realtà in una visione spaziale secondo leggi comuni a tutti gli spiriti. Io sono senza dubbio parte d’una realtà più vasta: ma questa realtà non può essere da me appresa che nella forma umana dello spazio.

Noi possiamo esprimere il principio idealistico anche in un’altra forma: e dire che questo mondo ha una realtà puramente fenomenica. Se la realtà nostra è il mondo dell’esperienza umana, condizionato dall’attività dello spirito umano, è abbastanza evidente che sarebbe assurdo porre questo mondo come esistente indipendentemente dallo spirito umano. Che vi sia una realtà indipendente dal conoscere umano Kant non dubita: ma questa non può essere appresa in quelle forme che sono soltanto umane, non può essere la realtà temporale e spaziale: perchè appunto questa forma temporale e spaziale è caratteristicamente umana, è il linguaggio in cui si esprime necessariamente per noi la realtà delle cose.

Da questa netta posizione del principio idealistico discende per Kant un’altra e non meno grave conseguenza: che cioè il solo mondo che possiamo conoscere è il mondo della nostra esperienza. La parola conoscere non può avere per noi che un senso solo: ordinare, inquadrare le nostre impressioni sensibili nelle forme del tempo, dello spazio e nelle altre leggi che [p. 134 modifica]costituiscono l’intelletto umano: un conoscere altro da questo noi non sappiamo che cosa voglia dire. Perciò nessun conoscere senza impressioni, nessun conoscere senza la forma temporale e spaziale, nessun conoscere fuori delle leggi intellettive. Perciò tutto quello che noi possiamo conoscere e fare oggetto di scienza deve appartenere a questo mondo sensibile o come realtà sensibile o come astrazione da essa derivata: noi non abbiamo nè possiamo avere conoscenza di ciò che non entra in questo campo. Essere reale vuol dire essere nel tempo e nello spazio ovvero derivare come astrazione da qualche cosa che è nel tempo e nello spazio. Kant non dice con questo che nulla esiste se non ciò che è nel tempo e nello spazio: anzi noi sappiamo che tutto quello che è nel tempo e nello spazio è soltanto fenomeno condizionato dalla natura del nostro spirito. Ma appunto per questo esso è anche la sola forma di realtà che il nostro spirito pòssa obbiettivamente conoscere. Così ciò che fa parte del mondo che noi conosciamo deve senza eccezione possibile obbedire alle leggi del nostro intelletto, che hanno la loro più rigorosa espressione nei principii della concatenazione scientifica. Noi conosciamo soltanto il mondo dell’esperienza umana: e questo è nella sua perfetta espressione quel mondo concatenato secondo cause e secondo leggi che ci rivela la scienza.

* * *

Nessun filosofo mai ha con tanto vigore fondato ed assicurato l’opera della scienza escludendone rigorosamente ogni problema trascendente come ogni ricorso a fattori ed interventi soprannaturali. Perciò si comprende come l’opera di Kant abbia potuto essere interpretata come una pura propedeutica alla scienza: interpretazione che riceve una certa verisimiglianza anche dal contenuto dell’ultima parte della «Critica», la Dialettica; la quale comprende, com’è ben noto, una critica radicale dei risultati e dei metodi della metafisica. Ma in realtà questo esame mira a ben altro che ad un risultato puramente negativo: perchè se la metafisica fosse soltanto un’aberrazione dello spirito, come mai, dice Kant, potremmo spiegarci che [p. 135 modifica]essa persiste così tenacemente e rigermoglia, ogni volta che viene recisa, sempre più vigorosa?

Vi deve quindi essere nella natura stessa del nostro conoscere una secreta ragione di questa costanza del pensiero umano a voler penetrare al di là di questa realtà che conosciamo. Il lungo ed intricato esame, che Kant dedica nella «Critica» ai principii del conoscere, lo conduce a questa conclusione: che essi ci danno delle conoscenze reali soltanto nell’ambito dell’esperienza; ma che nello stesso tempo, portati alle loro conclusioni ultime, ci costringono a riconoscere che il mondo dell’esperienza è la traduzione umana d’una realtà razionale, non soggetta alle condizioni dello spazio e del tempo. Senza dubbio noi non possiamo più avere nessuna conoscenza vera e propria di questa realtà: anzi l’affermazione stessa della sua esistenza è soltanto, come Kant dice, l’affermazione d’un’esigenza: ma in ogni modo noi dobbiamo riconoscere che possiamo dare senso e realtà a questo nostro mondo, soltanto se pensiamo come fondamento dell’essere suo una realtà soprasensibile, che noi possiamo solo impropriamente designare ed esprimere.

Non deve quindi più farci meraviglia che il pensiero umano abbia in ogni tempo cercato di elevarsi verso questo mondo sovrumano: e che, abbandonandosi più al desiderio ed alla fantasia che alla fredda ragione critica, lo abbia raffigurato con immagini e concetti che hanno un senso soltanto nel mondo dell’esperienza: in questa necessità di una figurazione empirica hanno avuto la loro origine i miti e i dogmi delle religioni, come i sistemi della metafisica.

Però questa spiegazione non è ancora una giustificazione: se noi non possiamo nulla conoscere di questo mondo soprasensibile, perchè non ci chiuderemo in questa realtà umana, dove sono le nostre gioie e i nostri dolori, abbandonando ogni preoccupazione di ciò che vi può essere al di là di essa?

Qui noi passiamo al secondo punto essenziale della dottrina kantiana. Kant riconosce che la ragione ci rinvia ad un al di là, ma non è in grado di farcelo conoscere: e che quando s’illude di poter penetrare in questo campo, si avvolge in errori e contraddizioni inestricabili. Ma se la ragione non può farci conoscere il soprasensibile, essa può bene e con tutta sicurezza dirci come dobbiamo dirigere la nostra condotta per vivere come [p. 136 modifica]cittadini di questo mondo soprasensibile: questo è il senso della legge morale. Se la vera realtà è la realtà razionale, anche l’essere nostro nella sua più vera natura vi appartiene: esso aspira, anche attraverso i veli della natura sensibile, a conoscerla e ad immedesimarsi con essa. La conoscenza non ci conduce che al limite di questo mondo divino: al di là essa manca di una direzione sicura. Tanto più sicura invece è la direzione che la ragione ci dà come sentimento del dovere: qui veramente essa ci introduce, almeno praticamente, nel regno dell’assoluto.

Ora in che consiste questa legge? Kant qui si richiama a quella stessa distinzione fra sensibilità e ragione che abbiamo già incontrato nel campo del conoscere. In primo luogo noi siamo, anche praticamente, esseri soggetti al senso: gli impulsi, i desiderii, i sentimenti che procedono dall’azione delle cose e si riassumono nel desiderio della felicità, costituiscono la nostra natura sensibile pratica. Ma l’uomo normale non può stabilmente arrestarsi in questa sfera che è la sfera dell’animalità soddisfatta: vi è in lui qualche cosa che sente questa dipendenza dalle cose come una servitù dolorosa ed umiliante: nella legge morale parla al nostro spirito la voce del nostro essere che aspira a liberarsi dal suo asservimento ad una natura inferiore e non veramente nostra, che vuole superare definitivamente il regno delle realtà sensibili e vivere come la sua natura lo esige. Ma in qual modo possiamo comportarci, come esseri razionali noi, che siamo esseri sensibili ed immersi in un mondo sensibile? Noi ci comportiamo come esseri razionali, dice Kant, quando, pure vivendo ed operando in questa realtà sensibile, non prendiamo direttamente nessuna cosa sensibile come fine per sè stessa, ma ci proponiamo di seguire nei nostri rapporti con le cose una direzione tale che la nostra volontà possa armonizzarsi in un tutto coerente con le altre volontà razionali; in altre parole, operiamo come esseri razionali e liberi quando conformiamo la nostra volontà all’unità di tutte le volontà buone, quando realizziamo per parte nostra quell’unità e quell’armonia degli spiriti di cui abbiamo nella voce della coscienza il presentimento e la rivelazione pratica. Il dovere non è quindi legato a nessun’azione particolare: non vi sono azioni buone, ma solo volontà buone; di tutte le cose buone che [p. 137 modifica]sono sotto il cielo (ricordiamo le parole memorabili di Kant) una cosa sola può dirsi veramente buona ed è la volontà buona.

Con questo concetto della moralità Kant riconciliava e superava nel tempo stesso, come già nel problema del conoscere, le soluzioni avverse del dogmatismo e dell’empirismo. Al dogmatismo metafisico, per cui la moralità è l’obbedienza alla volontà di Dio, rivelata a noi nella legge naturale e nella legge positiva, Kant oppone che noi non abbiamo nessuna conoscenza vera e propria di Dio e dei suoi decreti; e che d’altra parte non potremmo fondare quest’obbedienza verso un essere esteriore che sui sentimenti egoistici della speranza e della paura. All’empirismo che cerca l’origine della legge nella simpatia od in altri sentimenti Kant obbietta che il sentimento e il dovere appartengono a due sfere di vita radicalmente diverse; il sentimento appartiene alla nostra natura inferiore, animale; il dovere è spiritualità pura, ragione. Anche qui però in fondo la posizione kantiana era un rinnovamento dell’antica morale metafisica e teologica, della quale Kant rigetta la veste mitologica per ritenerne la verità sostanziale: la legge del dovere, se non è più il decalogo del Dio di Mosè, è bene la voce della natura divina che in ciascuno di noi parla come il nostro essere più vero e più profondo. Di qui la radicale avversione di Kant ad ogni forma di sentimentalismo: di qui la severità e la solennità religiosa della sua morale. Se la legge morale è l’espressione di questa natura divina, è ben naturale che essa ripudii ogni contatto con gli affetti che ci legano a questo mondo inferiore e si affermi nella coscienza come un imperativo inesorabile e sacro. Quindi il dovere è tale solo se è compiuto come dovere: ogni volontà interessata, ogni compiacimento, ogni sentimento anche nobile ne offusca la purezza. Noi dobbiamo compierlo non perchè troviamo un’intima soddisfazione a compierlo, ma perchè è l’espressione d’una volontà sacra, dinanzi allà quale noi dobbiamo piegare la fronte con reverenza.

* * *

Il concetto della moralità come d’una elevazione pratica verso l’assoluto giustifica ora agli occhi di Kant — sebbene con qualche essenziale limitazione — l’antica metafisica. La legge [p. 138 modifica]della coscienza è per noi la sola rivelazione dell’Assoluto: noi, dice Kant, possiamo dare un senso al mondo solo considerando l’uomo che vive sotto la legge morale. Ma la conoscenza è accompagnata naturalmente dall’azione, l’azione dalla conoscenza. Non è allora legittimo che lo spirito nostro si costruisca un’immagine della realtà assoluta, in armonia con questa rivelazione?

Kant non respinge quest’esigenza: ma purché si ricordi sempre che noi non possiamo conoscere se non il mondo dell’esperienza e che ogni altra vantata conoscenza è un’illusione. Il mondo che sta dinanzi a noi è solo una realtà fenomenica, relativa all’intelletto umano: essa ha il suo fondamento in una realtà razionale pura e perfetta, la quale si rivela a noi praticamente nella legge morale. Nulla vieta quindi che noi cerchiamo di rappresentarci la realtà assoluta sul fondamento della rivelazione morale: purché si tenga sempre presente che questo può avvenire soltanto per mezzo di una rappresentazione simbolica: vate a dire di una rappresentazione inadeguata che ci è utile per la pratica, ma che noi non dovremo mai considerare come una conoscenza vera e propria. Così noi possiamo rappresentarci il mondo come costituito in sè stesso da un sistema di esseri spirituali, fondato su d’un’unità perfettissima, dalla cui volontà buona tutto procede e tutto dipende; possiamo pensare il mondo come guidato nell’intimo suo da questa volontà: e la nostra vita come una specie di prova salutare che ha al di là della morte il compimento dei suoi destini. Ma non dobbiamo considerare queste nostre rappresentazioni come conoscenze vere ed adeguate e tanto meno opporle alle conclusioni della scienza, che sole sono conoscenze vere ed obbiettive. Il torto dell’antica metafisica è stato appunto questo: di attribuire alle sue costruzioni il valore di conoscenze e di contrastare, alterare o turbare, in pro di questo vano sapere, il vero sapere della scienza. Kant dà a queste rappresentazioni simboliche della realtà assoluta il nome di fede; con cui naturalmente vuol designare non una fede dogmatica, ma una fede razionale, un complesso di convinzioni fondate sulle ultime conclusioni della ragione, ma ben conscie di essere la figurazione inadeguata d’una verità che trascende ogni nostra potenza di conoscere. [p. 139 modifica]

Le religioni e le rivelazioni storiche sono anch’esse, nella loro parte dogmatica, travestimenti simbolici tradizionali, che hanno la loro ragion d’essere nell’educazione religiosa delle moltitudini. Ciò che in esse è importante non sono i dogmi — che sono puri simboli e variano da religione a religione — ma il contenuto morale che è il solo punto in cui esse si accordino. Il che non vuol dire che la religione si debba ridurre alla morale; ma che la sola rivelazione religiosa che noi abbiamo è la legge morale e che perciò tutte le rappresentazioni con cui e le religioni e le filosofie la circondano e la spiegano hanno per fine primo ed essenziale di svolgere e rafforzare negli uomini la coscienza della legge e la pratica del dovere.

* * *

Io non ho voluto esporre qui in rapido abbozzo le linee fondamentali della concezione kantiana se non per mettere in luce la grandezza e la potenza di questo pensiero; e per mostrare nello stesso tempo quanto sia vivo e vicino a noi e come esso penetri e diriga ancora tutto il movimento del pensiero contemporaneo. Nessuno dei filosofi moderni può sotto questo riguardo essere messo anche lontanamente con lui in paragone. Certo anche Kant è stato un uomo: vi sono nello svolgimento del suo pensiero manchevolezze, incertezze e, sopratutto sotto l’aspetto della forma esteriore, esuberanze di distinzioni e classificazioni sistematiche, che sono la parte mortale della sua dottrina. Questo ha fatto anche sì che la sua filosofia sia stata interpretata in vario modo: i teologi hanno sulla sua fede morale edificato una nuova teologia, i filosofi naturalisti hanno eretto la sua parte negativa in sistema e ci hanno dato un Kant scettico e positivista. Ma questo era già accaduto nell’antichità a Socrate: e quante dottrine ed interpretazioni diverse non hanno cercato la loro giustificazione nel Vangelo! Ogni pensiero che si leva verso le regioni eterne presenta sempre, come la realtà, una molteplicità di aspetti ed è facile metterne in luce l’uno piuttosto che l’altro per mezzo d’un’interpretazione unilaterale. Questo vale sopratutto dell’interpretazione scettica, negativa, del pensiero kantiano, che ha avuto in ogni tempo numerosi seguaci e che è stata anche l’aspetto sotto il quale lo videro i suoi [p. 140 modifica]primi avversarii; Kant è stato chiamato da Mendelssohn il grande distruttore: ed anche oggi l’ortodossia lo combatte come il padre del subbiettivismo e dello scetticismo. Ora senza dubbio vi è nel suo pensiero questo aspetto: non si crea e non si rinnova senza distruggere. Ma l’opera sua se noi la consideriamo nel suo complesso, nel suo spirito, è stata essenzialmente opera di ricostruttore e di rinnovatore. Essa si accentra intorno ad una metafisica idealistica che è da lui naturalmente considerata, in accordo con i suoi principii, come una fede personale e perciò traspare dalla sua critica soltanto come un complemento od un presupposto: ma senza questo presupposto non è possibile comprendere nemmeno la critica. Sotto questo rispetto egli è veramente il più grande rinnovatore del platonismo nell’età moderna, il più grande filosofo della civiltà occidentale e cristiana. La sua critica è un poderoso strumento che è stato utilizzato anche dallo scetticismo: ma in realtà è diretto solo contro le rappresentazioni superstiziose della realtà assoluta e mira, attraverso questa negazione, a ricostruire sopra più solide basi una visione morale e religiosa del mondo.

Ciò che Kant ha distrutto ed irremissibilmente distrutto senza ritorno è il dogmatismo metafisico in tutte le sue forme: il dogmatismo teologico come dogmatismo materialistico. Però anche questo va inteso con una riserva: altrimenti non potremmo comprendere perchè verso la metà del secolo scorso, cento anni dopo Kant, abbiamo avuto un rifiorimento del materialismo nelle sue forme più grossolane: e perchè intorno a noi possa rifiorire la forma più servile ed antifilosofica del dogmatismo teologico, la filosofia tomistica. Ma nel mondo intellettuale avviene come nel mondo organico: dove accanto alle specie più alte e più perfette organizzate continuano a vivere i rappresentanti delle forme zoologiche più rudi e primitive. Se il dogmatismo teologico e il materialismo possono oggi ancora sussistere, nonostante Kant, ciò è perchè costituiscono tendenze e mentalità personali, chiuse al pensiero vivente, sorrette da sentimenti e tradizioni che non hanno col mondo dell’intelligenza nulla di comune.

Certamente i problemi metafisici e teologici sono ancora oggi i problemi fondamentali del pensiero filosofico: ma dopo la critica kantiana essi non possono più presentarsi a noi nella [p. 141 modifica]loro forma antica. Le discipline metafisiche tradizionali, in cui si divideva ogni trattato di filosofia prima di Kant, l’ontologia, la cosmologia, la psicologia filosofica, la teologia naturale, sono scomparse: a qual filosofo verrebbe oggi ancora in mente di scrivere un trattato di cosmologia o di teologia razionale? E quando scorriamo opere ispirate all’antico indirizzo, come p. es. quelle di Rosmini, noi ci sentiamo come trasportati in un’altra età geologica: noi possiamo ammirarle come monumenti storici, ma il loro spirito è per noi morto per sempre. Questa è la vera causa per cui il dogmatismo teologico vede in Kant il suo più terribile nemico. «Il veleno kantiano» è il titolo dell’opera che un dotto gesuita ha dedicato alla confutazione di Kant; naturalmente senza comprenderlo. Il veleno kantiano, una volta penetrato, non può più permettere di accostarsi ai problemi ultimi con quella semplicità, che accomuna ai nostri occhi la teologia con la mitologia: la pretesa di possedere intorno a Dio, all’anima ed al suo destino un vero e proprio sapere ci appare necessariamente come un’illusione ed una follia. Noi abbiamo nella testimonianza segreta del nostro spirito quanto è necessario per dare alla nostra vita una direzione sicura verso i suoi più alti destini: ed intorno a questa certezza, che sola è essenziale, possiamo tessere una fede personale nutrita di presentimenti e di speranze, fondate sulla ragione: il resto non è che superstizione grossolana, funesta così alla religione come alla ragione.

Del resto questa rinunzia al dogmatismo è così poco un avviamento allo scetticismo, che essa è anzi, secondo Kant, il solo mezzo di fondare la verità religiosa sopra un fondamento indistruttibile. Il dogmatismo volendo essere una scienza del mondo soprasensibile deve necessariamente introdurvi degli elementi e dei concetti derivati dal mondo sensibile: e così trasforma la realtà soprasensibile in una realtà che sta con gli esseri sensibili in uno stesso piano e in molteplici rapporti: onde una quantità di falsi concetti e di falsi problemi che travolgono necessariamente la filosofia dogmatica in controversie insolubili e la espongono alle giuste critiche della scienza come alle derisioni dello scetticismo. Ora l’unico modo di eliminare tali questioni è di riconoscere la distinzione fra il campo della scienza e quello della verità religiosa, fra il mondo dell’ [p. 142 modifica]esperienza e quello che la trascende. Così la scienza ha il diritto riconosciuto di svolgersi liberamente; e d’altra parte noi siamo sicuri che nessuna delle sue conclusioni può menomamente contrastare con la verità religiosa. Che cosa importa p. es. a noi se l’uomo deriva o non deriva da una specie inferiore? Questo è un problema puramente scientifico, che per la filosofia è completamente indifferente. D’altra parte però, se è vano voler decidere in base a preconcetti teologici circa una questione scientifica, è altrettanto vano voler trasformare la scienza in filosofia per opporla alla verità religiosa. Il materialismo e il naturalismo sono anch’essi forme di dogmatismo che la critica kantiana ha reso impossibili per sempre. Quando si è analizzata la struttura e i fondamenti del conoscere, come si può ancora con serietà discutere se la coscienza si risolva nelle funzioni cerebrali o se il mondo sia o non sia realmente composto d’atomi? Noi ci troviamo in questi casi dinanzi a concetti e teorie legittime e rispettabili nel campo dell’esplicazione scientifica; ma che, quando vengono erette in verità metafisiche ed applicate a spiegare i problemi che trascendono l’esperienza, si trasformano in immaginazioni ridicole e puerili.

* * *

Con queste conclusioni critiche del pensiero kantiano sono già stati implicitamente messi in rilievo anche i suoi principi positivi fondamentali.

Il primo è il trionfo definitivo dell’idealismo nella filosofia. Le controversie fra materialismo e spiritualismo, che hanno agitato per tanto tempo le scuole, sono tramontate per sempre: una realtà materiale assoluta è diventata per noi inconcepibile. Quindi il parlare di filosofia idealistica è un pleonasmo: ogni filosofia è oggi idealismo. Anche il pensiero naturalistico subisce questa legge: il jiaturafismo d’oggi è naturalismo idealistico e si chiama fenomenismo, pragmatismo, hegelianismo.

Il secondo punto è la determinazione critica dei fondamenti, dei metodi e dei limiti del pensiero scientifico. Kant non è stato un rinnovatore della logica: l’arido manuale che va sotto il suo nome non esce sostanzialmente dalle linee tradizionali. Ma Kant era profondamente penetrato dallo spirito scientifico: le prime [p. 143 modifica]sue opere sono di carattere scientifico e testimoniano della sua penetrazione singolare anche in questo campo. Basti ricordare la sua ipotesi cosmogonica sull’origine naturale del sistema solare, pubblicata nel 1755, in cui precorre di mezzo secolo Laplace; la sua memoria, pubblicata nel 1754 e intitolata: «Se la terra nella sua rotazione abbia subìto qualche mutamento», dove dà la prova del rallentamento graduale della terra nella rotazione intorno al proprio asse — prova che doveva essere riscoperta dopo un secolo; la sua teoria dei venti, che mette in connessione le correnti aeree con la rotazione della terra e che venne riscoperta nel 1835 da un fisico inglese. Non parrà strano quindi che nella sua «Critica» egli ci abbia dato non solo una critica della metafisica, ma anche, e per la prima volta, un’analisi ed una critica della scienza: il concetto rigoroso della ricerca scientifica, la netta separazione della scienza dalla filosofia, la giustificazione filosofica dei loro principii, la costituzione d’una logica delle scienze sono conquiste che datano dalla critica kantiana.

Ma il punto più importante e più essenziale per noi è l’aver reso possibile un nuovo e sicuro fondamento della concezione religiosa della vita. Presupposto e fondamento di tutta la filosofia kantiana è una metafisica idealistica, rigorosamente delimitata e sottoposta al controllo del pensiero critico, culminante in una morale di carattere religioso. I principii dell’intelletto per quanto ci diano un effettivo conoscere solo nell’esperienza umana, nondimeno, considerati in sè, ci rinviano necessariamente al di là dell’esperienza ad una realtà che è, rispetto a questa, trascendente, accessibile soltanto alla pura ragione. Noi che non siamo puri esseri razionali, possiamo averne notizia, non vera conoscenza; ma al difetto della conoscenza supplisce la ragione, come ragione pratica, con l’imporre alla nostra volontà l’esigenza d’una direzione razionale della vita. Certo la ragione non ci dà anche sotto l’aspetto pratico che poco più d’un indirizzo: essa non ci trasporta nel soprasensibile puro, ma ci sprona a superare la sfera del senso ordinando la nostra vita sensibile in modo che essa corrisponda alle esigenze della natura razionale. Tuttavia anche in questa forma la voce della legge morale è qualche cosa che già trascende la realtà in cui viviamo, è l’imperativo di una natura [p. 144 modifica]divina, è un imperio religioso. La profonda influenza che la morale kantiana ha potuto esercitare sopra la sua età e il fascino che anche oggi essa esercita sopra le più nobili coscienze è dovuto appunto a questo: che essa è un insegnamento religioso sotto forma di un imperativo morale. Tale è infatti l’aspetto sotto cui è apparsa la filosofia critica ai suoi contemporanei: e tale era in realtà il suo spirito animatore. Noi abbiamo ancora notizia della profonda azione esercitata dai corsi di teologia nazionale che Kant teneva dinanzi ai giovani teologi, perchè, come egli si esprime, «si diffondesse per tutta la patria tedesca la chiara luce d’una religiosità razionale»; e la letteratura teologica del tempo abbonda di trattati, raccolte di prediche, catechismi, informati ai principii kantiani. Quest’influenza si è estesa, strano a dirsi, anche nel campo cattolico. È noto il favore che incontrò Kant verso la fine del secolo XVIII presso le Università cattoliche della Germania meridionale. Il padre Reuss, professore a Würzburg, viene a visitarlo a Königsberg anche a nome del suo vescovo. E sono anche qui numerosi i volumi di prediche cattoliche, i libri di devozione, i catechismi, ispirati alla filosofia kantiana: un cappellano di Heidelberg viene nel 1803 accusato d’aver modificato la liturgia per adattarla ai principii kantiani; un benedettino anonimo pubblica nel 1796 un elogio di S. Benedetto secondo lo spirito kantiano. E questo, diciamolo a titolo di curiosità, è anche l’aspetto sotto cui è apparso Kant ai primi suoi ammiratori dell’estremo Oriente. In un catechismo buddista giapponese Kant è posto fra i bodhisattvas, ossia fra i saggi destinati a rinascere come Buddha; e un anonimo riferisce, in una rivista cinese, d’aver assistito a riti cerimoniali celebrati nei seminari filosofici giapponesi in onore dei quattro grandi saggi del mondo: Buddha, Confucio, Socrate e Kant.

* * *

Il valore del pensiero kantiano per l’età nostra non è quindi soltanto un valore filosofico, ma anche culturale e religioso. La vita del secolo nostro si agita ancora in mezzo ai contrasti che hanno occupato per secoli il pensiero: fra il materialismo, l’incredulità e la licenza da una parte, il dogmatismo, la [p. 145 modifica]stizione e il dispotismo dall’altra. La ragione profonda di questo dissidio è la lenta, ma continua decadenza della coscienza religiosa nel nostro pensiero occidentale. Le chiese si sono irrigidite nei loro dogmi, la religiosità si è meccanizzata in una deviozione da calendario: lo spirito le abbandona. Quindi non meraviglia che l’influenza loro sia andata irreparabilmente scemando in tutte le classi sociali; l’intelligenza soffocata e bandita si è ribellata con le armi della scienza e della critica: e questo senso di rivolta si è diffuso, armato di odio e di scherno, anche nelle più umili classi sociali. Questo è un processo che dura da secoli: noi portiamo oggi le conseguenze delle colpe dei nostri padri. La vita si è materializzata in tutte le sue sfere; gli interessi economici — ecco la sacra parola che tutto spiega e tutto giustifica; la parola che ispira le agitazioni febbrili degli uomini e la politica degli Stati, come le lotte fra le classi sociali. Quando mai si è sentito in questo tumulto bestiale una coscienza umana fare appello ad una legge morale o religiosa? Ma dall’altra parte che cosa ci offrono le chiese? Esse possono ancora esercitare un’azione salutare nelle sfere più umili, dove manca ogni esigenza intellettiva e scarso è il senso dell’indipendenza morale. Ma può ancora oggi un uomo intelligente, colto e sinceramente religioso, accogliere con chiara e sincera coscienza gli insegnamenti d’una chiesa qualunque? Io non lo credo. Le chiese sono in gran parte anch’esse sistemi di interessi pratici ed economici, istituti mondani che si reggono per la pazienza di Dio e la stoltezza degli uomini. Quale è la via d’uscita da questo pauroso stato di cose?

Nessuno creda che io voglia trarre occasione da queste amare riflessioni per proclamare come unico, infallibile rimedio i dogmi kantiani: io non conosco il rimedio: e guardo anch’io con curiosità e tristezza questa civiltà nostra che oscilla da destra a sinistra e da sinistra a destra senza mai trovare un punto sicuro e intanto discende lentamente la china della dissoluzione. Ma certamente, se da qualche parte potrà venire la salute, essa potrà veniva soltanto da un rinnovamento spirituale, da una restaurazione religiosa. Perchè l’anima delle civiltà è la vita religiosa: e quando questa declina, anche la civiltà declina. Tutto il resto è esteriorità ed apparenza. E se un rinnovamento della nostra coscienza religiosa è [p. 146 modifica]ancora possibile, questo è possibile soltanto nell’indirizzo che Kant ha tracciato: d’una religiosità ricondotta alla sua più pura interiorità, informata ad uno spirito morale severo, fondata sulle conquiste più alte della ragione e rispettosa dei sacri diritti della personalità e della coscienza.

Ma questo non è forse che un sogno: uno di quei sogni che lo spirito si tesse, quando si rappresenta la realtà come illuminata ed animata dai fini stessi dello spirito. E non è veramente un sogno lo sperare che una dottrina alta e pura possa diventare il pane spirituale delle moltitudini, penetrarne la coscienza, elevarle verso le forme più delicate e più nobili della vita? Lasciamo quindi queste illusioni, che del resto non hanno importanza. Se un voto io posso a questo riguardo formulare, questo è ben più ragionevole e modesto: ed è il voto che gli spiriti assetati di verità, di libertà e di giustizia, travagliati dalle contraddizioni spirituali dell’età nostra, possano nel pensiero kantiano trovare quella direzione, quell’elevazione e quel conforto che non possono trovare in nessuna religione ed in nessuna chiesa. Perchè l’opera dei grandi filosofi non è solo destinata a nutrire le dispute degli eruditi ed i clamori delle scuole: il suo compito più vero e più alto è quello di confortare, fortificare e guidare nei secoli le anime migliori e perpetuare così attraverso i tempi quella comunione dello spirito che è già qui il più grande dei beni e nello stesso tempo fondamento e speranza d’un bene più duraturo e più alto.

  1. Discorso commemorativo tenuto al Circolo Filologico Milanese il 4 maggio 1924.