Dopo il divorzio/Parte seconda/Cap. XIV
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XIV.
La camera ove giaceva Giacobbe Dejas era di un’altezza straordinaria, e così vasta che il lume ad olio non riusciva ad illuminarne abbastanza gli angoli. Bisogna dire però che i mobili erano proporzionati: un guardarobe di legno rosso, sulla parete di fondo, raggiungeva il soffitto, ed aveva alcunchè di grave e pensoso; il letto di legno, attorno ai cui piedi girava una fascia di stoffa giallognola, era alto e maestoso come una montagna. Non so che di misterioso era in quella camera dagli angoli bui e dal soffitto alto e livido come un cielo nuvoloso; la minuscola figura di zia Anna-Rosa vi si smarriva come nell’immensità di una campagna: appena il suo petto arrivava alla sponda del letto.
Giacobbe Dejas sognava, su quel letto immenso. Aveva la febbre a 39 gradi. Gli pareva di essere ancora entro il fosso; ma i due uomini che l’avevano sotterrato continuavano ad accumulare la terra attorno alla sua testa, soffocandolo. Ed egli soffriva immensamente; ma lasciava fare, sperando di guarire più presto se lo sotterravano fin sopra la testa; e la sua testa era prete Elias, sul cui petto s’agitava la coda minuscola d’una tarantola. Nel sogno Giacobbe sentiva un pazzo terrore della morte.
Quando egli era entrato nel forno tiepido, aveva pensato che l’inferno poteva essere un forno acceso, entro il quale i condannati dovevano stare in eterno distesi.
Ora nel sogno gli si riproduceva esattamente quella impressione. Dal fosso, mentre la terra gli si accumulava attorno al viso, ed egli stringeva la bocca per non ingoiarne, vedeva un forno acceso. Era l’inferno. Egli provava un terrore tale che, anche nel sogno, anche nell’incoscienza febbrile dell’incubo, il suo istinto ebbe il bisogno prepotente di percepire che tutto era una illusione dei sensi. E si svegliò; ma svegliandosi provò l’impressione che, se fossero sensibili, dovrebbero provare le pietre in un incendio: sentirsi ardere e non potersi muovere, non poter sfuggire all’orrendo destino. Giacobbe Dejas provò qualche cosa di simile; come se stesse, fatto pietra, entro un mucchio di brage, entro un forno acceso, nell’inferno. E sveglio provò un terrore ancora più feroce di quello sentito in sogno. Diede un grido, un — ooh — sordo e grave, il cui suono lo confortò come una voce umana risuonante presso di lui nell’orrore dell’inferno.
Dalla cucina attigua zio Isidoro, — che era rimasto per aiutare in ciò che poteva la piccola vedova, — sentì quel grido nel sonno ed ebbe paura; si svegliò pensando che Giacobbe fosse morto; balzò su ed entrò nella camera. Avvicinatosi al letto vide il malato coricato supino, con la faccia stranamente allungata, e gli occhi, che sembravano neri, lucenti di lacrime.
— Sei sveglio? — domandò piano piano il pescatore. — Che cosa vuoi?
Gli toccò il polso, avvicinandovi l’orecchio come per sentirne il battito. Subito dopo Giacobbe vide dall’altra sponda del letto il visino di sua sorella, avvolto in un fazzoletto bianco.
Allora accadde una cosa strana: il viso del malato si accorciò, la bocca si allargò, gli occhi si strinsero; e un gemito lungo sibilò nella camera. La piccola donna rivisse in un tempo lontano, quando su quel medesimo letto Giacobbe bambino piangeva; protese quindi le braccia, accarezzò il malato, parlò fra dolce e irritata:
— Siano benedette le sante anime del Purgatorio, che cosa hai, cosa ti senti, fratellino mio?
Isidoro, stupito, continuava a tastare il polso del malato, cercando ora una vena, ora l’altra, e diceva:
— Oh! Oh! Questa è curiosa!
— Ebbene, che hai? Vuoi dirmi che cosa hai? Che cosa ha avuto, dillo tu, Isidoro Pane?
— Ma niente... ma niente... Ha gridato, ecco tutto. Forse ha fatto un cattivo sogno. Ora gli diamo un po’ di acqua, ecco. Porta un po’ d’acqua. Ecco, ora bevi. Eh, come bevi! Avevi sete? Capisci, è la febbre, ecco tutto.
Bevuta l’acqua Giacobbe, che s’era seduto, si calmò completamente. Egli indossava una vecchia maglia di cotone bianco, che gli disegnava il corpo piccolo, ma robusto; il petto coperto di fitto pelo nero contrastava con la testa e la faccia perfettamente rase. Rimase seduto, curvo in avanti, pensoso, passandosi la mano sana sul braccio malato.
— Sì, — disse ad un tratto, con la voce ansante e lamentosa dei febbricitanti — brutto sogno, ho fatto. Che caldo, San Costantino bello! Un caldo da forca. Ho sognato l’inferno.
— Che idee! che idee! che idee! — disse la sorella con rimprovero.
E zio Isidoro scherzoso:
— E c’era caldo, uccellino di primavera?
Il malato s’irritò alquanto:
— Non burlare, non dire più «uccellino di primavera». Mi fai arrabbiare. Io non lo dirò più, io non mi burlerò più di nessuno. Ascoltatemi, — disse poi, sempre a capo chino, palpandosi il braccio. — L’inferno è una brutta cosa. Io devo morire, e devo dirvi una cosa. Ecco, non spaventarti, Anna-Rosa, tanto io devo morire. E voi lo sapete già, zio Isidoro, quindi ve lo posso dire. Ecco, sono io che ho ammazzato Basile Ledda.
Zia Anna-Rosa spalancò gli occhi, spalancò la bocca, appoggiò il petto al letto e cominciò a tremare convulsivamente.
— Io non sapevo niente! — gridò Isidoro.
Allora Giacobbe sollevò il viso spaventato e cominciò anch’egli a tremare.
— Non mi farete arrestare? — disse, supplichevole. — Tanto io morirò. Lo direte poi? Io credevo che lo sapeste! Che cosa hai, Anna Rò? Non aver paura, non mi farà arrestare.
— Non è ciò! — disse ella, rimettendosi alquanto. Le era parso ricevere un colpo di pietra sul capo. Ora l’impressione fisica svaniva; ma una cosa misteriosa accadeva entro di lei, come se la sua anima se ne andasse, e ne prendesse il posto un’altra anima che vedeva le cose, il mondo, la vita, il cielo, la terra, Dio, in modo diverso da quello dell’anima fuggente. E tutte le cose vedute dalla nuova anima erano piene di orrore, di oscurità, di caos.
— Io non dirò niente. No. No. Ma io non sapevo niente. Come potevo saperlo? — protestò Isidoro. Egli non sentiva orrore di Giacobbe, anzi ne provava pietà; ma nello stesso tempo gli desiderava la morte.
E subito tutti e tre i personaggi di quel dramma pensarono a Costantino, e questo pensiero non li abbandonò più un istante.
— Còricati, — disse Isidoro, battendo la mano sul cuscino.
Ma l’altro scosse il capo; e riprese, con la sua voce lamentosa e ansante, a volte supplichevole, a volte irritata:
— Io credevo che voi lo sapeste: ah, dunque non lo sapevate? Ah, vero! Come potevate saperlo? Io avevo paura di voi, però: credevo che mi leggeste negli occhi. Ecco, una notte, in casa vostra, mi diceste «puoi essere stato tu ad uccidere Basile Ledda». Io ebbi paura, quella sera. Poi un altro giorno, il giorno dell’Assunzione, qui, in questa casa, voi mi diceste «assassino!» Era uno scherzo, ma io ebbi paura, perchè avevo paura di voi. Ebbene, quando vi proponevo di maritarvi con mia sorella lo faceva sul serio: pensava di legarvi a me.
— Gesù Cristo mio! mio piccolo Gesù Cristo! — gemè la vedova.
Giacobbe la guardò un momento.
— Tu hai paura, eh? Perchè l’ho fatto, tu chiedi? Ebbene, perchè odiavo quell’uomo. Egli mi aveva bastonato. Egli mi doveva del denaro. Ma mi parve di morire quando condannarono Costantino Ledda. Perchè io non ho confessato allora? Voi dite così, voi! Eh, è facile dirlo; ma farlo era impossibile. Costantino è un buon ragazzo, io pensavo: morrò prima di lui, confesserò tutto. E ciò che fece Giovanna Era mi invecchiò di cento anni. Che cosa dirà Costantino quando ritornerà? Che cosa dirà? — ripetè sommessamente, come interrogando sè stesso. — Che cosa faremo ora?
Zia Anna-Rosa chinò la faccia sulla coltre e sospirò: le pareva sognare un orribile sogno.
Ma neppure un istante pensò che dovevasi occultare la rivelazione del fratello. E dopo?
Due cose parimenti orribili al suo cuore dovevano accadere: o la morte di Giacobbe o la sua condanna. Ella non sapeva quale scegliere.
— Ora ci corichiamo e riposiamo: domani penseremo al da farsi, — disse zio Isidoro. E battè nuovamente la mano sul cuscino. Giacobbe tornò a coricarsi supino e sollevata la mano sana cominciò a contare con le dita:
— Prete Elias uno; poi il sindaco, poi... come si chiama, Brontu Dejas. Sì, sì. Appunto lui. Li voglio qui, confesserò a loro.
— A Brontu Dejas? — chiese stupito zio Isidoro.
— Perchè egli più di tutti sarà creduto. Ma prima, tutti mi giurerete sul crocifisso che mi lascerete morire in pace. Io ho paura. Mi lascerete morire in pace, dunque?
— Ma sì! Sta tranquillo, ora. E voi, piccola comare, tornate a letto; riposatevi, dormite, — disse il pescatore con voce tranquilla, accomodando le coperte intorno al malato, che si scopriva sempre, si agitava, scuoteva la testa.
— Ho caldo, — diceva Giacobbe — ho caldo; lasciatemi stare. Come non vi meravigliate voi, zio Sidore? Ah, io rimasi servo per non dar dei sospetti. Ma voi sapevate. Sì, sì, sapevate.
— Non sapevo nulla, ti dico, figlio di Dio.
— E allora perchè non vi meravigliate?
— Perchè? — disse l’altro con voce grave. — Nel mondo ne succedono tante! Son cose del mondo. Ebbene, sta coperto e cerca di dormire.
La vedova, che pareva non avesse ascoltato quanto i due uomini avevano detto, sollevò il viso. Ed il piccolo viso s’era fatto giallo, pieno di rughe; pareva che tutti gli anni passati placidamente senza poter solcare quel volto, avessero preso la rivincita in un attimo.
— Giacobbe, — disse la donnina, — non ci sarà bisogno di testimoni. Non ci sarà bisogno di chiamar nessuno. Non basterò io?
Egli si sollevò ancora e guardò Isidoro. Isidoro guardò lui, ed entrambi dissero:
— È vero.
Dopo di che una gran calma parve spandersi nella camera giallognola e misteriosa. Il malato tornò a stendersi sul letto, tacque, si calmò, si assopì; anche la vedova acconsentì ai consigli di zio Isidoro ed andò a coricarsi. La faccia grave del guardarobe rossastro tornò a dominare pensosa nella penombra, ed il soffitto color nuvola gravò sul silenzio della camera come sopra una campagna deserta. Le cose tutte, calme, impassibili, parevano ripetere le parole di zio Isidoro:
— Cose del mondo!
Il medico condotto di Orlei, dottor Puddu, era una specie di bestia grossa e gonfia. Un tempo anche egli aveva avuto grandi ideali; ma la sorte lo aveva sbalzato in quel paesello solitario, ove la gente raramente ammalava, ed egli s’era dato a bere, prima di tutto per scaldarsi, — essendo egli meridionale, — poi perchè i liquori ed il vino gli piacevano immensamente. Ora egli era, oltrechè alcoolizzato, completamente incretinito, tanto che neppure gli abitanti di Orlei lo stimavano.
Giacobbe Dejas si lamentava di un dolore al fianco e dottor Puddu gli cauterizzava la mano ferita dalla tarantola, e gli diceva con voce rauca:
— Stupido. Non si muore di queste cose. D’altronde, se muori tu è come muoia un asino.
Zia Anna-Rosa lo guardava con ira e brontolava. Era diventata collerica, la povera donnina; si arrabbiava con tutti, tranne che col malato. E come sembrava vecchietta, ora! Dopo quella notte, il suo visetto era rimasto giallo e rugoso; non pareva più quello.
La rivelazione del fratellino l’aveva cambiata in modo strano, fisicamente e moralmente. Ella si chiedeva, con profondo stupore, come mai Giacobbe aveva potuto uccidere un uomo.
— Egli! Egli che era allegro e mansueto come un agnello. Come mai, animuccie sante del Purgatorio? Eppure nostro padre non era un ladrone, no; era un uomo di Dio, sempre allegro e così scherzevole che quando un amico si sentiva di malumore cercava la sua compagnia.
La donnina s’inteneriva pensando al vecchio padre defunto; ma, ecco, un’orrenda nuvola le oscurava la mente, e tutto il suo visetto si raggrinzava per l’orrore di un terribile pensiero:
— Che anche il vecchio allegro, il vecchio santo, avesse anch’egli commesso qualche delitto?
Non c’era più da fidarsi di nessuno, nè dei vivi, nè dei morti, nè dei vecchi, nè dei fanciulli. Poi zia Anna-Rosa piangeva, si batteva il petto col piccolo pugno, si pentiva dei suoi dubbi orrendi; e andava presso il malato, ed il malato, col suo viso solcato dalla sofferenza fisica e gli occhi pieni di spavento, che pareva supplicassero la morte di risparmiarlo, le destava una grande, infinita pietà, una tenerezza materna, un dolore senza nome.
Egli era più che mai il suo fratellino, così raggomitolato sull’immenso letto; così spaventato, così rimpicciolito dal male; e mentre tutte le cose, tutte le persone, e persino i morti più sacri, e persino i fanciulli innocenti, destavano in lei dubbi atroci, diffidenze amare, rancori profondi, egli solo, egli solo le destava pietà, tenerezza, amore, e una dolcezza struggente e calda come la cera accesa. Ed intanto doveva vederlo, lo vedeva morire, e doveva desiderargli la morte; e curandolo con tenerezza attenta, doveva desiderare che i medicamenti, che le cure, che tutto fosse inutile. E questa morte, questa cosa orribile che ella doveva desiderare al suo «fratellino», oltre il dolore profondo per sè stessa, doveva recarle un’altra cosa più orribile ancora: la denunzia del delitto.
Ma ciò che era più triste di tutte queste cose, per zia Anna-Rosa, era che il malato s’accorgeva dei sentimenti di lei.
Infatti, al terzo giorno della malattia, Isidoro portò con gran mistero una medicina prestatagli dal sagrestano. Questa medicina era composta d’olio d’oliva entro cui avevano galleggiato tre scorpioni, un centopiedi, una tarantola, un ragno, un fungo velenoso: guariva qualsiasi puntura. Zia Anna-Rosa unse subito la mano gonfia e livida del malato: ed egli lasciò fare, guardando attentamente la mano, ma poi disse con voce calma:
— Perchè mi curi, Anna-Rò? Non vuoi tu che io muoia?
Ella si sentì spezzare il cuore.
— Fatto anche questo! — disse poi Giacobbe, guardando Isidoro. — Ma se io non morrò, come farete voi?
— Dio ci penserà; sta tranquillo.
Egli tacque un poco, poi disse: — Andrete assieme dal giudice?
— Cosa?
— Dal giudice. Ora fa freddo, però: il viaggio è lungo. Ebbene, Anna-Rosa, non viaggiare a cavallo, sai? Va in carrozza, a Nuoro.
— Per che cosa? — ella chiese, irritata, fingendo non comprendere.
— Ebbene, per il giudice, ecco!
Ella lo sgridò, poi uscì in cucina e pianse amaramente.
— Ecco il tuo olio, — disse ad Isidoro, quando egli uscì per andarsene. — Potevi fare a meno di portarlo. Quando verrà prete Elias?
— Egli verrà stasera.
— Sì. Bisogna che Giacobbe si confessi. Il tempo vola, egli sta male. Stanotte non ha chiuso occhio. Ah, — disse poi, — egli mi sembra un uccellino ferito.
— Sono venuti i Dejas? — chiese l’altro.
— Sono venuti. Madre e figlio; anzi Brontu è venuto due volte. Sì, vengono, vengono tutti; ma a che serve ciò? — diss’ella con disperazione. — Non possono dargli nè la vita nè la morte.
— Son buone e cattive entrambe, per lui, — disse Isidoro, avvolgendo accuratamente nel suo fazzoletto rosso la bottiglina dell’olio.
— E per tutti — rispose la donna.
Poco dopo venne il medico, avvolto in un paletò stretto, col colletto unto. Egli era già ubbriaco; sbuffava, sputava di qua e di là, e qualche volta anche sopra sè stesso; e dalle labbra livide gli scaturiva un alito vaporoso, puzzolente di acquavite. Tuttavia si allarmò per lo stato di Giacobbe.
— Che cosa diavolo hai? — gli chiese rudemente. — Il fianco? Il fianco? Hai diavoli al fianco! Vediamo un po’.
Rigettò le coperte, scoprì il fianco velloso di Giacobbe, lo palpò, vi mise su l’orecchio.
— È un corno! Sei viziato come una creatura, — disse, ricoprendolo in malo modo. Ma quando zia Anna-Rosa lo accompagnò fino alla porta, egli si rivolse e la fissò.
— Donnina, — le disse, — fatelo adunque confessare perchè egli ha la polmonite.
Sull’imbrunire Giacobbe si confessò. Poi fece chiamare la sorella e disse:
— Anna-Rò, anche prete Elias verrà con te, dal giudice. Andrete in carrozza perchè fa freddo.
Infatti fuori nevicava: un barlume biancastro, di una infinita melanconia, penetrava ancora nella grande camera misteriosa, il cui soffitto sembrava un cielo grave di nuvole.
Prete Elias guardò zia Anna-Rosa, alla quale egli voleva un gran bene perchè rassomigliava alquanto a sua madre: ella s’era fatta ancora più piccina, tutta nera nella penombra triste del crepuscolo nevoso, e chinava la faccia, vergognosa del delitto del suo «fratellino». Prete Elias capì istintivamente tutto il dramma eroico di quella povera anima, e mentalmente la benedisse.XIV.
Era di maggio. La grande vallata dell’Isalle, di solito così severa, coperta di altissime erbe, di macchie fiorite, di campi d'orzo che ondulavano alla brezza come drappi d'oro verdognolo, rideva alla primavera, simile ad un vecchio selvaggio, ubbriaco di sole e di profumi, copertosi per ischerzo di fronde e di ghirlande.
Fischi acuti e liquidi di uccelli canori gorgheggiavano come note di flauto nell’immenso silenzio della valle, quasi fondendosi con la fragranza dei narcisi e delle ginestre. E narcisi e ginestre, i cui grandi cespugli fioriti pareva fossero stati immersi in un bagno d'oro liquefatto, s'abbandonavano sull'orlo dei ciglioni, come intenti a guardare il fondo della valle.
Una fata immensa era passata, stendendo tappeti di fiori violetti, fantasmagorie, fragranze. Certe praterie erbose, picchiettate di ranuncoli, da lontano parevano lembi di lago verde riflettente il cielo stellato. I radi alberi ridevano e bisbigliavano alla brezza.
Era appena tramontato il sole. Il cielo ad occidente aveva il colore della pesca matura, mentre ad oriente ed al nord le montagne posavano come enormi pietre preziose sopra una fascia di raso lilla.
Costantino Ledda, scarcerato poche ore prima a Nuoro, ritornava a piedi al suo paese, scendendo la valle senza affrettarsi, con una piccola bisaccia di tela sulle spalle. Qualche volta si fermava, guardando di qua e di là dal sentiero, e pensava:
— Oh, oh, — la valle mi sembra più piccola, ora. Sarà perchè ho visto il mare.
Egli era invecchiato, sbarbato, molto bianco in viso, ma non aveva affatto un’aria tragica come gli sarebbe convenuta. Ritornava solo ed a piedi perchè non aveva avuto modo d’indicare il giorno preciso della sua scarcerazione; altrimenti qualche parente o qualche amico non avrebbe mancato d’andargli incontro. Inoltre l’impazienza di rivedere il paesello lo urgeva.
Scendeva, scendeva. Era quasi allegro, forse perchè a Nuoro aveva bevuto del vino, provvedendosene anche per il viaggio. Nello scendere le gambe qualche volta gli si piegavano, ma egli non si turbava per così poco.
— Ecco, — pensava, — quando non ne posso più, mi sdraio e dormo. Ho del pane e del vino nella bisaccia. Che altro occorre? Io sono libero come gli uccelli. Ah! sì, sono celibe. Guarda che cosa curiosa! Una volta avevo moglie, ora sono scapolo.
Gli parve di ridere internamente. E scendeva e scendeva, ora guardando il sentiero giallognolo tracciato fra l’erba alta, ora guardando gli uccelli, che avevano destato il suo paragone e che volavano bassi, quasi sfiorando il suolo, ritirandosi nelle macchie per dormire. Ricordò la vecchia gazza del reclusorio e sentì qualche cosa scioglierglisi entro il petto.
Ebbene, perchè negarlo? Egli aveva provato dolore nel lasciare quel luogo di pene, quei compagni che non amava, quei muri orrendi, quel cielo che l’aveva per tanti anni oppresso dall’alto del cortile come una lastra di metallo.
Dopo la morte del vero colpevole giorni e mesi erano trascorsi prima che la giustizia avesse esaurito le sue formalità per liberare l’innocente. In quei mesi Costantino, informato di tutto, aveva smaniato ed i giorni gli erano parsi anni; eppure, nell’andarsene, aveva quasi pianto. Ed il suo intenerimento doloroso, che sembrava di pietà e di carità verso coloro che restavano, era invece per le cose che lasciava, per ciò che queste cose avevano assorbito della sua vita, del suo essere e del suo destino.
Ora anche questo dispiacere era passato. Tutto era passato. Anche il grande dolore per il procedere di Giovanna.
Tanto è vero che gli pareva di poterne ridere.
Scendeva, scendeva. Giunse in fondo alla valle e cominciò a costeggiare l’Isalle; la luce del tramonto era ancora vivissima e l’acqua brillava qua e là fra gli oleandri ed i giunchi, riflettendo il bagliore roseo-giallo del cielo; le ombrelle di merletto dei sambuchi e i bottoncini acuti di corallo scuro degli oleandri si disegnavano sull’aria lucida come sopra uno smalto d’argento. Costantino, già stanco, pensava che la valle non era poi così piccola come gli era parsa al primo rivederla.
— Dormirò bene in campagna, — pensava. — Ma sarebbe stato così curioso arrivare lì: — dun! dun! alla porta di Isidoro. — Chi è? — Io. — Chi, tu? — Ebbene, Costantino Ledda! — Che viso, quell’Isidoro! Chissà, egli canterà il rosario a quest’ora. Ed anche quelle laudi!... Sì, oh, guarda! Io ho fatto delle laudi. Che cosa curiosa!
Si meravigliava di certe cose passate, come i giovani si meravigliano di certe cose fatte o vedute da bambini. Ma Costantino si meravigliava anche di molte cose presenti; per esempio si meravigliava che fosse primavera, che la valle apparsagli così piccola fosse invece interminabile, e che egli la percorresse per ritornare al suo paese.
Camminava fra due campi di frumento, sul quale la luce gettava un velo d’oro e la brezza passava carezzandolo come una grande mano invisibile; e pensava:
— Egli mi dirà: vieni dentro. Mi ha offerta la sua casa. Poi mi dirà: È morto Giacobbe Dejas; sai, è stato lui! — Ma io lo so già, diavolo, non hai altro da dirmi? — Ecco, tua moglie ha preso un altro marito. — Eh, lo so già, anche, questo. — Come, tu non piangi? — Perchè devo piangere? Ho già tanto pianto che ora non ne ho più voglia. O chi credi che io sia? Ora ho bene dell’esperienza: ho viaggiato, ho visto il mare, non sono più un ragazzo. Non m’importa più nulla.
Ma ecco, improvvisamente, mentre egli vantava la sua forza d’animo, o meglio il suo istintivo scetticismo, si sentì il cuore stretto da una mano fredda.
— Ah, ritornare là, nella piccola casetta; trovare Giovanna, il bambino, il passato!
— Non c’è più nulla, — disse a voce alta. — È passato il vento ed ha portato via tutto. Tutto... Tutto... Tutto... — Sul confine del campo di frumento si sedette soffocato dal dolore. Ecco cosa era. Il grande dolore era andato via, sì, da tempo, ma pareva si fosse nascosto sotto terra e camminasse là dentro, seguendo Costantino. Per lungo tempo egli non vedeva il mostro nascosto, ma v’erano poi certi momenti nei quali il mostro balzava su, squarciando il suolo col suo capo potente, e divertivasi a slanciarsi sulla vittima, azzannandogli la gola, spremendogli il cuore, soffocandolo. Poi tornava a nascondersi. Seduto sul confine del campo di frumento, Costantino trasse dalla sua piccola bisaccia una zucca secca piena di vino, e bevette arrovesciando il capo. La rimise e guardò il campo. Pareva d’essere sulla riva d’un lago, sul cui smeraldo dorato galleggiassero le macchie di sangue dei papaveri.
Poco dopo il reduce riprese il suo viaggio, e sembrava rasserenato, ma non camminava più con l’ardore di prima. Arrivare quel giorno, arrivare l’indomani valeva lo stesso, tanto non aveva nessuno che l’attendesse. E va, e va, le prime ombre della sera lo avvolsero mentre finiva di percorrere il fondo della valle. I grilli pareva segassero l’erba con piccole seghe di argento, i profumi dei fiori e dei cespugli gravavano tiepidi nell’aria; la brezza s’era spenta, gli uccelli tacevano, e solo i triangoli neri dei pipistrelli solcavano la cenere luminosa del crepuscolo.
Oh, la divina tristezza delle sere di primavera, che rattrista anche le anime felici! Non è forse essa la nostalgia atavica del paradiso terrestre, dei fiori e delle erbe e del tepore fragrante d’un’eterna primavera, per cui l’uomo fu creato e che egli ha perduta in eterno?
Costantino camminava e camminava; dopo lunghi anni di brutale oppressione, passati tra mura infette, fra uomini corrotti, in un cerchio ove l’aria stessa era imprigionata, egli attraversava lo spazio libero, calpestava l’erba, le pietre, ed a misura che saliva le montagne sorgenti dalla valle vedeva spalancarglisi più e più l’orizzonte, ed il cielo incurvarsi infinito e dolce come la libertà stessa; eppure giammai, nel carcere, aveva provato il senso profondo di tristezza che lo invadeva col cader delle ombre da quel libero cielo. Egli andava, ma perchè andava? dove andava? Era stato allegro al principio del viaggio, gli era parso di andare verso qualche posto ove avrebbe trovato delle cose liete. Ora si meravigliava di tutto ciò. Gli pareva, nell’incertezza del crepuscolo che velava le lontananze, che il suo viaggio fosse inutile, vano. Egli camminava invano: non aveva più patria, nè casa, nè famiglia; egli non sarebbe arrivato mai, mai a nessun posto. E gli sembrava di essere smarrito in un deserto infinito e cinereo come il cielo disteso sul suo capo, e dove le stelle che si accendevano sembravano fuochi di viandanti solitari, ignoti gli uni agli altri, smarriti come lui nella vana libertà del deserto.
Con tutto ciò egli non si rattristava pensando direttamente a Giovanna, alla felicità perduta per sempre, alle disgrazie che un ingiusto destino gli aveva mandato; queste tristezze gli avevano già tanto macerato l’anima ed il corpo che formavano il fondo stesso del suo essere, tanto che gli pareva di averle dimenticate, come si dimentica la veste che si ha addosso; ma ora lo rattristavano certi ricordi lontani, di cose materiali che aveva lasciato e che non ritroverebbe più.
Ricordava con intensità lo spiazzo davanti la casa di Giovanna, le pietre del muricciuolo dove si sedevano assieme nelle sere d’estate, e sopratutto ricordava il letto alto ed ampio dove riposava, vicino a lei, dopo la giornata faticosa. Ecco, gli sembrava di ritornare, stanco, dopo una di quelle lontane giornate. Ma ora non aveva più dove andare a riposarsi.
Sì, con tutta la tristezza struggente e indefinibile come le fragranze selvaggie delle brughiere che attraversava, si sentiva stanco ed aveva fame.
Giunto sull’alto d’una china sedette e aprì la bisaccia.
La notte era completamente scesa, ma chiara e diafana; sull’oriente, fra i monti che nascondevano il mare, dilagava l’alba lucida della luna; la via lattea varcava il cielo a guisa di una immensa strada bianca e deserta, l’occidente conservava un chiarore incerto di mare lontano.
Un albore magico circondava le montagne; si distingueva il sentiero, le macchie apparivano compatte e rotondeggianti come greggie nere; e nel silenzio immenso vibrava solo il singulto prolungato del cuculo.
Costantino mangiò e bevette; poi si arrovesciò sul ciglione e per un momento smarrì lo sguardo nella solitudine profonda di quella grande strada chiara che solcava il cielo. Poi chiuse gli occhi, provando il benessere del cibo, del vino e del riposo, e si sentì allegro come al principio del viaggio.
Ed ecco, appena chiusi gli occhi, rivide i suoi compagni di pena, e provò la sensazione fisica di trovarsi ancora a lavorare le scarpe. E sentì una gioia infantile pensando alle cose che aveva da raccontare ai suoi amici d’Orlei. Bisognava alzarsi, riprendere il viaggio, arrivar presto.
— Ora mi alzo e vado, — pensò, ma tosto rispose a sè stesso come un bambino imbizzarrito: — no, niente, rimango qui, dormo qui; ho sonno. No, bisogna andare, — riprese con pensiero vago, — Isidoro Pane m’aspetta. Gli dirò: eh, quanta gente ho conosciuto! Ho veduto il mare, ho un amico che si chiama il maresciallo Burrai, che mi farà dare un posto di calzolaio nella casa del re. Ecco, ora mi alzo e vado... vado... vado...
Ma non si mosse. Visioni confuse passarono davanti alla sua mente. Il re di picche cavalcava un asino e attraversava quella grande strada deserta tracciata sul cielo. Ad un tratto gittò uno, due, tre gridi, chiamando Costantino, che aperse un occhio velato, lo richiuse, lo tornò ad aprire.
— Stupido, è il cuculo, — pensò il viandante, — vado, sì... vado, vado...
E si addormentò.
Quando si svegliò, la luna già alta guardava sulle montagne, prona come un volto luminoso sul cielo di velluto argenteo. Con la sua luce azzurrognola calava la rugiada. Ombre immense come grandiosi veli neri coprivano certi fianchi delle montagne; ma ogni rupe, ogni macchia, ogni fiore, si disegnava nettamente sul terreno ove la luna batteva. Il cuculo ripeteva sempre i suoi gridi sottili e metallici come lame d’acciaio.
Costantino rabbrividì, si sentì umido di rugiada, s’alzò e sbadigliò: l’ahaa — prolungata del suo sbadiglio risuonò nel grande silenzio.
Il viandante guardò il cielo per indovinar l’ora; la stella, cioè Diana, non mostrava ancora al disopra del mare il suo grande smeraldo dorato. L’alba quindi era lontana e Costantino si rimise in viaggio, con la speranza di arrivare al paese prima che la gente si svegliasse.
Non voleva esporsi alla pubblica curiosità e temeva, sopratutto, di esser veduto da Giovanna o da sua madre. Egli contava di evitarle, non voleva vederle, non voleva passare davanti alla loro casa. A che serviva ciò? tutto era passato.
Si rimise dunque in viaggio. Saliva, scendeva, si arrampicava sui poggi illuminati dalla luna. Le macchie di cisto, l’asfodelo bagnato di rugiada, le roccie stesse, emanavano un odore umido e irritante; qualche filo d’acqua scendeva silenziosamente fra i puleggi fioriti.
Nei vasti orizzonti il cielo svaporava azzurro sopra montagne azzurre evanescenti, e tutte le lontananze si dissolvevano in una vaporosità cerulea di sogno. E l’uomo camminava, camminava. Sentiva la mente un po’ assonnata, ma le membra agili e fresche. Ogni tanto faceva dei salti, passava per iscorciatoie ripide, e si fermava in alto, anelante, col cuore che gli batteva forte. La luna metteva scintille d’argento entro i suoi occhi limpidi.
Più procedeva, più riconosceva i luoghi; sentiva nell’aria la fragranza selvaggia della terra natia, riconosceva i salti melanconici seminati d’orzo e di frumento ancora verde, le brughiere di lentischio, i radi alberi selvatici mormoranti a qualche soffio di vento come vecchi dormenti che parlano in sogno; e più in là le grandi sfingi, azzurre alla luna, e più in là ancora la lama del mare, di quel mare che egli sentivasi superbo aver varcato, non importa come.
Giunto presso la chiesa di San Francesco sostò ancora, si scoprì il capo e pregò: e la sua preghiera fu sincera, perchè egli, in quel momento, sentiva tutta la gioia del ritorno, come non l’aveva ancora sentita.
Cominciava appena ad albeggiare quando Isidoro sentì picchiare alla sua porticina.
Da quindici, — da venti giorni, — da quattro mesi, — egli aspettava quel dun dun scricchiolante alla sua porticina: e balzò in piedi, ancor prima che il vecchio cuore cominciasse a balzargli in petto.
Andò ed aprì. Vide, o intravide, un individuo alto, che non indossava il costume del paese, ma vestiva un abito di fustagno duro come cuoio, ed aveva un viso lungo e pallido. Sulle prime non lo riconobbe.
Costantino si mise a ridere, un riso stridente che fece male al pescatore. Allora costui riconobbe il suo giovane amico, ma sentì un senso di freddo. Sì, quello era Costantino, ma non era più il Costantino d’una volta. Tuttavia lo abbracciò, senza baciarlo, e sentì il cuore fonderglisi in lagrime.
— Ecco, voi non mi riconoscevate! — disse Costantino, liberandosi della sua bisaccia. — Io lo sapevo.
Anche la sua voce ed il suo accento erano cambiati. Dopo il freddo, dopo la pietà, zio Isidoro provò un senso di soggezione.
— Perchè sei vestito così? Tu potevi attendere a Nuoro: io ti avrei portato il costume. Ed anche il cavallo. Sei tornato a piedi?
— No. San Francesco mi ha prestato il suo cavallo. Ecco, cosa fate, zio Isidoro? Io il caffè non lo voglio. Avete dell’acquavite?
Il pescatore, che si era messo a scoprire il fuoco, si rialzò turbato, confuso di non poter offrire altro che un po’ di caffè.
— Io non sapevo... — disse, aprendo le mani, — ma aspetta, vado subito... Ecco, ti aspettavo e non ti aspettavo... — e s’avviò per uscire.
— Dove? Dove? — esclamò l’altro, rattenendolo. — Non voglio niente. L’ho detto per ischerzo. Sedetevi qui.
Isidoro sedette, cominciò a guardare timidamente Costantino, poi a poco a poco si fece coraggio e gli palpò i pantaloni, vicino al ginocchio, chiedendogli se rimaneva vestito così.
Dalla porta spalancata penetrava la luce dell’alba, ed il viso di Costantino appariva grigio e disfatto.
— Io rimarrò vestito così, sì, — disse, e rise ancora di quel cattivo riso. — Tanto dovrò andarmene fra poco.
— Tu dovrai andartene? Oh, e dove?
— Io ho conosciuto tanta gente, — cominciò Costantino, come recitando una lezione. — Eh, c’è della gente che mi aiuterà. Cosa volete che faccia qui?
— Ebbene, tu farai il calzolaio. Non mi hai scritto che volevi far ciò?
— Io conosco un maresciallo chiamato Burrai (per Costantino il re di picche era sempre un maresciallo). Egli ora vive a Roma e mi ha scritto. Egli mi farà dare un posto da calzolaio nella casa del re.
Zio Isidoro lo guardò con occhi pietosi. Ah, il disgraziato era un altro, era un altro!
— Perchè parla così, perchè dice sciocchezze, mentre abbiamo tante cose sanguinanti di cui parlare? — si domandò zio Isidoro.
Ma gli parve che Costantino fingesse, che si avvolgesse in un velo di falsa indifferenza. Ma perchè? Se non si apriva con lui, con chi si sarebbe aperto?
— Ecco, parliamo d’altro ora; parleremo poi di ciò, — disse. — Ma davvero, perchè non vuoi un po’ di caffè? Ti farà bene.
— Di che volete parlare, dunque? — rispose l’altro con la sua voce monotona. — Io lo sapevo, che vi sareste meravigliato se non piangevo. Ho pianto tanto che non ne ho più voglia. Eppoi me ne andrò: non è possibile restar qui, dopo aver varcato il mare. Ebbene, datemi pure un po’ di caffè. Ma chi è che passa? — disse poi, animandosi nell’udire un passo nella spianata. — Non voglio che mi vedano! — S’alzò e socchiuse la porta.
Quando si volse aveva il viso mutato, ed un tremito gli agitava il mento. Disse con voce sottile, sempre più sottile:
— Sono passato di là, venendo qui. Non volevo passarci, ma mi sono trovato là senza accorgermi. Come, come posso rimaner qui?... ditelo... voi!
E si strinse le tempia con una mano, scuotendo disperatamente il capo. Poi si gittò per terra e si contorse e pianse con urli soffocati d’una violenza indescrivibile, come un toro preso al laccio e marcato col ferro rovente.
Il pescatore impallidì alquanto; ma non disse parola per calmare quell’uragano di dolore. Ah, finalmente riconosceva il suo Costantino!