Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 227 — |
— Dormirò bene in campagna, — pensava. — Ma sarebbe stato così curioso arrivare lì: — dun! dun! alla porta di Isidoro. — Chi è? — Io. — Chi, tu? — Ebbene, Costantino Ledda! — Che viso, quell’Isidoro! Chissà, egli canterà il rosario a quest’ora. Ed anche quelle laudi!... Sì, oh, guarda! Io ho fatto delle laudi. Che cosa curiosa!
Si meravigliava di certe cose passate, come i giovani si meravigliano di certe cose fatte o vedute da bambini. Ma Costantino si meravigliava anche di molte cose presenti; per esempio si meravigliava che fosse primavera, che la valle apparsagli così piccola fosse invece interminabile, e che egli la percorresse per ritornare al suo paese.
Camminava fra due campi di frumento, sul quale la luce gettava un velo d’oro e la brezza passava carezzandolo come una grande mano invisibile; e pensava:
— Egli mi dirà: vieni dentro. Mi ha offerta la sua casa. Poi mi dirà: È morto Giacobbe Dejas; sai, è stato lui! — Ma io lo so già, diavolo, non hai altro da dirmi? — Ecco, tua moglie ha preso un altro marito. — Eh, lo so già, anche, questo. — Come, tu non piangi? — Perchè devo piangere? Ho già tanto pianto che ora non ne ho più voglia. O chi credi che io sia? Ora ho bene dell’esperienza: ho viaggiato, ho visto il mare, non sono più un ragazzo. Non m’importa più nulla.
Ma ecco, improvvisamente, mentre egli vantava la sua forza d’animo, o meglio il suo istintivo scetticismo, si sentì il cuore stretto da una mano fredda.