Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 213 — |
Quando egli era entrato nel forno tiepido, aveva pensato che l’inferno poteva essere un forno acceso, entro il quale i condannati dovevano stare in eterno distesi.
Ora nel sogno gli si riproduceva esattamente quella impressione. Dal fosso, mentre la terra gli si accumulava attorno al viso, ed egli stringeva la bocca per non ingoiarne, vedeva un forno acceso. Era l’inferno. Egli provava un terrore tale che, anche nel sogno, anche nell’incoscienza febbrile dell’incubo, il suo istinto ebbe il bisogno prepotente di percepire che tutto era una illusione dei sensi. E si svegliò; ma svegliandosi provò l’impressione che, se fossero sensibili, dovrebbero provare le pietre in un incendio: sentirsi ardere e non potersi muovere, non poter sfuggire all’orrendo destino. Giacobbe Dejas provò qualche cosa di simile; come se stesse, fatto pietra, entro un mucchio di brage, entro un forno acceso, nell’inferno. E sveglio provò un terrore ancora più feroce di quello sentito in sogno. Diede un grido, un — ooh — sordo e grave, il cui suono lo confortò come una voce umana risuonante presso di lui nell’orrore dell’inferno.
Dalla cucina attigua zio Isidoro, — che era rimasto per aiutare in ciò che poteva la piccola vedova, — sentì quel grido nel sonno ed ebbe paura; si svegliò pensando che Giacobbe fosse morto; balzò su ed entrò nella camera. Avvicinatosi al letto vide il malato coricato supino, con la faccia stranamente allungata, e gli occhi, che sembravano neri, lucenti di lacrime.