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E si addormentò.
Quando si svegliò, la luna già alta guardava sulle montagne, prona come un volto luminoso sul cielo di velluto argenteo. Con la sua luce azzurrognola calava la rugiada. Ombre immense come grandiosi veli neri coprivano certi fianchi delle montagne; ma ogni rupe, ogni macchia, ogni fiore, si disegnava nettamente sul terreno ove la luna batteva. Il cuculo ripeteva sempre i suoi gridi sottili e metallici come lame d’acciaio.
Costantino rabbrividì, si sentì umido di rugiada, s’alzò e sbadigliò: l’ahaa — prolungata del suo sbadiglio risuonò nel grande silenzio.
Il viandante guardò il cielo per indovinar l’ora; la stella, cioè Diana, non mostrava ancora al disopra del mare il suo grande smeraldo dorato. L’alba quindi era lontana e Costantino si rimise in viaggio, con la speranza di arrivare al paese prima che la gente si svegliasse.
Non voleva esporsi alla pubblica curiosità e temeva, sopratutto, di esser veduto da Giovanna o da sua madre. Egli contava di evitarle, non voleva vederle, non voleva passare davanti alla loro casa. A che serviva ciò? tutto era passato.
Si rimise dunque in viaggio. Saliva, scendeva, si arrampicava sui poggi illuminati dalla luna. Le macchie di cisto, l’asfodelo bagnato di rugiada, le roccie stesse, emanavano un odore umido e irritante; qualche filo d’acqua scendeva silenziosamente fra i puleggi fioriti.
Nei vasti orizzonti il cielo svaporava azzurro sopra