Didone abbandonata/Varianti

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VARIANTI DELLA PRIMA REDAZIONE

rifiutata dall’autore


ATTO PRIMO

SCENA III

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Osmida. (Si deluda) O regina,
il cor d’Enea non penetrò Selene.
Ei disse, è ver, che ’l suo dover lo sprona
a lasciar queste sponde:
ma col dover la gelosia nasconde.
Didone. Come?
Osmida. Fra pochi istanti
dalla reggia de’ mori
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Didone. Intendo.
S’inganna Enea; ma piace
l’inganno all’alma mia.
So che nel nostro core
sempre la gelosia figlia è d’amore.
Selene. Anch’io lo so.
Didone. Ma non lo sai per prova.
Osmida. (Cosí contro un rival l’altro mi giova.)
Didone. Vanne, amata germana, ecc.

SCENA V

La didascalia iniziale è molto piú breve.

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SCENA XI

Selene e Iarba.

Iarba. Non partirò se pria...
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Selene. Arbace, a quel ch’io veggio,
nella scuola d’amor sei rozzo ancora.
Un cor, che s’innamora,
non sceglie a suo piacer l’oggetto amato;
onde nessuno offende,
quando in amor contende, o allor che niega
corrispondenza altrui. Non è bellezza,
non è senno o valore
che in noi risveglia amore; anzi talora
il men vago, il piú stolto è che s’adora.
Bella ciascuno poi finge al pensiero
la fiamma sua; ma poche volte è vero.
               Ogni amator suppone
          che della sua ferita
          sia la beltá cagione;
          ma la beltá non è.
               È un bel desio che nasce
          allor che men s’aspetta:
          si sente che diletta,
          ma non si sa perché. (parte)

SCENA XIII

Alla fine della scena Iarba parte, non con Araspe, ma solo. Interamente soppressa nella redazione definitiva è la scena che segue.

SCENA XIV

Araspe solo.

Lo so, quel cor feroce
stragi minaccia alla mia fede ancora.
Ma si serva al dovere, e poi si mora.

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               Infelice e sventurato
          potrá farmi ingiusto fato;
          ma infedele io non sarò.
               La mia fede e l’onor mio
          pur fra l’onde dell’obblio
          agli Elisi io porterò. (parte)

SCENA XVII [XVI]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Iarba. Ecco la spada.
          Tu mi disarmi il fianco, (a Didone)
     tu mi vorresti oppresso; (ad Enea)
     ma sono ancor l’istesso,
     ma non son vinto ancor.
          Soffro per or lo scorno;
     ma forse questo è il giorno
     che domerò quell’alma, (a Didone)
     che punirò quel cor. (ad Enea)
Didone. Frenar l’alma orgogliosa, ecc.

ATTO SECONDO

SCENA I

Appartamenti reali con tavolino.

Iarba ed Osmida.

Osmida. Signore, ove ten vai?
Nelle mie stanze ascoso
per tuo, per mio riposo io ti lasciai.
Iarba. Ma sino al tuo ritorno
tollerar quel soggiorno io non potei.
Osmida. In periglio tu sei; ché, se Didone
libero errar ti vede,
temerá di mia fede.

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Iarba. A tal oggetto
disarmato io men vo, finché non giunga
l’amico stuol, che a vendicarmi affretto.
Osmida. Va’ pur, ma ti rammenta
ch’io sol per tua cagione...
Iarba. Fosti infido a Didone.
Osmida. ... e che tu per mercede...
Iarba. So qual premio si debba alla tua fede.
               Osmida. Pensa che ’l trono aspetto,
          che n’ho tua fede in pegno;
          e che, donando un regno,
          ti fai soggetto un re:
               un re, che tuo seguace
          ti sará fido in pace;
          e, se guerrier lo vuoi,
          contro i nemici tuoi
          combatterá per te. (parte)

SCENA II

Iarba e poi Araspe.

Iarba. Giovino i tradimenti:
poi si punisca il traditore. Indegno! (vedendo Araspe)
t’offerisci al mio sdegno e non paventi?
Temerario! per te
non cadde Enea dal ferro mio trafitto.
Araspe. Ma delitto non è.
Iarba. Non è delitto?
Di tante offese ormai
vendicato m’avria quella ferita.
Araspe. La tua gloria salvai nella sua vita.
Iarba. Ti punirò.
Araspe. La pena,
benché innocente, io soffrirò con pace,
ché sempre è reo chi al suo signor dispiace.
Iarba. (Hanno un’ignota forza
i detti di costui,
che m’incatena, e parmi
che io non sappia sdegnarmi in faccia a lui.)

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Odi! Giacché al tuo re
qual ossequio tu debba ancor non sai,
innanzi a me non favellar giammai.
Araspe. Ubbidirò.

SCENA III

Selene e detti.

Selene. Chi sciolse,
barbaro, i lacci tuoi? Tu non rispondi?
Dell’offesa reina il giusto impero
qual folle ardire a disprezzar t’ha mosso?
Parla, Araspe, per lui.
Araspe. Parlar non posso.
Selene. Parlar non puoi? (Pavento
di nuovo tradimento.) E qual arcano
si nasconde a Selene?
Perché taci così? (ad Araspe)
Araspe. Tacer conviene.
Iarba. Senti. Voglio appagarti. (a Selene)
Vado apprendendo l'arti
che deve posseder chi s’innamora:
nella scuola d’amor son rozzo ancora.
Selene. L’arte di farsi amare
come apprender mai può chi serba in seno
sí arroganti costumi e sí scortesi?
Iarba. Solo a farmi temer sinora appresi.
Selene. E né pur questo sai: quell’empio core
odio mi desta in seno, e non paura.
Iarba. La debolezza tua ti fa sicura.
               Leon, ch’errando vada
          per la natia contrada,
          se un agnellin rimira,
          non si commove all’ira
          nel generoso cor.
               Ma, se venir si vede
          orrida tigre in faccia,
          l’assale e la minaccia,
          perché sol quella crede
          degna del suo furor. (parte)

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SCENA IV [I]


Selene ed Araspe.


Selene. Chi fu che all’inumano, ecc.

SCENA V [II]

Araspe solo.

Tu dici ch’io non speri,
ma nol dici abbastanza.
L’ultima che si perde è la speranza.
               L’augelletto in lacci stretto
          perché mai cantar s’ascolta?
          Perché spera un’altra volta
          di tornare in libertá.
               Nel conflitto sanguinoso
          quel guerrier perché non geme?
          Perché gode con la speme
          quel riposo che non ha. (parte)

SCENA VIII [V]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Enea. La tua sorte presente
è degna di pietá non di timor.
Iarba. Risparmia al tuo gran core
questa inutil pietá. So che a mio danno
della reina irriti i sdegni insani.
Solo in tal guisa sanno
gli oltraggi vendicar gli eroi troiani.
Enea. Leggi. La regai donna in questo foglio,
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
come vendica Enea le proprie offese. (lacera il foglio)
               Vedi nel mio perdono,
          perfido traditor,
          quel generoso cor,
          che tu non hai.

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               Vedilo, e dimmi poi
          se gli africani eroi
          tanta virtú nel seno
          ebbero mai. (parte)

SCENA XII [IX]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Selene. Ah! generoso Enea,
non fidarti cosí; d’Osmida ancora
all’amistá tu credi, e pur t’inganna.
Enea. Lo so: ma come Osmida
non serba Araspe in seno anima infida.
Selene. Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Selene. È Didone che parla, e non Selene.
Se non l’ascolti almeno,
tu sei troppo inumano.
Enea. L’ascolterò, ma l’ascoltarla è vano.
               Non cede all’austro irato,
          né teme, allor che freme
          il turbine sdegnato,
          quel monte che sublime
          le cime innalza al ciel.
               Costante, ad ogni oltraggio
          sempre la fronte avvezza,
          disprezza il caldo raggio,
          non cura il freddo gel. (parte)

SCENA XIII [X]

Selene sola.

Chi udí, chi vide mai
del mio piú strano amor sorte piú ria!
Taccio la fiamma mia,
e, vicina al mio bene,
so scoprirgli le altrui, non le mie pene.

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               Veggio la sponda,
          sospiro il lido,
          e pur dall’onda
          fuggir non so.
               Se il mio dolore
          scoprir diffido,
          pietoso Amore,
          che mai farò? (parte)

ATTO TERZO

SCENA I

Enea. Compagni invitti a tollerare avvezzi
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
è tempo giá di rispiegar le vele.
Quegl’istessi voi siete,
che intrepidi varcaste il mar sicano.
Per voi, sdegnato, invano
di Cariddi e di Scilla
fra’ vortici sonori
tutti adunò Nettuno i suoi furori.
Per sí strane vicende
all’impero latino il ciel ne guida.
Andiamo, amici, andiamo
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
e dolce fia di rammentargli un giorno (al suono di vari stromenti siegue l’imbarco, e, nell’atto che Enea sta per salir sulla nave, esce Iarba).

SCENA II

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Enea. Ecco un novello inciampo!
Iarba. Fuggi, fuggi, se vuoi;
ma non lagnarti poi,
se della fuga tua Iarba si ride.

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Enea. Non irritar, superbo,
la sofferenza mia.
Iarba. Parmi però che sia
viltá, non sofferenza il tuo ritegno.
Per un momento il legno
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Enea. Sí, mori... Ma che fo? Vivi! Non voglio
nel tuo sangue infedele
questo acciaro macchiar. (lascia Iarba, il quale sorge)
Iarba. Sorte crudele!
          Enea. Vivi, superbo, e regna;
     regna per gloria mia,
     vivi per tuo rossor.
          E la tua pena sia
     il rammentar che in dono
     ti die’ la vita e il trono,
     pietoso, il vincitor. (parte)

SCENA III

Iarba solo.

Ed io son vinto, ed io soffro una vita
che d’un vile stranier due volte è dono?
No, vendetta, vendetta! e, se non posso
nel sangue d’un rivale
tutto estinguer lo sdegno,
opprimerá la mia caduta un regno.
          Su la pendice alpina
     dura la quercia antica,
     e la stagion nemica
     per lei fatal non è.
          Ma, quando poi ruina
     di mille etadi a fronte,
     gran parte fa del monte
     precipitar con sé. (parte)

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SCENA IV [III]

Arborata fra la cittá e ’l porto.

Araspe ed Osmida.


Osmida. Giá di Iarba in difesa
lo stuol de’ mori a queste mura è giunto.
Araspe. M’è noto.
Osmida. Ad ogni impresa
al vostro avrete il mio voler congiunto.
Araspe. Troppa follia sarebbe
fidarsi a te.
Osmida. Per qual cagione?
Araspe. Un core
non può serbar mai fede,
se una volta a tradir perdé l’orrore.
Osmida. A ragione infedele
con Didone son io. Cosí punisco
l’ingiustizia di lei, che mai non diede
un premio alla mia fede.
Araspe. È arbitrio di chi regna,
non è debito il premio; e, quando ancora
fosse dovuto a cento imprese e cento,
non v’è torto che scusi un tradimento.
Osmida. Chi nutrisce di questa
rigorosa virtude i suoi pensieri,
la sua sorte ingrandir giammai non speri.
Araspe. Se produce rimorso,
anche un regno è sventura. A te dovrebbe
la gloria esser gradita
di vassallo fedel, piú che la vita.
Osmida. Questi dogmi severi
serba, Araspe, per te. Prendersi tanta
cura dell’opre altrui non è permesso:
non fa poco chi sol pensa a se stesso.

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SCENA V


Selene e detti.


Selene. Partí da’ nostri lidi
Enea? Che fa? Dov’è?
Osmida. Nol so.
Araspe. Nol vidi.
Selene. Oh Dio! Che piú ci resta,
se lontano da noi la sorte il guida?
Araspe. È teco Araspe.
Osmida. E ti difende Osmida.
Selene. Pria che manchi ogni speme,
vado in traccia di lui. (in atto di partire)
Osmida. Ferma, Selene.
Se non gli sei ritegno,
piú pace avranno e la regina e ’l regno.
Selene. Intendo i detti tuoi:
so perché lungi il vuoi.
Araspe. (a Selene) Con troppo affanno
di arrestarlo tu brami.
Perdona l’ardir mio: temo che l’ami.
Selene. Se a te della germana
fosse noto il dolore,
la mia pietá non chiameresti amore.
Osmida. Tanta pietá per altri a che ti giova? (a Selene)
Ad un cor generoso
qualche volta è viltá l’esser pietoso.
Selene. Sensi d’alma crudel.

SCENA VI [IV]

Iarba con guardie, e detti.

Iarba. Non son contento,
se non trafiggo Enea.
Selene. (Numi, che sento!)
Araspe. Mio re, qual nuovo affanno
t’ha cosí di furor l’anima accesa?

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Iarba. Pria saprai la vendetta, e poi l’offesa.
Selene. (Che mai sará?)
Osmida. (piano a Iarba) Signore,
le tue schiere son pronte. È tempo alfine
che vendichi i tuoi torti.
Iarba. Araspe, andiamo.
Araspe. Io sieguo i passi tuoi.
Osmida. Deh! pensa, allora
che vendicato sei,
che la mia fedeltá premiar tu déi.
Iarba. È giusto; anzi preceda
la tua mercede alla vendetta mia.
Osmida. Generoso monarca...
Iarba. Olá! costui
si disarmi e s’uccida.
(alcune delle guardie di Iarba disarmano Osmida)
Osmida. Come! Questo ad Osmida?
Qual ingiusto furore...
Iarba. Quest’è il premio dovuto a un traditore. (parte)
Osmida. Parla, amico, per me; fa’ ch’io non resti
cosí vilmente oppresso. (ad Araspe)
Araspe. Non fa poco chi sol pensa a se stesso. (parte)
Osmida. Pietá, pietá, Selene. Ah! non lasciarmi
in sí misero stato e vergognoso!
Selene. Qualche volta è viltá l’esser pietoso.
(partendo, s’incontra in Enea)

SCENA VII [V]

Enea con séguito, e detti.

Enea. Principessa, ove corri?
Selene. A te ne vengo.
Enea. Vuoi forse... Oh ciel, che miro!
(vedendo Osmida tra’ mori)
Osmida. Invitto eroe,
vedi, all’ira di Iarba...
Enea. Intendo. Amici,
in soccorso di lui l’armi volgete.
(alcuni troiani vanno incontro a’ mori, i quali, lasciando Osmida, fuggono difendendosi)

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Selene. Signor, togli un indegno
al suo giusto castigo.
Enea. Lo punisca il rimorso.
Osmida. (s’inginocchia) Ah! lascia, Enea,
che grato a sí gran dono...
Enea. Álzati e parti:
non odo i detti tuoi.
Osmida. ...ed a virtú sí rara...
Enea. Se grato esser mi vuoi, ecc.

SCENA VIII [VI]


Enea e Selene.


Enea. Addio, Selene.
Selene. Ascolta.
Enea. Se brami un’altra volta, ecc.

SCENA IX [VII]

Selene sola.

     .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
     Sei barbaro con me, non sei costante.
          Nel duol che prova
     l’alma smarrita,
     non trova aita,
     speme non ha.
          E pur l’affanno,
     che mi tormenta,
     anche a un tiranno
     faria pietá. (parte)

SCENA X [VIII]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Osmida. Con la speranza
di posseder Cartago

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Iarba mi fece suo; poi con la morte
i tradimenti miei punir volea;
ma dono è il viver mio del grand’Enea, ecc.

SCENA XVI [XIV]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Didone. Araspe, per pietá lasciami in pace.
          Araspe. Giá si desta la tempesta,
     hai nemici i venti e l’onde;
     io ti chiamo su le sponde,
     e tu resti in mezzo al mar.
          Ma, se vinta alfin tu sei
     dal furor delle procelle,
     non lagnarti delle stelle,
     degli dèi non ti lagnar. (parte)

SCENA XIX [XVII]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Didone. Alfin sarai contento
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Timida mi volesti: ecco Didone,
giá sí fastosa e fiera, a Iarba accanto,
alfin discesa alla viltá del pianto.
Vuoi di piú? Via, crudel, passami il core:
è rimedio la morte al mio dolore.
Iarba. (Cedono i sdegni miei), ecc.

SCENA ULTIMA

Invece dell’ultima lunga didascalia, semplicemente: «Si getta nelle fiamme», e manca la Licenza.