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Enea. Non irritar, superbo,
la sofferenza mia.
Iarba. Parmi però che sia
viltá, non sofferenza il tuo ritegno.
Per un momento il legno
. . . . . . . . . . . . . .
Enea. Sí, mori... Ma che fo? Vivi! Non voglio
nel tuo sangue infedele
questo acciaro macchiar. (lascia Iarba, il quale sorge)
Iarba. Sorte crudele!
Enea. Vivi, superbo, e regna;
regna per gloria mia,
vivi per tuo rossor.
E la tua pena sia
il rammentar che in dono
ti die’ la vita e il trono,
pietoso, il vincitor. (parte)
SCENA III
Iarba solo.
Ed io son vinto, ed io soffro una vita
che d’un vile stranier due volte è dono?
No, vendetta, vendetta! e, se non posso
nel sangue d’un rivale
tutto estinguer lo sdegno,
opprimerá la mia caduta un regno.
Su la pendice alpina
dura la quercia antica,
e la stagion nemica
per lei fatal non è.
Ma, quando poi ruina
di mille etadi a fronte,
gran parte fa del monte
precipitar con sé. (parte)