Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro terzo/Capitolo IX
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Capitolo Nono
Grande e singolar gloria dei greci ella è che il loro bel secolo letterario porta il nome di secolo di Atene, e non di Pisistrato, né di Alessandro, né di Pericle stesso; ancorché la moderna letteraria viltá abbia pure voluto in ciò assomigliare gli ateniesi a se stessa, cosí da questo ultimo semi-tiranno di Atene intitolando quel secolo. E da ciò solo indubitabilmente nasceva la maggior perfezione delle greche lettere, e la ben altra copia d’importanti politiche e morali veritá da quegli scrittori fortemente lumeggiate e nel mondo intero poi sparse.
Ma per qual ragione i tre seguenti secoli letterari in vece di intitolarsi da Roma, da Firenze e da Parigi, si appellano da Augusto, da Leone e da Lodovico? Perché gli scrittori di questi tre secoli scrissero veramente per li suddetti tre principi piú assai che per la loro cittá. Mi si dirá che non avrebbero prosperato le lettere in Roma, se elle non vi fossero state protette da Augusto. Ma, di grazia, si rifletta bene a queste parole: «le lettere protette da Augusto»: cioè, da colui che, con orribile ingratitudine e vile perfidia, vendeva ad Antonio la testa del primo scrittore e filosofo che fosse mai stato in Roma, del gran Cicerone. E in fatti, da un tal protettore argomentar si poteva quali doveano divenire sott’esso le lettere. Quale scrittore d’alto animo si sarebbe mai potuto risolvere a lasciarsi proteggere dall’uccisore di Cicerone? Ma come, volendone pure scansare la insultante protezione, ne avrebbe egli potuto sfuggire la tirannica persecuzione? Col rimanersi egli sempre lontano da Augusto e da tutti i suoi vili satelliti.
Le perfezionate lettere non sono dunque state di nessun giovamento ai latini popoli, poiché da Augusto per l’appunto comincia la loro viltá e la decadenza fra essi di ogni sublime costume e virtú.
Mi si dirá che in Italia pure non sarebbero risorte le lettere, se i Medici non ve le avesser protette. E questo assolutamente lo negano per me il divino Dante, Petrarca e Boccaccio, che erano stati prima di loro, e spinta aveano al piú eccellente ed alto grado la loro lingua, senz’essi. Mi si replica che senza i Medici si perdeva affatto il latino, e non si restituiva certamente la piena intelligenza del greco all’Italia. E questo, su che potrei pur disputare, in parte lo voglio ammettere; e gran perdita sarebbe stata per l’Italia. Ma pure, da quella cosí gran luce di lettere latine, greche e italiane, quale accrescimento, qual virtú, qual viver civile e libero, qual grandezza, felicitá e ricchezza di popoli, quale altezza di sensi ne scaturiva per gl’italiani dappoi? nessuna, ch’io sappia. Poco era la fiorentina repubblica prima de’ suoi medicei tiranni, e nulla divenne dappoi; cosí il rimanente d’Italia. E un vero letterato potrá egli mai intitolare e reputar veramente protettori di lettere quei Medici stessi, sotto cui il Machiavelli viveva negletto, il Galileo impedito e perseguitato?
Di Lodovico decimoquarto non parlerò. Era costui il primo ritrovatore in Europa degli eserciti smisurati e perpetui; onde ben altro danno agli uomini moderni ha egli arrecato coll’accrescere e perpetuare quasi la lor servitú, di quello che alla Francia ei giovasse col darle un teatro che, sospirando esclusivamente d’amore, ai francesi insegnava a né pure piú sospirare d’amore. Ed in fatti, il vero amore sublime, che pure di tanto innalzar ci può l’animo, e che i francesi nei tempi dei lor paladini aveano bastantemente conosciuto e trattato, non si ritrova piú presso loro, dopo che ne è stata stabilita per cosí dire in teatro la scuola. Tanto è piú forte insegnator di ogni vizio l’assoluto governo, che insegnatore di una anche minima virtú il teatro, allorché, nato egli fra i ceppi, viene come tale dall’oppressore di tutti approvato e protetto. Quindi l’accrescimento e splendore apparente della monarchia francese, da Lodovico decimoquarto in appresso, si deve in molto maggior parte attribuire alla forza e agli eserciti loro, che non alle loro lettere e accademie; le quali, benché molto perfezionassero la loro lingua, stata fin a quel punto barbara, di pochissimo accrebbero la somma della luce per gli uomini tutti. Né i francesi filosofi sono stati veramente tali, se non in quanto la loro filosofia accattarono dai liberi e non protetti, antichi o inglesi scrittori.
Il prodotto dunque di questi tre secoli letterari era, come io piú sopra accennava, il seguente: del primo di Augusto, i romani di Tiberio, di Nerone, di Caracalla, di Costantino e della lunga sequela dei susseguenti imperatori in nulla romani: del secondo e terzo letterario secolo dei Leoni e Luigi, ne sono il prodotto i moderni italiani e francesi. Ma del greco secolo era ad un tempo e cagione e prodotto il popolo sublime di Atene; e quindi in parte fors’anco, per la influenza dei lumi e dell’imitazione, lo stesso popolo di Roma in appresso. Questi due popoli, presi insieme, vengono a comporre la grandezza, felicitá e virtú tutta, quanta fra gli uomini allignare mai ne potesse. E si noti che figli di quella stessa Atene (ancorché spurii) si possono poi dir parimente tutti quest’altri tre raggi di non cosí pura né efficace luce, che rischiarando venivano alquanto, ma non abbastanza, le susseguenti nazioni. Ben altro dunque era il fonte da cui nati erano codesti lumi e sforzi dell’umano ingegno, poiché cosí diverso ne riusciva l’effetto, e cosí possente ancora, tanti secoli dopo, l’impulso. Quindi a me pare che il volere originare le vere lettere dai principi, e non dalla libertá, sarebbe come il volere qual piú preziosa ed utile pianta sul nostro globo si alligni, attribuirla piuttosto al freddo Saturno, che all’almo vivificante pianeta.
Ma qual nuova ed altissima cosa non potrebbe egli riuscire un quinto secolo letterario che, per non essere protetto da nessun principe, da nessuno di essi venisse appellato? E che, per essere le lettere stesse procreatrici e protettrici di libertá, da essa sola il nome assumesse? Nuovo ei sarebbe per certo; né perché non sia stato mai, lo credo io perciò impossibile. L’invecchiare del mondo e la influenza dei quattro passati secoli letterari hanno oramai moltiplicato i mezzi, sminuzzato i materiali ed appianate tutte le vie. Fissate sono le lingue, introdotta una certa smania di leggere, rettificato piú o meno il gusto dello scrivere, preparata in somma ogni cosa; altro non si aspetta fuorché sublimi, chiare e intere veritá che, con semplice sublimitá di stile annunziate, gli animi tutti piú o men sublimando, fortemente gli incendano e sforzino a riporre sul trono la veritá sola. I principi oramai non possono accrescere facilitá, ma possono bensí accrescere gl’inciampi, se diversificarli e adattarli sapran destramente. I moderni scrittori adunque, che vorranno essere padri di veritá, di virtú, di alto diletto, e fondatori di un nuovo secolo letterario, essere dovranno pria d’ogni cosa, figli di se medesimi. La loro gloria sarebbe di tanto maggiore di quanto l’impulso necessario per superare gli ostacoli debb’essere sempre maggiore di quello che si prevale dei favori. Ma la loro utilitá tanto maggiore potrebbe riuscire, quanto meno aspettata nel secolo della oppressione, in cui scriverebbero. Cotali scrittori, eleganti perché dalle antecedenti eleganze ammaestrati; veraci e liberi, perché amano gli uomini, la vera gloria conoscono, e ardentemente oltre ogni cosa la bramano; caldi ed energici, perché il timor non gli agghiaccia, ed anzi dagli impedimenti generoso incitamento ritraggono; cotali scrittori, rinnovando la libertá, la forza e la leggiadria dei sommi ateniesi, maggior della loro ne dovrebbero ritrarre la fama. Appunto perché, non avendo come quelli la proteggente e incentiva libertá per lor madre, hanno pure ardito e saputo agguagliarli, ancorché nati in servaggio. Anzi, nello sviluppare le veritá importanti, riuscirebbero costoro anche assai piú forti e feroci dei greci: perché la natura dell’uomo è di maggiormente sentire la privazione delle cose, che non il godimento di esse. Quindi la libertá, dottamente studiata da chi appunto per non vi essere nato ardentissimamente la brama, verrá poi vestita da costui di ben altramente focose terribili e veraci espressioni, che non da tal altro che tranquillamente giá la possiede. E ben altro scalpello ci vuole a scolpire negli umani petti la intensa brama di una cosa non mai posseduta, e quindi appena appena da tali uomini conosciuta, che non ad accrescere in altri il desiderio di mantenere e difendere un bene giá prima conosciuto e lungamente gustato. Di tanto dovrebbero in somma, e potrebbero i moderni sublimi scrittori superare nella forza e nell’utile i piú sublimi d’Atene, di quanto per l’appunto i moderni popoli, nella conoscenza e pratica del vero, minori sono del popol di Atene.
Se dunque, in vece di effimeri foglietti, libri eccellenti di ogni specie, ed in copia, uscissero alla luce in questi nostri principati, sí per l’utile che arrecherebbero, sí per gli ostacoli superati, un tal secolo letterario sarebbe certamente da pregiarsi assai piú d’ogni altro. Ed io insisto, e ripeto, e torno a ripetere che non è vero che il tutto sia stato giá detto. Ma, se pure anche ciò fosse, non tutti leggono tutto ciò che è stato giá detto; o per essere in lingue non note abbastanza, o per essere sotto forme difficili e non dilettevoli appresentato, o per non essere in fine adattato al gusto ed ai tempi. Quindi le veritá giá dette dai greci nelle loro tragedie, commedie, poemi, satire, storie ecc., nuove riappariranno del tutto in tali moderne composizioni, ove lo scrittore abbia in se stesso assai piú pensato e sentito che non imitato; e, parlando io sempre dello scrittore sublime, mai non dubito che ciò altrimenti possa essere.
Un tale moderno secolo letterario, che può diventare maggiore d’ogni altro, io lo reputo giá bello e nato. Basta che i sommi ingegni moderni, nati per iscrivere, vogliano da prima ben conoscere e stimare se stessi; e che poscia, la loro fama assai piú apprezzando che il loro corporeo ben essere, rotti i loro nativi ceppi, si ricovrino in parte dove adoprare essi possano, senza tremare, tutte le lor facoltá: e basta che i belli ingegni nati soltanto per leggere, vogliano incontaminati vivere pensando e leggendo, lontani sempre da ogni aura pestilenziale di corte.
In tal modo, le lettere torneranno indubitabilmente purissime ed alte e giovevoli; puri e sublimi essendone, come di alta deitá, i sacerdoti e i devoti. E si appellerá questo secolo dalla virtú che il féa nascere, e che proteggevalo sola: «il secolo della indipendenza».