Del Monte di Venere ossia Labirinto d'amore

Alfred von Reumont

1871 Indice:Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871).djvu Archivio storico italiano 1871/Storia Del Monte di Venere ossia Labirinto d'amore Intestazione 18 novembre 2017 75% Da definire

Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)
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DEL MONTE DI VENERE


ossia


LABIRINTO D’AMORE




Discorso letto alla Società Colombaria fiorentina
il dì 23 maggio 1871.


Antichissimo è in Germania il mito del monte di Venere o di Freia (Venusberg-Frenenberg), mito in vari modi e posti localizzato o trasformato, ma nel, quale, al pari d’altri somiglianti casi, è chiaro il collegarsi delle nozioni del politeismo classico con quelle della germanica mitologia. Il monte di Venere ossia Labirinto d’amore della tradizione rinchiude nelle sue viscere luoghi deliziosissimi, boschi, giardini, prati e laghi, che servono d’abitazione alla Dea della bellezza e alla di lei corte. Ivi si gode di balli e di feste, ivi le figlie d’Eva incontratisi cogli spiriti elementari della terra e dell’aere, coi nani, coi gnomi, cogli elfi, esseri or benigni e graziosi , or invidiosi e malefici. Chiunque entri in detto monte, vi rimane come preso d’incanto del pari che nei giardini d’Armida. A qualcuno riesce escirne, o per la forza del rimorso, o pel desiderio di vita attiva. Altri non ritrovano mai virtù bastante a sottrarsi alla voluttuosa dolcezza di siffatta vita; altri ancora, escitine, non si dimenticano di tale incanto, sicchè fanno ritorno al monte per non più lasciarlo, giocando con quest’abbandono la speranza di beatitudine eterna.

[p. 377 modifica]Tale si fu la sorte di un nobile ed onorato cavaliere, detto il Tanhäuser, la cui storia ci viene raccontata dalla poetica tradizione. Giunto al monte di Venere nei lunghi suoi viaggi, il prode guerriero entrovvi, non curante del pericolo, spinto dalla curiosità di conoscerne le meraviglie. Avvolto nelle reti d’amore, durante lungo tempo non trovò modo di sottrarsi all’incanto, parendogli un anno breve quanto un’ora. Contuttociò la corte voluttuosa non riesci a renderlo interamente dimentico dei doveri suoi, ed essendosi un giorno addormentato all’ombra d’un fico, dal sogno venne ammonito di fuggire il peccato. Svegliatosi, così continua il canto pel quale ci è stata trasmessa la tradizione, ne preghiera ne minaccia valse a ritenerlo, e raccomandandosi a Maria Vergine, uscito dal monte si mise in pellegrinaggio onde trovar perdono a Roma. Giuntovi coi piedi di sangue bagnati, egli inginocchiossi al cospetto del papa, confessando ed abominando il suo fallo. Il papa teneva in mano una verga secca secca, e dopo ascoltata la confessione gli rispose: più facile sarebbe a questa verga il rinverdire, che non a me l’assolverti dalle tue colpe. Allora il cavaliere, le braccia estese, prosternossi davanti all’altare della Santissima Croce, gridando: Io ti prego o Signor Gesù Cristo, abbi di me misericordia. Poi, la disperazione nel cuore, esci di chiesa, pensando: Iddio mi ha protetto sempre, ora sono abbandonato e perso. Fuori di porta incontrò la Santissima Vergine: Iddio, così disse a Lei, t’abbia nella sua grazia, o madre di castità: io non oso più alzare verso di te gli sguardi miei. Non era peranco passato il terzo giorno, allorché ad un tratto principiò a fiorire la verga, onde il papa spedì nunzi in ogni luogo a cercar del cavaliere. Ma il cavaliere non si rintracciò, il cavaliere era smarrito; egli era tornato al monte, sempre però pregando Gesù di non perdere la povera anima sua. Epperciò nè papa nè cardinale dovrebbe rigettar il peccatore, [p. 378 modifica]giacchè per quanto colpevole sia, esso può esser salvato dalla misericordia divina. Così termina l’antico canto1 coll’idea espressa nella Divina Commedia:

«Per lor maledizion' sì non si perde
Che non possa tornar l'eterno amore.
Mentre che la speranza ha fior del verde».

Non tutto però è gioia e delizia nel monte. Ne procedono ancora grida di dolore e di disperazione, tremendi suoni simili ai gemiti ora cupi ora stridenti, quali escono dalle caverne dell’Alpi invase dall’impeto delle tempeste. Epperciò per doppio motivo, e per lusinghe e per minacce, convien fuggire la vicinanza di tali luoghi in ogni modo pericolosi, dove il godimento colpevole non va esente dalla punizione. Ai viandanti smarriti nella solitudine non manca l’ammonitore, il quale cerca stornarli dal pericolo inseparabile dalle sbrigliate passioni. Esso è il fido Eccardo (der getreue Eckhart), vegliardo seduto presso la caverna che dà adito all’interno del monte. L’Eccardo, nome rimasto proverbiale per savio ammonitore, è tra i tipi più popolari della poesia alemanna , la quale l’ha riprodotto in molti modi, anche piuttosto arbitrari, dal medio-evo insino al Goethe e a Lodovico Tieck. L’origine ne è di gran lunga anteriore a quella del Tanhäuser, incontrandosi di già nelle [p. 379 modifica]tradizioni, per cui venne trasformata in vasta epopea la storia delle migrazioni dei popoli germanici, che fecero rovinare l’impero d’occidente. Giacchè l’Eccardo della Saga primitiva è il fedel guardiano degli Arlungi, nipoti d’Ermanrico e cugini a Teodorico re de’ Goti, il «Dietrich von Bern» degli antichi canti alemanni; giovani minacciati d’occulto tradimento cui tenta sottrarli il detto lor custode. In siffatta qualità esso appartiene alla Brisgovia, retaggio degli Arlungi, e alla città di Brisacco (Breisach), laddove oggidì ancora l’Eckartsberg ne porta il nome. Nella medesima Brisgovia, non lungi da Friburgo, evvi il Venusberg, dove dicevasi seduto l’Eccardo col suo bastone bianco. L’incontriamo anche nella tradizione dell’esercito ossia caccia infernale (Das wilde Heer, die wilde Jagd), il quale in varie parti di Germania e segnatamente nell’Odenwald, nei monti e valli che stendonsi tra il Reno, il Meno e il Neckar, corre per l’aria notturna, annunziando guerra e morbi. II fido guardiano, precedendo a queste turbe, ne dà il segnale ed ammonisce il popolo di fuggire il contatto cogli spiriti maligni2.

Nella mitologia germanica, Freia, la Dea della bellezza, non solo riunisce in sè, al pari di Venere, le due qualità dell’amor puro e dell’impuro, ma tiene eziandio dell’essenza delle divinità dell’Erebo, accozzando nella sua natura luce e notte, indole benigna e malefica, pari alla Dea occulta ossia la magna madre della terra, detta Hel, l’Ecate greca, la quale apparisce metà lucente, metà scura3. Tale duplice qualità della nordica Venere [p. 380 modifica]viene espressa nella sopracitata tradizione, simboleggiante l’azione e felice e funesta del poter sovrumano sulle creature. Nel dar corpo alle idee, col trasformarsi in esseri individuali i singoli attributi delle divinità maggiori, vezzo solito del politeismo, andavansi creando tutte quelle divinità secondarie, quasi alle altre inservienti, buone e nocive, spiriti e demoni, le quali spesso in origine altro non sono se non i simboli delle forze elementari della natura. Così avvenne nel presente caso, essendo manifesta l’allegoria la quale serve di fondamento a siffatte credenze del popolo. Le varie località, che inoggi ancora ne conservano le tracce in Germania, nella valle Renana e nella Turingia ossia nell’Ercinia Selva, dimostrano quanto esse fossero radicate nella mente non del solo volgo ma d’ogni classe.

Nè alla Germania esse sono limitate, inquantochè le incontriamo anche in Italia. Qui però giova avvertire a due circostanze tra loro diverse. Mentre da una parte è evidente la connessione col settentrione, dall’altro lato fa valere i suoi diritti la mitologia antica. Il monte di Venere della nordica tradizione s’identifica coll’antro della Sibilla, e ciò è naturalissimo, accennando l’uno e l’altro al mondo sotterraneo. Tale si è il caso di quel luogo, dove sin ad oggi rimasero vive le memorie delle fole medievali, collo strano mescuglio di poetica immaginazione e di quella cupa e tremenda attualità, la quale, piena di superstizione, d’inganni e d’immoralità congiunta con veneficj ed altri delitti, trascinava alla pena del fuoco e dell’acqua, streghe e stregoni, condannando finanche frati e preti alla gabbia e alla perpetua carcere.

La valle della Nera, il cui capoluogo è Norcia, giace a settentrione dell’altopiano Reatino, nell’intera sua lunghezza bagnata dal fiume donde ne deriva il nome 4 [p. 381 modifica]e cui si unisce il Velino proveniente dalla Lionessa, le cui cime risplendono all’orizzonte di Roma. La Nera o il Nar ha la sorgente a piò del cosidetto monte della Sibilla , uno dei gioghi per cui, tra l’anzidetta valle e quella del Chienti volta all’Adriatico, sale a maggior altezza, cioè a quasi settemila piedi, l’appennino centrale, giogo creduto essere l’alpestre Tetrica, «Tetricae horrentes rupes5, del VII canto dell’Eneide. Severo è l’aspetto, crudo il clima di queste antiche sedi dei Sabini, sicchè a Norcia è rimasto il cognome di fredda: frigida Nursia, come si ha presso Virgilio. Paese afflitto dai terremoti, di cui si ha ricordanza nella cronaca perugina del Graziani6, essendo cadute, verso la fine del 1328, montagne e castella, sicchè ne morirono oltre dugento persone; infortunio, il quale si ripetè ancora in tempi a noi vicinissimi. Invano si chiede donde a quel paese solitario e tra’ monti nascosto, porzione non piccola della patria d’una delle più maschie schiatte d’Italia, sia venuta questa fama di necromanzìa nemmeno oggi spenta. Fama la quale forma singolar contrasto colla gloria di aver generato il padre del monachismo d’occidente. Forse di già nell’antichità conviene ricercarne le traccie, inquantochè le credenze popolari del medio-evo connesse colla stregoneria, la quale non rappresenta se non il lato prosaico della scienza sovrannaturale, traggono l’origine dalla divinazione antica. Sotto tale punto di vista, non può non colpire la somiglianza tra il nome della città Sabina e quello della Magna Dea Nortia, la Fortuna degli Etrusci, detta anche Nurtia e Nursia, cui rammentava una lapide scavata nell’antico campo marzio fiorentino7.

[p. 382 modifica]Non trovo nemmeno donde derivi il nome di Monte della Sibilla, nome che però potrebbe spiegarsi colle molte grotte di questa parte dell’Appennino. I luoghi da Virgilio, maggior autorità per ciò che spetta al sovrannaturale, nel suo poema nominati in connessione col mondo sotterraneo, non hanno che fare con queste località, quantunque esse in certo modo si specchino nelI’ Eneide, la cui bella descrizione della «famosa valle che d’Amsanto si dice» (c. VII, v. 565), valle che corrisponde a quella del Lago Muffiti nel Sannio antico, in alcuni tratti pare ricordi il monte della Sibilla. Tra le Sibille, quelle misteriose donne le quali, col profetizzare il monoteismo, collegano l’idea pagana colla cristiana, oltre alla Cumana e alla Tiburtina (Albunea) troviamo presso Varrone la Cimmerica, altrove detta Italica, ma senza indicazione del soggiorno8. I cronisti ed etnògrafi del medio-evo non chiariscono il dubbio.

Non mi è noto se nella letteratura italiana ci sia traccia più antica della fama neoromantica dei monti Norcini di quella cui incontriamo nel romanzo cavalleresco di Guerino il meschino, che è una specie di continuazione dei Reali di Francia. Il frontespizio delle prime edizioni e traduzioni del libro indica come Guerino, figlio di Milone di Borgogna principe di Taranto, cercando di padre e madre in Oriente ed Occidente, percorrendo l’appennino di Norcia, secondo la versione francese «trouva la belle Sibylle en vie et comment ils eurent plusieurs propos ensemble9». La Sibilla, detta ancora la Fata [p. 383 modifica]Alcina, non soddisfa al desiderio esternatole dal cavaliere perchè esso resiste agli incanti di lei, pure l’ammaestra nell’astrologia. A dimostrare come agli eruditi ancora fossero note quelle fole, serve una lettera di Enea Silvio, la quale sta in correlazione colle credenze popolari tedesche10. «Il latore della presente, così esso scrive al suo fratello raccomandandogli un familiare del medico del duca di Sassonia, è venuto a chiedermi, se io possa additargli in Italia un monte di Venere, in cui insegnatisi le arti magiche, nelle quali s’interessa il suo padrone grande astrologo. Gli risposi essermi noto Porto Venere sulla costa ligure, dove recandomi a Basilea mi fermai durante tre giorni, e di più il monte Erice di Sicilia sacro a Venere, dove però non ho mai inteso essere scuola di magìa. Poi discorrendo con esso lui mi venne in mente, nell’Umbria, nell’antico ducato di Spoleto, non lungi dalla città di Norcia esistere una contrada, dove al di sotto di enormi rupi apresi una caverna per la quale corre acqua. Secondo mi è stato riferito, ivi frequentano streghe, demoni e notturne apparizioni; e cui basta il coraggio, può vedere spiriti, conversar con loro, imparare ani magiche. Non li ho veduti, ne me ne sono curato, essendo meglio non imparare ciò che non imparasi se non col peccato».

La fama del paese di Norcia riguardo agli incantesimi non venne meno nel susseguente secolo. Ne sono testimoni e l’Ariosto e il Trissino e il Cellini, mentre presso l’Aretino ancora incontriamo la Sibilla di Norcia unitamente alla Fata Morgana. Leggiamo nel canto trentesimoterzo dell’Orlando:

«La sala ch’io dicea nell’altro canto,
Merlin col libro, o fosse al lago Averno,
fosse sacro alle Nursine grotte,
Fece far dai demoni in una notte».

[p. 384 modifica]Nel canto vigesimo quarto dell’Italia liberata dai Goti quest’angolo dell’appennino vien celebrato qual teatro di divinazione. A ognuno poi è noto il racconto di Benvenuto Cellini della necromanzìa praticata nel Coliseo romano. Lo stregone, prete siciliano, «di elevatissimo ingegno e d’assai buone lettere greche e latine», disse al nostro fiorentino il luogo più a proposito per le arti magiche essere nelle montagne di Norcia; un suo maestro aver consacrato in un luogo vicino alla Badia di Farfa, ma avervi avuto qualche difficoltà, «le quali non si sarebbono nelle montagne di Norcia, (mentre) quelli villani norcini son persone di fede, ed hanno qualche pratica di queste cose, a tale che posson dare a un bisogno maravigliosi aiuti». Fra Leandro Alberti Domenicano nella descrizione di tutta Italia stampata a Bologna nel 1550 rammenta il «Lago di Norsia» oggidì ancora dal popolo chiamato Lago di Pilato, e ricorda alcuni tedeschi uomini dotti e pratici che vi erano andati con grande spesa.

Dicerto è cosa singolare l’incontrarsi con queste fole nell’epoca più splendida di quella moderna civiltà, la quale traeva l’indole sua speciale dal culto dell’antichità. Ma giova riflettere, questa folta nebbia di superstizione, non sempre dispersa dalla luce della fede cristiana, essere d’origine essenzialmente pagana11. Accanto ai Lares e Manes benigni stavano le Larvae e i Lemures spiriti notturni e maligni, colle forme di scheletri e di fiere, contro ai quali istituivansi feste popolari ed incantesimi. Abbondante rimane la nomenclatura spettante ai sortilegi: Magus, maleficus, veneficus, sortilegus, lamia, saga, strix, maga, sortiaria. La fine del quattrocento, il principio del cinquecento [p. 385 modifica]trovarono l’Italia superiore piena di magica superstizione. Contro di essa è diretta la bolla «Summis desiderantes» di Papa Innocenzo VIII del 1484; Giulio II e Adriano VI ebbero da fare colla stregoneria nel Comasco, Leone X prese delle misure riguardo a Val Camonica, ai territori veneti, nei quali il governo più volte trovossi in conflitto col rigorismo degli inquisitori. Nel seicento ancora durarono pur troppo sortilegi e processi, dei quali non ho già da tessere la storia12. Il nome di Norcia in certo modo rimase immedesimato colle arti magiche e colla ciarlataneria alle medesime inerenti, e chiamavansi Norcini certi cerusici, dei quali, una volta almeno, quel paese abbondava, dedicati alla cura di mali segreti, ma pareggiati ai ciurmatori13.

Non alla sola Italia limitossi la fama di Norcia e del suo monte, secondo dimostrano le parole di Fra Leandro Alberti. Anzi i maggiori particolari, e d’età molto più antica, ritrovansene presso uno straniero, destando maggior interesse perchè dimostrano la stretta relazione delle nordiche tradizioni coi miti italiani. Allorché, regnando Papa Martino V, le spesse mutazioni di Giovanna II, ultima della schiatta francese la quale dai pontefici venne chiamata nell’Italia meridionale, più che mai accesero i partiti Angioino ed Aragonese, Lodovico d’Angiò detto il terzo, or chiamato a successore or diseredato dalla volubilissima regina, nella primavera del 1422 stremato di forze lungamente soggiornò a Roma. Stava con lui un cavaliere provenzale, Antonio de la Sale, guerriero-poeta al pari di molti tra i suoi connazionali, i quali già due secoli prima aveano rallegrata la Provenza coi canti dei trovatori, rendendola chiara mercè il valore dei suoi figli. Antonio de la Sale, il quale erasi trovato alla presa di Ceuta, stando a [p. 386 modifica]Napoli coll’Angiovino, ne aveva percorsi i contorni, investigando sul Posilipo e a Pozzuoli, a Cuma e sul Capo Miseno, presso il Lucrino e l’Averno e nelle isole le tracce di Virgilio a lui familiarissimo. La curiosità naturale in un giovine nutrito delle tradizioni del paese d’Arli l’aveva spinto a far ricerca di tutto ciò che spetta alle Sibille e agli incantesimi, coi quali il medio-evo, trasformando il poeta in mago, aveva popolate le campagne napoletane. Ma ciò non eragli bastato. Trovandosi nello stato della Chiesa, in seguito ai successi della guerra, Antonio non si diede pace prima di aver visitato il paese di Norcia, e nel dì 18 maggio del 1420 scese nell’antro della Sibilla. Due anni e mezzo in là, egli ne fece racconto a un ambasciatore di Filippo il Buono duca di Borgogna, Gualtieri de Ruppes, giunto a Roma col vescovo di Senlis onde conferire col papa intorno alla successione al trono francese in litigio tra il partito inglese e quello di Carlo VII. Uno zio di mio padre, così disse Gualtieri ad Antonio de la Sale, molti anni fa venne in Italia. Passando da Ancona a Roma, esso volle visitare la grotta della Sibilla, e non si è più veduto. Ma dicono che voi stesso siete stato nella grotta.

Allora Antonio raccontò qualmente, col permesso del podestà di Norcia, in compagnia di un dottore chiamato Giovanni di Soria, erasi recato a visitare il monte e il lago della Sibilla. Sorgeva nel lago un’isoletta, già congiunta colla riva per mezzo d’una diga, teatro degli incantesimi dei magi e degli stregoni. Di là escivano le fiere tempeste, frequenti devastatrici dei monti e delle adiacenti pianure. Nel lago crede vasi essere sepolto Pilato, colà precipitato nell’abisso dalle bufale che sul carro ne traevano il corpo dopo il supplizio sofferto regnante Vespasiano. Il monte era di meravigliosa altezza, sicché dalla cima scuoprivasi il Mediterraneo assieme all’Adriatico. Tale cima era sterile e scoscesa, e un sentiero strettissimo sovrapendente all’abisso conduceva a una [p. 387 modifica]rupe enorme con base poco salda, sicchè tremava al soffio del vento. Lì era l’adito alla grotta. Antonio aveva promesso al podestà di non inoltrarsi nelle viscere del monte; pure volle vederne qualcosa, quando senti dei suoni che pareangli come d’uccelli, ma misero tale spavento nei suoi compagni, che a nessun costo vollero procedere. Le pareti interiori del vestibolo della grotta erano umide e coperte di musco. Volendo scrivervi il suo nome, Antonio ne nettò una parte, e scoprì una iscrizione del seguente tenore: Her Hans von Bamberg intravit. Le guide naturalmente non poterono dargliene contezza, ma tornato a Norcia seppe da uno del paese, maestro Fumato, la storia d’un cavaliere di Franconia il quale entrato nell’interno del monte, e preso dall’incanto della vita alla corte della regina Sibilla, lungo tempo eravi rimasto, poi dai rimorsi condotto ad escitene non avea potuto resistere alle dolci rimembranze, e per sempre era scomparso. Era insomma la storia del Tanhäuser trapiantata nell’Appennino. Il divieto d’entrar nella caverna, e la distruzione della diga conducente all’isoletta, erano state conseguenze dell’avventura. Tale fu la storia di Antonio de la Sale da lui posteriormente raccontata anche al buon re Renato e a Giovanni duca di Calabria di lui figlio. Quant il vous plaira de y aller disse il cavaliere al Duca, les dames vous y festoieront très voullentiers. Ma il pretendente al trono di Napoli aveva da pensare ad altro che alla Sibilla di Norcia. Anche il delfino di Francia, che divenne poi re Luigi XI, ascoltò a Genappe il racconto del Provenzale. Nel medesimo c’è ancora da notare, la Sibilla aver consegnato al cavaliere nel momento della partenza una verga d’oro dal re Renato interpretata qual segno dell’illusione invece della speranza, dal Delfino creduta il simbolo della corruzione dominatrice del mondo; ma forse l’istessa verghetta, la fatalis virga segno di comando nel mondo sotterraneo, simile a quella di Mercurio presso Stazio, [p. 388 modifica]o all’altra che apre la porta della città di Dite nel nono canyo della Divina Commedia14.

La Sibilla, quale nella tradizione italiana l’incontriamo regina nel monte per cui vien rappresentato il mondo sotterraneo, non riesce nuova alla storia alemanna. Giacchè nell’antichissimo poema semidrammatico intitolato «der Wartbargkrieg», nel quale si celebra la contesa dei maggiori poeti del tempo creduta aver avuto luogo nei primi anni del dugento alla corte del Langravio di Turingia, là Sibilla in certo modo pare identica con Giunone, la quale ancora nel monte prende il posto di Venere o di Freya: prova evidente, sin a che punto gli attributi delle varie divinità sono facili a confondersi15. La mitologia germanica conosce anche la figlia della Sibilla, Felicia, ossia la Fortuna il cui antico nome tedesco «Vrau Saelde» venne latinizzato, al pari di quello di Freya trasformato in Venere, allorquando l’Olimpo greco-latino cominciò a gettare come un riflesso sulla poesia medievale. In altri modi ancora, la fama neoromantica dei monti Sabini ha trovato un eco nella Germania. Uno dei personaggi che hanno dato luogo alla storia di Fausto, è quel Georgius Sabellicus, di cui l’abate Giovanni di Trittenheim fece menzione nel 1507 come di un mago girovago. Nel Fausto di Goethe non si è dimenticato il necromante di Norcia, nè la virtù del monte, dove la natura quanto può [p. 389 modifica]dimostra in piena libertà, facendo prodigi, cui mente ottusa dà nome di magia. Nell’atto quarto della seconda parte, Fausto sul promontorio, dove l’imperatore sta armato e pronto a combattere i nemici, gli indirizza le seguenti parole:


Il Negromante
Di Norcia, quel Sabino, è rispettoso
E fedel servo tuo. Fu minacciato
Costui d’una terribile sventura.
I fasci crepitavano, la fiamma
Le sue lingue aguzzava, e d’ognintorno
L’arida pira lo cignea spalmata
Di pece e di bitume. Ad uomo, a dio,
A demonio verun non era dato
Salvarlo. Rotte le catene ardenti,
Sire, n’hai tu. Sul Tebro il caso avvenne16.

Potrebbe parere, non alla sola Norcia essersi in Italia limitata la tradizione del monte di Venere. Ne incontriamo le tracce in altro paese di montagna, se prestiamo fede alla relazione di un tedesco. Nella primavera del 1497 Arnaldo de Harff, patrizio Coloniense di famiglia oggidì fiorente, dopo di aver visitata Roma incamminossi per la via delle Marche e di Romagna alla volta di Venezia, dove s’imbarcò per l’Oriente. L’estesa relazione di questi viaggi, pochi anni fa pubblicata17, è curiosa assai; convien d’altronde confessare, la veracità dello scrittore soggiacere a gravi dubbi, dimodochè nel presente caso ancora è da sospettarsi essersi egli servito d’altrui racconti, da lui con poca esattezza raccozzati. «Da Fuligno a Nocera, città con rôcca (così leggiamo in detta relazione) camminammo dieci miglia. Sentendo parlare ivi di uno di quei monti di Venere, dei quali nel paese nostro raccontansi tante meraviglie, [p. 390 modifica]persuasi ai miei compagni di deviare per un miglio dalla strada maestra, onde visitare detto monte. Così si fece. Traversando una collina, giungemmo a una piccola città chiamata Arieet, con porta turrita di cui si racconta una storia di Santa Barbara. (Tralascio la storia, la quale trasporta nell’Appennino la leggenda della martire di Nicomedia). Lasciando Arieet, arrivammo a un’altra piccola città detta Norde, nel cui vicinato è situato il monte di Venere, presso il quale si è costruita una rôcca presidiata dal castellano del papa, cui per nostra buona sorte incontrammo a Norde. Gli esposi in latino il nostro desiderio di visitare il monte di Venere, del quale nella patria nostra diconsi tante cose strane. Il castellano si mise a ridere, ma la nostra brigata essendosi fermata, egli in quella sera tenneci buona compagnia. La mattina seguente con esso lui montammo a cavallo, ed arrivammo al monte, perforato di molte grotte somiglianti a quelle di Falkenberg e di Maastricht, donde si sono cavate le pietre servite a costruire il borgo e la rôcca. Entrai col castellano nelle grotte, ma non vidi nulla, quantunque parecchie ne rimanessero ancora accessibili, altre essendo ingombre di terra e di sassi. Accompagnammo poi il castellano a casa sua, dove trovammo cortese ospitalità. Dopo pranzo montati nuovamente a cavallo ascendemmo il monte, il quale ha in cima un laghetto con una cappellina sulla riva. Il castellano ci raccontò, come nei tempi passati, essendo in gran vigore l’arte dei necromanti, essi salissero in quel luogo, evocando sull’altare della cappella gli spiriti maligni. L’acqua del laghetto allora alzavasi, formando una nube la quale scioglievasi in Aero uragano rovinando i contorni. Finalmente gli abitanti del paese non volendo più tollerare queste arti demoniche, ne porsero lagnanze al castellano d’allora, il quale fece alzare le forche tra la cappella e il lago, minacciando di fare impiccare chiunque ardisse darsi ad incantesimi. Ecco [p. 391 modifica]tutto ciò che venne a nostra notizia. Riprendendo il cammino verso la via maestra, giungemmo a Fossato, castello distante sei miglia da Nocera».

Non vorrei far torto al mio connazionale, ma confesso l’intera relazione muovermi il dubbio, che qui non si tratti di cosa veramente al medesimo accaduta, ma di qualche racconto fattogli chi sa dove, e da lui confusamente ripetuto. La descrizione accenna al monte di Norcia, dal nostro Alemanno forse sbagliato con Nocera nelle cui vicinanze non v’è traccia di luoghi detti Arieet e Norde, nomi sotto i quali possibilmente nascondonsi quei di Rieti e dell’istessa Norcia. Due circostanze però m’impediscono di cambiare in certezza il dubbio. Il paragone tra le grotte descritte e quelle di Falkenberg (Fauquemont) sul confine tra Prussia ed Olanda, e le vastissime del monte San Pietro presso Maastricht (Traiectum ad Mosam), farebbero credere che si tratti di cosa veduta coi propri occhi. Ma nell’istessa relazione incontriamo altre descrizioni evidentissime, senza poter affermare il nostro viaggiatore essere stato testimone oculare. L’avere esso, dopo passato Nocera, abbandonata veramente la strada maestra, spiegherebbe il di lui silenzio riguardo a Gualdo, borgo posto tra Nocera e Fossato, e l’errore occorso nella relativa distanza di questi due castelli, mentre in generale egli è molto esatto nell’indicare luoghi e distanze. Risulta dalle cronache perugine non essere mancate streghe a Nocera, ma esse forse non saranno mancate a qualsiasi luogo d’Italia.

Con questo pongo fine ai presenti cenni. Sarò lieto se ad essi toccherà la sorte d’invitare un erudito italiano ad occuparsi di un argomento, il quale non si potrà pienamente illustrare se non col diligente confronto delle tradizioni locali. Basta a me l’aver indicata la connessione, in cui le medesime, mantenute vive nella letteratura italiana ancora, stanno coi miti germanici. La tradizione del monte di Venere mi pare [p. 392 modifica]meritevole di più ampio esame per la continuazione, dalla medesima riconfermata, di credenze antiche nel medio-evo, quale l’incontriamo, a modo d’esempio, nelle storie di Virgilio mago, teina di tanti dotti lavori in Germania, e non meno in Italia, dove Domenico Comparetti ne trattò con acume pari alla molta e varia erudizione.




Note

  1. «Tanhäuser» nei canti popolari raccolti da L. Uhland [Teutsche Volkslieder, Stuttg. 1845, pag. 761-772) e nelle tradizioni pubblicate da J. e W. Grimm (Teutsche Sagen, II. ediz. Berl. 1865, voi. I, pag. 214). Una versione senza dubbio piuttosto moderna della tradizione accenna a Papa Urbano IV, 1264-68, mentre verso la metà del dugento vien menzionato in Germania un poeta nobile (Minnesänger) del nome del Tanhäuser, oriundo dei monti di Salisburgo, cavaliere gaudente il quale sperse il suo patrimonio nelle feste e colle donne, quantunque fosse stato in pellegrinaggio a Roma e a Gerusalemme. J. G. T. Graesse, colla solita diligenza maggiore della critica, ha raccolto tutto ciò che spetta a siffatta tradizione (Dresda 1846 e 1861).
  2. «Der getreue Eckhart» presso C. Simrock, Teutsche Mythologie, III ediz., Bonna, 1869, pag. 193, e Grimm, loc. cit., vol. I, pag. 356. C. Simrock, das malerische und romantische Rheinland. IV ediz., Bonna 1865, pag. 48-50.
  3. Simrock, Teutsche Mythologie agli articoli Freyja, Venusberg ec. Il libro di Enrico Kornmann: Mons Veneris, Frau Veneris Berg, Francoforte, 1614, contiene l’enumerazione, materiale ed inetta, delle varie
  4. tradizioni locali. Parlando nel cap. xvi del monte di Norcia, cita Enea Silvio o Adriano Romano nel Theatrum Urbium, pag. 198.
  5. Non ho bisogno di diffondermi sul significato dell'addiettivo tetricus proveniente da teter, nè sul nome di tetricae deae dato alle Parche da Marziale.
  6. Arch. Stor. ital. vol. XVI, par. I, pag. 101.
  7. Juvenal, Sat. X. 74, col comento di C. F. Heinrich nell’ediz. di Giovenale, Bonna 1839, vol. II, pag. 387. Tertulliani, Apolog., c. XXIV. Lami. Lez. d’ant. tosc., pag. 44. Follini, Firenze ant. e mod., vol. II, pag. 3 seg.
  8. F. Piper, Mythologie der christlichen Kunst. "Weimar, 1847, vol. I, pag. 472 seg. La Sibilla Cimmerica è la quarta nel libretto popolare tedesco sulle profezie delle Sibille: Zwòlf Sibyllen Weissagungen, nell’ediz. di C. Simrock (Francof. senza anno), pag. 15.
  9. La stampa più antica del Guerino è la padovana del 1473 (Brunet, Manuel du libraire, vol. II, col. 1787), quella della versione francese del 1530. Ne parlano Goethe nelle note aggiunte alla vita di B. Cellini, (Opere vol. XXIII. pag 130 dell’ediz. di Stuttg., 1851 segg.) e F. H. Von der Hagen. Briefe in die Heimat, Eresi. 1818, vol. II, pag. 109 e seg.
  10. Aeneae Sylvii, Opera, Epistol. 1. I ep. 46. J. Burckhardt, Cultur der Renaissance, Basilea, 1860, pag. 533.
  11. Iac. Burckhardt nella pregevolissima opera già citata: Die Cultur der Renaissance a pag. 512 seg., espone la correlazione tra la superstizione del medio-evo e maggiormente dell’epoca degli umanisti colle credenze popolari del paganesimo.
  12. J. Sprenger, Malleus maleficarum. Col. 1489; W. G. Soldan, Geschichte der Hexenprocesse. Stuttg., 1843.
  13. Il Vocabolario della Crusca alla parola Norcino.
  14. Il racconto di Antonio de la Sale, autore di varie opere romanzesche, leggesi in un codice della Biblioteca di Borgogna di Brusselles. Il barone Kervyn de Lettenhove, editore dei Commentari di Carlo V ved. Arch. Stor. ital., n. s., Tom. XVI) ne ha dato un estratto: La demière Sibylle nei Bulletins de l’Acad. roy. de Belgique. Lettres. Anno 1862, pag. 64-74.
  15. Der Wartburgkrieg. ec. von Carl Simeock, Stuttg. 1858, pag. 110-114.

    «Felicia, Sibyllä Kind,
    Una Juno, die mit Artus in dem Berge sind,
    Sie haben Fleisch wie wir und auch Gebeine».

  16. Traduz. di Andrea Maffei, Parte II (Fir. 1869), pag. 339. Potrebbe darsi, che vi fosse allusione al fatto di Cecco d’Ascoli.
  17. Die Pilgerfahrt des Ritters Arnold von Harff, herausgegeben von Dr. E. von Groote. Colonia, 1860, pag. 37-38.