Daniele Cortis/Capitolo ottavo
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CAPITOLO VIII.
Sul campo.
Il mattino dopo, alla stazione di..., la penultima del suo lungo viaggio, Cortis trovò B. e alcuni altri amici che gli erano venuti incontro. Correvano ansiosi su e giù lungo il treno, aprendo gli sportelli, ficcando il viso nelle carrozze. Scoperto Cortis, gli furono tutti sopra a stringergli forte la mano, a salutarlo con voce sommessa e in aria compunta.
«Molto male?» diss’egli, oscurandosi pure, guardando rapidamente ciascuno di loro.
«Malissimo» rispose B. accasciato. «Malissimo, te lo dico schietto. Per me non faccio complimenti, affare andato.
«Piano, piano» saltò su un altro. «A questo poi, oh Dio!... La scusi, dico, non mi pare.
Allora B., che un momento prima parlava come se non avesse più fiato in corpo, scattò in piedi e si mise a tempestare come un energumeno:
«Ma sì, andato, le dico, ma sì! Non mi pare! Ma cosa non mi pare? Ma dove vive lei? Ma non sa della società operaia? Ma non sa del giornale?
«E i muri?» suggeriva un terzo sottovoce.
«Bravo!» urlò B. «E i muri! Dieci manifesti di quell’altro per uno dei nostri!
«Ma l’aspetti, si vedrà oggi!
«Sì, bravo, cosa vuole che si veda!
«Si vedrà oggi, le dico.
«Ah sì, lei li volta, lei li ribalta, quella gente!
«Ma sì!
«Ma no!
Adesso schiamazzavano tutti insieme, litigavano fra loro come se Cortis non fosse presente.
«Un momento, signori!» diss’egli soverchiando con la sua voce le altre. «Quest’adunanza c’è o non c’è?
«Sì!
«Altro!
«Sì, signore!
«Sicuro!
«E ci dovrò intervenire?» ripigliò Cortis.
«Ecco il punto, capisci!» gridò B. rovesciandoglisi quasi addosso e scotendogli sul viso le mani con le punte delle dita raccolte in su. «Ecco appunto che noi faremo la proposta d’invitarti e non sappiamo ancora se passerà, perchè gridano, capisci! gridano ch’è inutile! Che ne sanno abbastanza! Che che che che che...
«Ma questa lettera?» interruppe Cortis. «Questa lettera mia che hanno stampata?
«Ah!» esclamò B. percotendosi la fronte e poi frugandosi le tasche a due mani. «Che testa! Dire che sono venuto apposta! L’ho qui, l’ho qui!
Fuori giornali, fuori lettere, fuori note. B., rosso come un gambero, guardava in fretta e in furia carte e carte, le buttava per terra, sui sedili, sulle gambe degli amici. Finalmente uscì un brano di giornale con la famosa lettera diretta a un tale prof. M. di Venezia, morto da due mesi. Il giornalista asseriva di averla in ufficio e ne pubblicava alcuni periodi.
«La lettera è un pretesto» disse B. raccogliendo e rintascando, ad una ad una, le sue carte disperse. «La lettera è un pretesto. Non ti vogliono.
«Eh no, per questo» osservò un altro, «se la lettera non fosse sua...
«Ma è sua» sussurrò qualcuno, mentre Cortis, saltati i commenti del giornale, leggeva questi terribili periodi:
«Se per ora non si può far di meglio, transeat; cerchiamo di passare come che sia; ma tu sai che io sono cattolico e che confido in quello sviluppo progressivo della civiltà cristiana in cui confidava il conte di Cavour. Perciò affretto col desiderio il momento in cui si costituirà un partito parlamentare, un elemento di governo con questo ideale. Che alcuni tentativi per muovere la pubblica opinione sieno falliti, oportebat; tu sai meglio di me che questa è stata sempre la preparazione storica di tutte le imprese grandi e difficili. Altri ancora ne cadranno, ma io sono fermamente convinto che a un dato momento questo partito sorgerà per effetto di necessità politiche, e che allora, anzi prima di allora, si troverà l’eroe, come direbbe il tuo Carlyle, per condurlo; dietro al quale eroe, o nelle prime o nelle ultime file, ci sarà pure, se vivo, il tuo
Daniele Cortis.»
«Altro che mia!» esclamò Cortis verso colui che ne aveva espresso il dubbio. «Altro che mia! Perfettamente mia!
«Euh!» fece B. «Si sapeva bene.
Gli altri tacquero.
«E cosa dicono questi signori elettori?» chiese Cortis.
«Cosa dicono?» rispose B. «Guarda il giornalista cosa dice.
«Il giornalista è un idiota.
«Ah, mio caro, i nostri elettori non sono mica tanti Cavour. Non capiscono. Vedono cattolico, vedono civiltà cristiana, vedono nuovo partito parlamentare, non intendono bene le distinzioni che si possono fare tra conservatore e clericale, e dicono addirittura che già sei clericale. Il chiasso maggiore poi, lo fanno per quella prima frase del passare come che sia e gridano... scusa, io adesso ripeto... gridano che è una slealtà, una indegnità che ti basta di farti eleggere in un modo o nell’altro, che ti fai giuoco del collegio e che so io. Ma già bisogna sapere che quell’altro ha fatto un lavoro del diavolo, e per questa gente lavorata la lettera è un pretesto. Infatti, son loro che non ti vogliono neppur sentire.
«Ma bisogna» disse Cortis con gli occhi scintillanti, «bisogna che mi sentano! Oh Santo Dio, cosa possono aver capito da quella lettera? bisogna che mi sentano!
«Sì, sì, bisogna, bisogna» brontolò B. con un riso amaro. «Ma vorranno? Speriamo!
«Io vengo senza invito e solo, se i miei amici non hanno il coraggio di accompagnarmi» rispose Cortis. «E se nessuno mi dà la parola, me la piglio. E...?
Qui Cortis nominò un pezzo grosso, quel grande elettore che lo favoriva.
«Eh, caro mio!» rispose B. «Eccolo.
E alzata la mano destra, con le dita aperte in aria, la girò sul polso come se una molla gli fosse scattata all’avambraccio.
«Da quella parte» proseguì «siamo in terra del tutto. Anzi ricordati che, se oggi parli, ci vuole un’allusione a questo despota che pretende fare la pluie et le beau temps nel collegio.
«Bene» disse Cortis, «adesso vi prego di lasciarmi pensare un poco.
Si cacciò in un angolo del vagone, lesse e rilesse l’atto d’accusa, poi si mise a riflettere, ora guardando dal finestrino, ora coprendosi il viso con le mani, fino a che B. gli disse:
«Ci siamo. Sono le dodici» soggiunse. «Io ho qui la carrozza e ti porto a casa mia. Là ti lascio a far colazione e vado a tastare il terreno. Al tocco vengo a prenderti e si va, coûte que coûte. Oh, guarda, quell’altro.
Mentre Cortis scendeva dal treno, il suo competitore si accomiatava, sotto la tettoia, da una folla di amici che parlavan forte e ridevano.
«Capite?» mormorò B. con una faccia sepolcrale. «Li sentite? Sono sicuri.
Qualcuno del gruppo avversario vide Cortis. Tutti si voltarono, meno l’emulo, a sbirciarlo insolentemente. Appena egli e la sua comitiva ebbero oltrepassato il cancello dell’uscita, si udirono alle spalle due o tre fischi.
«Aspettatemi qui» disse Cortis fermandosi su due piedi.
Tornò tranquillamente indietro e andò diritto verso l’altro candidato che aveva già un piede sul montatoio del vagone, gli stese la mano senza curarsi degli altri, come se non esistessero. Colui diventò rosso rosso, gli fece un garbuglio di saluti premurosi, si scusò goffamente di non averlo veduto prima.
«Oh!» rispose Cortis. «Non esigevo di essere salutato da te. Io, come gentiluomo e amico di gentiluomini, ci tengo a fare un atto di cortesia verso il mio avversario prima d’incrociar le lame. Addio.
Ciò detto, ripassò a fronte alta in mezzo al gruppo, e raggiunse B. e gli altri che avevano spiato il colloquio da lontano.
«Cosa, cosa, cosa?» chiesero tutti, pallidi, ansiosi.
«Niente, andiamo via» disse Cortis ripigliando B. a braccetto. «Gli ho rivelato con la cortesia più squisita che lui e i suoi amici sono un branco di mascalzoni. Adesso mi rispettano, capite? E poi questo mi fa bene, di dar del mascalzone a chi se lo merita.
Venti minuti dopo, tutti sapevano, nella piccola città, la scena della stazione, i fischi, l’atto di Cortis. B., che appena accompagnatolo a casa, era corso al caffè, tornò a prenderlo al tocco, tutto scalmanato, gridando:
«Presto, andiamo, buona impressione, son inteso col Comitato. La bravata — quegli altri la chiamano così, ma a mezza bocca, a mezza bocca — la bravata ha fatto buona impressione. Un gentiluomo, dicono. Io poi ho predicato a quei cretini che non ti volevano sentire. Oh che duri! Ma ho predicato, ho predicato!
Cortis lo interruppe sorridendo.
«Grazie» diss’egli; «ma sai poi se sarai contento di quello che dirò?
«Io non voglio il mascalzone!» urlò B. «Io non voglio il mascalzone! Andiamo, presto, andiamo. Presto!
Alla porta del casino il vetturale Schiro, che serviva qualche volta la contessa Tarquinia, fermò Cortis. Alla signora contessa premeva assai di parlare con il signor Daniele; gli aveva mandato la carrozza perchè venisse a Passo di Rovese subito dopo il discorso. Cortis ordinò a colui di tenere i cavalli pronti per le due e mezzo.
«Nulla di nuovo?» diss’egli.
«No, signore.
«Stanno tutti bene?
«Sì, signore. Almeno lo credo.
«Anche la contessina?
«La contessina? La contessina è andata via, signore. È andata via iersera. Ho sentito che dicevano che andavano a Roma.
«Ehi!» disse B. vedendo Cortis che stava lì trasognato, senza parlare, nè muoversi. «Andiamo! Presto!
Sulla porta del casino, sui pianerottoli delle scale, v’erano già gruppi di elettori che s’aprivano davanti a Cortis, salutandolo in silenzio, con una certa curiosità mista di riserbo; e poi si avviavano lentamente, dietro a lui, verso la sala. In sala, tre o quattro membri del Comitato elettorale discorrevano in piedi presso il gran banco che fronteggiava una fitta ordinanza di sedie vuote, rigide, come parvero a Cortis, e arcigne. Quei tre o quattro fecero verso di lui, quand’egli entrò, un passo quasi peritoso, lo salutarono con imbarazzo.
«Ella viene dalla Svizzera?» disse il più disinvolto.
«Sì, signore.
«Bel paese!
«Sì, signore.
Allora B. si fece avanti tutto affabile e sorridente.
«Il nostro Cortis» diss’egli «è dispostissimo...
«Non è la parola» interruppe Cortis, mentre l’altro ripeteva «ecco, ecco» facendo grandi cenni d’assenso con le mani e con la testa, e tirandosi indietro per dar luogo all’attore principale. «Non è la parola. Io era desiderosissimo di offrire agli elettori delle spiegazioni a cui hanno tutto il diritto; e poichè la mia candidatura è stata già discussa e deliberata qui, ho creduto doveroso, avendo a prendere la parola, di prenderla qui.
«Ecco giusto il presidente» rispose uno del Comitato, accennando ad un signore alto e grosso che entrava allora tutto affannato e frettoloso e che salutò Cortis con maggior cordialità degli altri. Quando questi si fece a ripetergli il discorso di prima lo interruppe subito, dicendo: «Sì, sì, so, va bene, ho parlato qui con l’amico B., sono inteso», e poi mandò i colleghi a raccogliere e far entrare in sala i signori elettori.
«I quattro cretini» mormorò B. a Cortis guardando il soffitto mentre coloro uscivano.
«Ecco» disse allora il presidente pigliando Cortis a parte. «Io direi così», e gli snocciolò il discorsetto preparato, con un’occhiata al suo interlocutore e un’occhiata agli elettori che entravano, abbassando involontariamente la voce al comparire di certe facce nemiche. B., che s’era piantato lì vicino per cogliere, se poteva, senza parere, il discorsetto confidenziale del presidente, non ne perdeva una delle facce che comparivano, le studiava, le seguiva per la sala con occhi benevoli o diffidenti, fissava le teste che qua e là si chinavano l’una verso l’altra, con la manifesta cupidità di porre un orecchio in tutti i bisbigli.
«Molta gente» diss’egli a Cortis, poichè il presidente ebbe preso il proprio posto. «Molti brutti musi. E quella marmotta di presidente, dirà bene?
Costui suonò in quel punto il campanello, guardandosi attorno con molta dignità e senza alcun sospetto che proprio allora gli regalassero della bestia. Ricordò poi come in una precedente seduta fosse stata approvata, a grande maggioranza, la candidatura Cortis, per la quale il Comitato aveva anche iniziata la propaganda elettorale. Soggiunse che una recente pubblicazione, a tutti nota, aveva levato tal rumore nel paese, aveva prodotte impressioni così vive e diverse da rendere necessaria una nuova adunanza e una nuova discussione. V’era stato, a dir vero, qualche dissenso fra i colleghi dell’oratore sulla opportunità d’invitare all’adunanza l’onorevole candidato signor Cortis, che si sapeva poi anche lontano. Qualcuno aveva proposto di discutere e deliberare preliminarmente se il candidato dovesse limitarsi a dare spiegazioni o no. La improvvisa venuta del signor Cortis aveva tolto di mezzo questi dubbi, e il Comitato si teneva sicuro che anche i signori elettori preferirebbero discutere e deliberare sulle pubbliche dichiarazioni del candidato, piuttosto che sopra un brano di lettera. Quindi l’oratore accordava la parola, se non vi fossero opposizioni, all’onorevole Cortis.
Il presidente sedette soddisfatto girando il capo a cercare approvazioni a destra e a sinistra sui visi accigliati dei suoi colleghi; e trascorso un momento senza che nessuno parlasse, Cortis si levò in piedi, cominciò a parlar lentamente, con voce misurata, in questo modo:
«Signori!
«Io vi ringrazio e vi felicito di avermi accordata la parola.
«Che i miei nemici, per assalirmi, abbiano dovuto compiere un atto disonesto, nè me ne dolgo, nè me ne vanto; è una cosa naturale, e io lascierò volentieri nell’ombra, che ad essi giova, i loro atti e le loro persone. Sta ch’è venuta in luce una mia lettera...
Un mormorìo sordo si levò nella sala.
«Sì, onorevoli signori» riprese Cortis con forza, mentre i suoi amici lo guardavano pallidi e palpitanti, «una lettera che io raccolgo come mia, senza credere di abbassarmi.
Qualcuno in un canto della sala gridò «Bene!» gli altri zittirono; seguì un silenzio profondo.
«Si è pubblicata una mia lettera suscettibile, forse, d’interpretazioni molto gravi, molto atte a togliermi la fiducia di coloro che temono l’introdursi nella Camera di elementi ostili alle nostre istituzioni e alla libertà; tanto che alcuno di voi, alcuni elettori di cui rispetto l’onesto terrore, ripugnavano persino, come ho testè inteso dall’egregio presidente, a udirmi. Ebbene, signori, io vi felicito che abbia prevalso in voi il partito più liberale e più equo, malgrado il senso ignobile che si vuol attribuire ad alcune mie parole. Io respingo, a questo proposito, con disprezzo l’accusa di slealtà che mi viene mossa, la indegna accusa di volermi far giuoco di questo nobile collegio.
«Sì, ho scritto privatamente e oggi ripeto senza esitazione in pubblico, che se per ora non si può far di meglio, convien passare come che sia; e voi comprenderete facilmente, rileggendo quella lettera, che io non potevo alludere alla mia situazione personale in questo collegio; comprenderete che io alludevo invece al presente periodo della vita politica nazionale, periodo poco prospero, a mio avviso, e poco promettente, periodo che bisogna pure attraversare alla meglio, augurando e preparando un altro ideale.
La stessa voce di prima gridò: «Bravo!».
Vi furono dei «zitto», delle risatine sommesse. Tutti guardavano verso un angolo della sala.
«Io ringrazio il mio incognito amico» disse Cortis, guardando anche lui da quella parte e ottenendo opportunamente dall’uditorio un riso blando, «io ringrazio il mio incognito amico che mi conforta con l’esempio a esprimere le convinzioni del mio cuore anche a costo di essere vox clamantis in deserto.
Risa e alcuni applausi tosto repressi. Cortis si fermò un momento; quindi riprese abbassando e rallentando la voce:
«Vengo a questo ideale.
Chinò il viso per raccogliere un poco i pensieri. Nessuno fiatava. Tutti gli occhi erano fissi in lui che rialzò subito la fronte e la voce.
«No, onorevoli signori, il mio ideale politico non sarà mai l’ideale politico del partito che vorrebbe subordinare i diritti e gli interessi dello Stato a un’autorità, sia pur grande, sia pur legittima, ma fondata sovr’altra base, con altri mezzi, per altro fine. Io posso desiderare, per un concetto di equilibrio politico e per un patriottico voto di pacificazione interna, che questo partito accetti onestamente l’attuale ordine di cose, ed entri utile e rispettabile nella Camera; me se io avrò in quel tempo l’onore di sedervi, non militerò mai con esso...
Applausi scoppiarono qua e là, non caldi, non unanimi; l’amico incognito rimase zitto.
«... fino a che, almeno, trasformatosi di partito essenzialmente religioso in partito essenzialmente civile, non modifichi profondamente le proprie vedute sui diritti e le funzioni dello Stato.
«È evidente, signori, che scrivendo una lettera familiare, io ho potuto non servirmi dei termini più esatti e propri.
A questo punto un sussurro si levò nella sala, una specie di «finalmente!» diluito nella soddisfazione. Cortis s’interruppe.
«No» diss’egli, «io non ripudio una sola di quelle parole, ma è certo che avrei potuto chiarire il mio concetto con maggior precisione, come cercherò di fare in questo momento.
«Oggi siete voi, signori elettori della vecchia legge, che avete in pugno un grande potere dello Stato, ma si sta già predicando il Nuovo Testamento e domani ne farete parte evangelicamente alle turbe. È una ingiuriosa follìa di credere che questi nuovi elettori vorranno subito mettere le mani su qualche cosa e che il paese andrà a soqquadro; ma è pure una follìa il non riconoscere che si sarà fatto, non un salto nel buio, ma un lungo passo avanti nella chiara e fatale via della evoluzione democratica, e che le nuove moltitudini elettorali saranno inclinate a procacciarsi un utile diretto con la loro partecipazione al Governo, a promuovere un’azione legislativa, esagerata ed improvvida, esclusivamente a loro favore. Io non ne provo, signori, una vana e puerile paura; io credo che vi è in questo fermento democratico qualche lievito rubato al cristianesimo; io vedo nel mio pensiero un luminoso e possibile ideale di democrazia cristiana, molto diverso da quel dispotismo di maggioranze egoiste, avide di godimento, che minaccia le libertà moderne. Non è sulla base di aerei ideali che si può costituire un vero partito politico; non vi si cammina su, lo so bene. Ma un ideale ci vuole, esso è la forza di coloro che avversano le nostre istituzioni; e noi, quali ideali abbiamo da opporre loro? Oggi la riforma elettorale e l’abolizione del corso forzoso, domani la perequazione fondiaria e la rendita a 100.
«E non basta?» disse una voce.
«No» rispose Cortis «non basta a tenere uniti i cuori e le intelligenze, molto più con un corpo elettorale ampliato in cui il sentimento e la fantasia avranno tanto maggior potenza. E quando mi si parla di un partito nuovo il cui ideale sarebbe puramente la conservazione degli ordini sociali e politici come ora esistono, io dico ancora che ciò non basta, che questo ideale è senza grandezza e senza vita. La patria, signori, non si conserva come un vecchio monumento immobile cingendolo di puntelli e di spranghe; la patria è un essere vivente, un organismo che continuamente si sviluppa, che si conserva con il movimento ragionevole, con il giusto esercizio di tutte le sue naturali facoltà.
A queste parole pronunciate con voce veemente, vivi applausi scoppiarono nella sala.
«Io desidero» ripigliò Cortis tranquillamente «la costituzione di un partito che abbia nel pensiero il luminoso ideale di cui vi ho parlato e che espressamente consenta, in ordine a quello, sulle necessità presenti. Io sono convinto che se si vuol preparare l’avvenimento di una democrazia sinceramente liberale, senza predominio di alcuna classe, ci vuol un potere politico abbastanza fermo per condurre un paese, giusta un concetto prestabilito, sopra e, se mai fosse necessario, anche contro i flutti delle maggioranze parlamentari: ci vogliono dei ministri convinti che la monarchia non è una irresponsabilità nelle nuvole, non è uno stemma coronato sul coperchio del meccanismo costituzionale, ma è una ruota maestra, se così posso dire, di questo meccanismo, una ruota responsabile davanti a Dio e alla storia e che si guasta ben presto, per una legge comune, se resta inoperosa. Allora questo potere così forte, sicuro di una larga adesione nel paese, può e deve essere molto ardito, e, lasciando libero sfogo a tutte le opinioni, prendere in mano le questioni sociali, condurre ogni riforma possibile con ogni cautela, misura e fermezza.
«Vi sono degli scrittori di gran talento...
Qualche bisbiglio si levò qua e là. Parve che la parola «scrittori» avesse gittato nella sala un’inquietudine, un buffo di tedio.
«Io non so» disse Cortis interrompendosi «se non pongo a troppo dura prova la vostra pazienza.
Parecchi no, più cortesi che cordiali, gli risposero.
«Io ricordo» riprese riafferrando subito il pubblico «che un uomo di grande ingegno e di grandi studi politici, mi diceva: il popolo è un fanciullo, lasciate che giuochi col fuoco, lasciate che si scotti, imparerà. Questa è la legge naturale, e a volerla contrariare si fa peggio. Ebbene, signori, io non sono persuaso di tale dottrina; io dico che per la legge naturale coloro che hanno senso, volontà e forza si uniscono a impedire che altri bruci la casa comune.
«Giusta, giusta» dissero alcune voci.
«Ma non basta ancora, per il futuro partito, di consentire in un simile indirizzo di governo; bisogna consentire nella questione ecclesiastica e religiosa.
«Ecco» esclamò dal suo angolo l’amico incognito.
Tutti zittirono e Cortis riprese la parola in mezzo a un silenzio pieno d’elettrico.
«Io vi dico, signori, che nessun principato, nessuna repubblica scioglierà mai i problemi sociali dell’avvenire, senza la cooperazione del sentimento religioso; il quale non potrà esser dato in Italia che dalla Chiesa cattolica.
Un flutto agitò gli uditori, levò in tutta la sala sussurri, fremiti, voci che cozzavano insieme.
Cortis, puntati i pugni al banco, protese la persona in avanti come ad affrontare un urto nemico, lasciò cader quel flutto e proseguì con voce ferma e sonora:
«Pur troppo, signori, la curia di Roma e gran parte del clero cattolico hanno mostrato una così cieca avversione al nostro movimento nazionale, un tale funesto apprezzamento dei beni terreni che quando si parla in Italia di favorire il cattolicismo è facile di sentirsi rispondere come fu risposto in Africa a quel missionario che parlava di Dio onnipotente: e se ci mangia? Io ho domandato più volte a me stesso se l’attuale reazione violenta contro la Chiesa e i suoi istituti, riconducendo, col suo procedere, il clero alla povertà e all’umiltà evangelica, costringendolo allo studio e all’illibatezza, non riuscirà salutare al vero sentimento cattolico. Ma un prudente uomo di Stato deve considerare in tale eccessiva reazione il pericolo di quelle credenze che insegnano il rispetto della legge, la fraternità umana e una specie di subordinazione morale delle classi più agiate alle più sofferenti, in cui è l’aiuto maggiormente gagliardo che possa desiderarsi per riparare le ingiustizie e le miserie sociali.
«Il futuro partito dovrà dunque da un lato consentire nella rigida applicazione del diritto comune alla Chiesa.
«Io non vi dirò sin dove andrei per questa via: son già troppo caro al vostro venerabile clero cui non intendo offrire, in espiazione de’ miei peccati politici, nè medaglie benedette, nè vite di santi, nè supplementi di congrue.
Un riso ironico gli lampeggiava negli occhi pronunciando quest’allusione a certi procedimenti del suo emulo. La sala risuonò di risa e d’applausi.
«Ma d’altro lato» proseguì Cortis alzando la fronte e aggrottando le sopracciglia «bisogna consentire in questo principio affermato dal conte di Cavour in un memorabile discorso sull’abolizione del foro ecclesiastico, che al progresso della società moderna si richiede il concorso della religione e della libertà. Bisogna esigere l’istruzione religiosa data dal clero dove vuole e come vuole; non bisogna stupidamente figurarsi di offendere la libertà perchè non si tollerano professori di ateismo agli stipendi dello Stato; bisogna riconoscere le associazioni religiose che non hanno uno scopo contrario alle leggi, guarentire in massima a tutti i cittadini il pacifico esercizio del proprio culto in privato e in pubblico, astenersi da qualunque immistione legale o violenta negli affari interni della Chiesa, salvo il diritto di tutela sulle sue proprietà; bisogna che il governo mostri sempre col suo contegno di attribuire un altissimo valore allo spirito religioso.
Solo le frasi relative all’istruzione e alle associazioni religiose turbarono l’uditorio che lasciò passare in silenzio il resto di questo periodo scabroso.
«Voi mormorate, signori» esclamò Cortis, «ma io mi figuro quali meno benevoli accoglienze otterrei se avessi mai l’onore, come non me ne mancherebbe l’audacia, di dire a un’adunanza di sacerdoti quale dovrebb’essere, a mio avviso, la condotta del clero per il maggior bene della religione cattolica. I vostri radi sussurri mi hanno risvegliato in mente un ricordo di scuola. Io ricordo aver inteso descrivere a scuola certi grandi banchi di conchiglie viventi che, giacendo sul lido del mare, si aprono al sole, fanno udire, chiudendosi, un largo mormorio ogni volta che qualche nube lo oscura. Lasciatemi credere che avete trovato nelle mie idee molto più sole che ombra.
«Debbo poi dichiararvi che io stimo ancora alquanto immatura la formazione di questo futuro partito, e che perciò non vi era ieri, non vi è oggi alcuna opportunità di segnarne le basi in un programma elettorale, anche perchè una complicazione estera, collegata con la nostra politica ecclesiastica, potrebbe costringere temporaneamente lo Stato ed essere meno liberale nei suoi rapporti giuridici con la Chiesa. Non avrei dunque parlato se non ci fossi stato spinto dall’avvenuta pubblicazione, se il vostro desiderio non me n’avesse fatto una legge.
«Sollecito di obbedirvi, non ho considerato, ho sdegnato considerare il pericolo che troppo aperte e ardite dichiarazioni mi togliessero l’onore di entrare col vostro suffragio in Parlamento. Io ho fatto in quella mia lettera una citazione di mal augurio: la frase sullo sviluppo della civiltà cristiana fu scritta dal conte di Cavour in un programma agli elettori di Vercelli, che lo lasciarono sul lastrico. È probabile, se mi si concede un così grande esempio, che mi tocchi la stessa sorte; grato a quelli di voi che mi avranno mantenuta la loro fede, non serberò risentimento alcuno contro chi me l’avrà tolta.
«Si parlò di alte influenze a mio favore; non ne ho mai mendicate, nè ora ne mendicherò. Se vi hanno in questo collegio dei numi che tutto muovono col ciglio, non voglio si dica di me come di quell’imperatore romano prossimo a perdere il potere e la vita: alieni jam imperii fatigabat deos. Uscendo da questa lotta vinto ma non abbassato, io mi ricorderò, signori, che in ogni paese libero vi sono dei rappresentanti senza mandato, dei legislatori fuori del Parlamento; che vi è modo per ogni cittadino di propugnare davanti alla nazione qualunque concetto politico, e che una muta pallina bianca o nera non è il solo mezzo nè il più potente di farlo prevalere.»
Le prime file, di fronte all’oratore, applaudirono: dalle altre si levò un lungo mormorio di commenti diversi. I membri del comitato rimasero immobili. Solo il presidente strinse la mano a Cortis e gli disse a mezza voce, un po’ con l’aria del professore contento:
«Bravo, bravo, molto franco, molto schietto. Belle, idee nobili.
Cortis, pallido e grave, gli rispose solo: «adesso a lor signori», e uscì dalla sala, seguito da B. e da parecchi altri amici.
«Servitor suo, servitor suo» ripeteva l’amico incognito, facendosi strada fra la gente; e venne a stringergli la mano sulla porta.
«Mi congratulo» diss’egli, un bel faccione vivace con due gran baffi bianchi. «Ella è un grand’uomo; ella non è clericale un corno, capisce; ella è religioso e religioso sono anch’io, per...! Dottor Franceschi, ai suoi comandi. E non abbia paura, che a quel b... f... di nume del collegio gliela faremo tenere!
I vicini risero. Cortis salutò e passò oltre con gli amici.
«Dunque?» diss’egli appena fuori della sala. «Io non sono niente contento. Cosa v’è parso?
«Cane» disse B. abbracciandolo, «bisogna che ti dia un bacio.
Uno alla volta l’abbracciarono tutti soffocandolo di aggettivi iperbolici.
«A me mi è piaciuto quella delle conchiglie» disse uno. «Magnifica!
«Eh, ma quella della patria» saltò su un altro, «quella della patria ch’è un monumento che si sviluppa? Cosa andate a cercare, che la è un’idea così bella, così giusta, così nuova!
«Eh, ma quella delle conchiglie, che è stato come un dire: Se brontolate, siete tante ostriche!
«E le medaglie?» esclamò un terzo. «Dove lasciate le medaglie e le vite dei santi?
«Sì, sì» disse B. «Belle le ostriche, belle le medaglie, ma il grande di questo discorso è nelle idee. Idee nuove, idee ardite, alla Bismarche! Forza e progresso! Trono, altare, forca e avanti!
«No, no, no, no!» gridò Cortis. «Cosa diavolo?
«E, non signore» osservò quello delle ostriche mentre B. ripeteva: siamo intesi, siamo intesi! «Qua il signor Cortis vuole anzi abbassarlo, il trono, tirarlo giù dal cielo; lo ha detto chiaro, mi pare; tirarlo giù dalle nuvole, ha detto, che il re sia responsabile anche lui come i ministri; cosa giusta!
«Santo Dio!» disse Cortis. «Ho parlato così male?
Tutti gli altri furono addosso a quel disgraziato commentatore. Lo volevano mangiare.
«Oh bene, signori» osservò finalmente B. «Noi bisogna che torniamo dentro. Non sentite?
In sala facevano un gran baccano, malgrado la vocina collerica del campanello presidenziale. B. promise a Cortis che gli avrebbe mandato a Villascura, la sera stessa, le notizie della deliberazione che l’assemblea prenderebbe.
«Cosa credete che faranno?» disse Cortis. «Io sentivo un freddo da togliere il respiro.
«Sì» rispose B., «freddi, freddi; ma meno peggio di quel che temevo. Molti, poi, bisogna dirlo, erano intontiti, non si raccapezzavano. Sei stato alto; piuttosto alto. Sai di cosa ho paura? Ho paura per quella chiusa del legislatore fuori del Parlamento. Qualcuno potrà dire che hai gli elettori... non so se mi spiego.
«Alto, no» disse un altro, «neanche per idea, alto. Mi spiego; alto, sì, ma abbiamo capito benone. Piuttosto, forse... ci sarebbe voluta una parola sulla politica estera... sull’esercito... sulla marina...
«Ma se non c’entrava, benedetto!» disse B. alzando gli occhi al cielo. «Andiamo, andiamo dentro. Presto!
Cortis discese solo le scale. Giunto al fondo fu raggiunto dal signor Checco Zirisèla, che gli disse: «Servitor suo. Mi rincresce di non poter fermarmi; del resto, re assoluto se la comanda, ma coi preti giuocar a tresette e poi basta. Dico io, sa; per conto mio. Coi preti all’osteria, ma in chiesa niente. Servitor suo.
«Cortis!» gridò B. dall’alto della scala. «Quando ci vediamo?
«Non lo so, non so cosa voglia mia zia.
«Eh, mandala a farsi benedire! Ci vuol altro, adesso, che zie!
Il vetturale, che aspettava nell’atrio, andò incontro a Cortis col cappello in mano.
«Attacca» gli disse questi. «Dove hai i cavalli?
«Allo Scudo d’oro.
«Vengo subito.
Cortis andò al caffè. I canti delle strade, deserte a quell’ora bruciata, erano tappezzati di affissi elettorali. I suoi eran pochi e in gran parte lacerati o coperti da quelli immani dell’avversario, che cominciavano quasi tutti: «Non eleggete nemici della patria». Presso alla porta del caffè di Roma era scritto sul muro: «Abbasso i friulani.»
Cortis entrò, nervoso. C’era un crocchio di giovani che discorrevano della riunione elettorale. Uno propose di andar ad aspettare quel «paolotto» di Cortis alla porta del casino per fischiarlo. I compagni accettarono. Cortis, intanto, sorseggiava il suo caffè in silenzio.
«Anche B. fischieremo» disse uno della comitiva.
Cortis si alzò pallido.
«Quello no» diss’egli.
L’altro lo guardò stupefatto e rispose con voce malferma:
«Come, no? Chi è lei per dire no?
«Io sono uno» tuonò Cortis «che quando dice no a lei e a cento come lei, non c’è più da dire sì a meno di sentirsi sul viso...
Non finì la frase, rovesciò d’un colpo, per farsi largo, sedie, tavolino, vassoio e tutto che c’era su, si piantò a fronte di colui con le braccia incrociate sul petto. La padrona strillò, i garzoni corsero; quegli altri, sbalorditi, sgomentati, non sapevano più in che mondo si fossero. Cortis, visto che colui nè parlava, nè si moveva, gittò la sua carta di visita ai garzoni che raccoglievano i cocci.
«Pagherò tutto» diss’egli; «anche un bicchierino di rhum che porterete a questo signore.
E uscì dal caffè.
Un quarto d’ora dopo correva nel calesse del vetturale Schiro sulla via di Villascura, pensando ad Elena. Si sentiva male: sentiva una tormentosa inquietudine, un fastidio mortale di sè, della politica, dei nemici abbietti, degli amici stupidi, della collera mostrata a quelli, della tolleranza usata con questi. Sì, l’Italia! Ma già se non riusciva oggi, sarebbe riuscito domani. Era il suo destino e anche il suo proposito; ma pure, un giorno d’amore! Dimenticar tutto tutto per un giorno solo, disprezzare il mondo ed unirsi, lei, la più bella, egli, il più forte! Fantasmi di felicità intensa gli attraversavano la mente. Dalla strada che, correndo diritta fra i platani sull’orlo di un immenso piano, cavalca di tratto in tratto le limpide acque dell’alpe imminente, gli occhi di Cortis risalivano avidi le correnti, cercavan le macchie adombrate dagli scuri nuvoloni assisi sulla fronte della montagna. Si vedeva là con Elena in una casa perduta fra i silenzi deserti. Elena non aveva quel suo solito sguardo pieno di tristezza occulta: era tanto felice di amarlo! Ora se la sentiva fra le braccia ridente e tremante come quelle acque pure, ora la cercava nel bosco, ed ella gli saltava incontro, gli posava il capo sul petto, gli diceva sottovoce: Sei felice? Io tanto.
Cortis si buttò nell’altro angolo del calesse, a guardar l’orizzonte lontano dov’ella era scomparsa.