Dalle Satire (Alfieri, 1912)/Satira Ottava. I Pedanti

Satira Ottava. I Pedanti

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Satira Ottava. I Pedanti
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Satira Ottava.1

I Pedanti.

Pistoclerus.
Jam excessit mihi aetas ex magisterio tuo.

Pædagogus.
Magistron’ quemquam discipulum minitarie?
Plautus, Bacchides, Act. I, Sc. 2ª, v. 40-44.

Pistoclero.
Fuor di Maestro, parmi, esser dovrei
All’età mia.

Pedagogo.
                       Ragazzo, or tu minacci
Il Precettore tuo?

Ed io gliel dico, che il Verbo Vagire
Non è di Crusca: usò il Salvin Vagito:
3 Ma, a ogni modo, Vagir non si può dire.2
Grazie a lei, Don Buratto: ebbi il prurito3
D’usar questo verbuccio in un Sonetto,
6 Per me’4 schernire un vecchio rimbambito. —
Me’ per lei, ch’anco in tempo a me l’ha detto!
Se no, l’opra ed il tempo ella perdea;
9 Che con sí fatta macchia, addio Sonetto.
Vuolsi ir ben cauti, allor che si ha un’idea;
Sempre vestirla d’abiti già usati:
12 Crusca esser vuole, e non farina rea.

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Ben so ch’ella Pedanti ha noi chiamati:5
Poi c’è venuto il Signorino al jube,6
15 Dopo i primi suoi versi canzonati. —
Don Buratto, pietà: sgombri ogni nube
D’ira grammatical dalla dott’alma,
18 «E armonizziamo in concordanti tube».7
Tardi, è ver, mi addossai la dura salma
Grammatical: ma non ch’io mai spregiassi
21 Del purgato sermon l’augusta palma:8
Bensí volgendo mal esperto i passi
Vèr la nuov’arte del dir molto in poco,9
24 Era mestier ch’io nuovamente errassi.
Quindi a molti il mio carme suonò roco,
Perch’ei piú aguzzo assai venía che tondo,
27 Sí che niegava ad ogni trillo il loco.10
Aspretto sí, ma non del tutto immondo
Era il mio stil; che in sottointender troppo
30 Fe’ sí che poco lo intendeva il mondo. —
Alto là: ch’al suo dir qui pongo intoppo;
Che biasmandosi parmi, ella s’incensi,
33 Scambiando il corto stil col parlar zoppo.11
Ai tanti uccisi Articoli ella pensi,12

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E a’ suoi Pronomi triplicati a vuoto,13
36 E al tener sempre i suoi Lettori intensi...14
E all’ostinato mio superbo voto
Di non chieder consiglio né accettarlo,
39 Se non se da Scrittor per fama noto:15
Dico ben, Don Buratto? E questo è il tarlo
Che inimicommi la insegnante schiera,16
42 Al cui solenne Imperatore or parlo.
Ma via, si ammansi: io non son piú quel ch’era:
Molle son fatto, ed umile, e manoso;17
45 La mi cavalchi da mattina a sera.
Io sto ad udirla, d’imparar bramoso:
La non mi celi alcun dei begli arcani,
48 Ond’esce il grave scrivere ubertoso.18
Sappia da prima, che agl’ingegni sani,
Signor Tragico mio, non piace il forte,
51 «Nè il velame aspro de’ suoi versi strani».19
Piacer senza fatica il carme apporte,20
E armonia copïosa lenitiva21
54 Che orecchi e cuore e spiriti conforte.

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Che brevità quest’è, che l’alma priva
Di quella inenarrabil placidezza,
57 Con cui molce chi avvien che steso scriva?22
Cos’è quest’artefatta stitichezza23
Di dir piú in tre parole ch’altri in venti?
60 Non lo scarno, il polposo fa bellezza.
Che son elle codeste impertinenti
Tragedie in cinque o in quattro personaggi,
63 Insultatrici delle antecedenti?24
Non ci avean date già Scrittori maggi25
Rosmunde e Sofonisbe e Oresti e Bruti,26
66 Da spaventar dappoi gli audaci e i saggi?
Che moderni! che razza di saputi!
Voler tutto rifare, andando al breve,
69 Spogliato di quei fregj a noi piaciuti!27
Certo, i lirici Cori onde riceve
L’udito e il cuore dilettanza tanta,
72 L’immaginarli e il verseggiarli è greve:28
Piú facil quindi e spiccio è il dir: «Non canta
La Tragedia fra noi: chi ariette scrive,
75 Dai suoi Catoni i Catoncini ei schianta».29
Suore forse non son le Nove Dive?30
Fia che a sdegno Melpòmene mai prenda
78 Voci aver da Tersícore31 piú vive?
La Tragedia, gnor sí, canta;32 e l’intenda
Com’ella il vuole: il Metastasio è norma,
81 Che i Greci imita, e i Greci a un tempo ammenda.33

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Tutta sua la Tragedia, in blanda forma
Gli alti sensi feroci appiana e spiega,
84 Sí che l’alma li beve e par che dorma.34
Ignoranza ed Orgoglio, usata lega,
Fan che una nuova Merope ci nasce
87 Di padre che non scerne Alfa da Oméga.35
Ma che parl’io di Greco a quei che in fasce
Stan del Latino ancor nel lustro nono,36
90 Sí che spesso han dall’umil Fedro ambasce?37
Ora, a bomba tornando; i’ gliene dono
A chi l’ha fatta; questa Meropuccia
93 Che usurpar vuolsi terzo-nata38 il trono.
Semplice no, ma gretta, in su la gruccia,
Ch’ella noma Coturno, si trascina,
96 Senza aver pure in capo una fettuccia:39
E la si spaccia poi Madre-Regina
Col monopolio dell’esclusïone,
99 Come s’altri fatt’abbiala pedina.40
Quel mio buon venerabile barbone,41
Ch’era il Nestor di Omèro mero mero,42
102 Cangiato io ’l veggo in vecchio non ciarlone:

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E quel naturalissimo sincero
Crudelotto43 Tiranno Polifonte
105 Mi si è scambiato in Re Machiavelliero.44
E il mi’ Adrasto, e il su’ anello,45 e le sí pronte
Fide risposte dell’astuta Ismene;
108 E l’arte in somma qual c’insegna il fonte;46
(Dico, la dotta Tragizzante Atene)
Dove son elle in questo nuovo impasto?
111 Sognando il meglio, e’ si sfigura il bene.
Ombra vuolsi, ombra molta: indi è il contrasto.
Personaggio che basso e inutil pare,
114 Agli altri accresce, e senza stento, il fasto.47
Ombra sia, Don Buratto; ombra Lunare,
S’anco a lei piace: ecco, abrenunzio48 seco
117 Ogni luce che sia troppo Solare.
Vo’ rifar mie tragedie in manto Greco;
Strofe, Antistrofe, ed Epodo, e Anapesti,
120 Tutto accattando dall’Ellénio speco.49
Trissineggianti50 poi versi modesti,
E moltissimi, molto appianeranno
123 Lo stil, sí che il lettor non ci si arresti.51
I Personaggi si triplicheranno:
Né parran miei; sí ben Merope Prima52
126 Semplicetti e chiaretti imiteranno.
E alle corte; a mostrarle in quanta stima

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Io ’l tenga, innanzi che il mio dir finisca,
129 Do ’l mio Sonetto all’acuta sua lima,
Che inibisce sí ben che l’uom vagisca.53


Note

  1. Le critiche mosse alla edizione senese delle tragedie alfieriane avevano senza dubbio ferito profondamente il nostro Poeta (vegg. le annotazioni ai son. Due Gori, un Bianchi e mezzo un arciprete, e Non piú scomposta il crine, il guardo orrendo), ma non è supponibile che egli attendesse a rispondere ai detrattori dell’opera sua fino al 1796, nel gennaio del quale anno fu incominciata la surriferita satira; occasione e spinta alla composizione di essa può darsi che fosse invece la parodia tragica intitolata Socrate, nella quale compendiavansi, con sufficiente arguzia, i difetti delle tragedie del nostro Poeta e che apparve la prima volta nel 1788. Di questa tragedia per ridere che l’A. giudicava, senz’altro, una sciocchezza, (vegg. lett. del 7 ott. 1788 a Mario Bianchi e a Teresa Mocenni) proprio nel ’96 facevasi la seconda edizione, segno evidente che aveva trovato buon numero di lettori, e ciò poté dare ai nervi all’A. e indurlo a rispondere agli anonimi critici (gli autori del Socrate furono quattro, il Mollo, il Sanseverino, il Sauli e il Viani), impersonandoli in Don Buratto, arciconsolo della Crusca.
  2. 1-3. Il discorso contenuto in questi versi s’intende che sia di Don Buratto; il buratto, come è noto, è il vaglio, il crivello, che è anche l’insegna dell’Accademia della Crusca, con quel motto che fu riferito altrove: Il piú bel fior ne coglie. — Veramente il Dizionario della Crusca non cita né vagirevagito, del che la rimproverò Vincenzo Monti, nelle Proposte di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (Milano, Regia stamperia, 1824, III, 404), allegando di quelle voci esempi del Chiabrera, del Marchetti e di altri. — Anton Maria Salvini (1653-1729), solenne erudito e uno dei compilatori del Vocabolario; l’A. lesse, dal 1800 al 1802 l’Iliade, l’Odissea, e gli Inni Omerici, sopra una traduzione del Salvini e ne tempestò i margini di note furiose: ‘Bifolco!, ‘Buffone!, et similia.
  3. 4. Il prurito, la velleità, il desiderio.
  4. 6. Me’, meglio.
  5. 13. Nel seg. epigramma, senza data, ma del 1783 (vegg. Renier, op. cit., LXXV e 280):
    Pedanti, pedanti
    Che fate voi?
    Ansanti, sudanti
    Stiam dietro a voi.
  6. 14. Al jube, al rendimento dei conti, a farsi giudicare da noi.
  7. 18. Verso, io credo, rifatto ad orecchio, ad imitazione di Dante.
  8. 19-21. . . . la dura salma Grammatical; nell’Autobiografia (IV, 1°): «Fatto il giuramento, m’inabissai nel vortice grammatichevole, come già Curzio nella voragine, tutto armato, e guardandola». Palma, nel senso di vittoria; merito.
  9. 23. A questo mirò sempre in specialissimo modo l’A. e mai non si stancò di condensare, di abbreviare, di sfrondare, sí da cadere parecchie volte nell’arido e nell’oscuro. Dice egli stesso a proposito del Filippo (Aut., IV, 2°): «Quel mio primo Filippo, che poi alla stampa si accontentò di annoiare il pubblico con soli 1400 e qualche versi, nei due primi tentativi pertinacemente volle annoiare e disperare il suo autore con piú di due mila versi, in cui egli diceva allora assai meno cose, che nei 1400 dappoi.»
  10. 22-27. Roco, aspro. — Perch’ei piú aguzzo etc., perchè feriva, molto piú che non lo accarezzasse, l’orecchio degli ascoltatori, dei lettori. Nella cit. lett. a Ranieri de’ Calzabigi: «A dire il vero, mi parve tale l’indole della lingua nostra, da non mai temere in lei la durezza, bensí molto la fluidità troppa, per cui le parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi recita, e colla stessa facilità, da gli orecchi di chi ascolta».
  11. 33. Zoppo, difettoso, oscuro.
  12. 34. Già ne’ primi versi del Socrate era satireggiata questa abitudine alfieriana di sopprimer l’articolo: Platone dice:
    Patria! non patria tu; tal nome in vano
    Pretendi tu; di Socrate tu madre
    Indegna; a cittadin, che di te padre
    Nomar si debbe, e ben membrar lo dei
    Recar onta non temi! e ben piú grave
    Di morte è onta a Sofo.
  13. 35. «Gliela do vinta quanto ai pronomi, e già son tolti dai due primi atti del Filippo i due t’hai tu, che son stati il Sibolet degli Effraimiti, che facea gridar contro loro: muoja». Però, in un epigramma del 27 sett. 1763:
    Tolti di mie tragedie i due t’hai tu,
    Le intendi piú?
    Dunque in esse null’altro era di piú,
    Lettor, che tu.
  14. 36. Intensi, nel significato di intenti, con l’animo sospeso, ansiosi di conoscer la catastrofe.
  15. 37-39. . . . . «subito mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell’Università [di Pisa], i quali mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne censurarono qua e là l’espressioni, ma neppure con quella severità che avrebbe meritata. In quei versi, a luoghi si trovavan cose dette felicemente; ma il totale della pasta ne riusciva ancora languida, lunga e triviale a giudizio mio: a giudizio dei Barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida diceano e sonante. Non c’intendevamo. Io chiamava languido e triviale ciò ch’essi diceano fluido e sonante; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto, non ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto cadeva contrasto fra noi, perché io a meraviglia tenea la mia parte di discente, come essi la loro di docenti: era però ben fermo di volere prima d’ogni cosa piacere a me stesso. Da quei signori dunque io mi contentava d’imparare negativamente, ciò che non va fatto: dal tempo, dall’esercizio, dall’ostinazione e da me, io mi lusingava poi d’imparare quel che va fatto». (Aut., IV, 2°).
  16. 41. La insegnante schiera, la schiera di coloro che pretendono dettar legge in fatto di lingua e di buon gusto.
  17. 44. Manoso, cedevole, arrendevole, e si dice particolarmente dei panni.
  18. 48. Grave, pesante, cattedratico; ubertoso, fiorito, pieno di quegli artifici retorici, tanto in odio all’A.
  19. 49-51. Dante (Inf., IX, 61 seg.):
    O voi che avete gl’intelletti sani,
    Mirate la dottrina che s’asconde
    Sotto il velame degli versi strani!
  20. 52. Al contrario, l’A. si vantava, con giusto orgoglio, che la sua tragedia obbligasse a pensare:
    Mi trovan duro:
    Anch’io lo so:
    Pensar li fo.
  21. 53. Copiosa, abbondante; lenitiva, che accarezza e quasi addormenta.
  22. 55-57. «La tragedia», scriveva l’A. nella cit. lett. al Calzabigi, «[deve essere] rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte piú o meno voglion pur dilungarsi...» — Con cui molce etc. con cui appaga l’animo chi è capace di scrivere abbondantemente (steso).
  23. 58. Stitichezza, nel senso di brevità, difficoltà di esprimersi con gran numero di parole.
  24. 61-63. Nella tragedia l’A. voleva «i soli personaggi attori e non consultori o spettatori», e sono generalmente quattro o cinque, con una o due donne.
  25. 64. Maggi, maggiori; cosí in Dante (Inf., VI, 48; Par., VI, 120; XIV, 97).
  26. 65. La Rosmunda e l’Oreste sono due tragedie di Giov. Rucellai (1475-1525), la Sofonisba è di G. G. Trissino, e fu rappresentata la prima volta nel 1515. De’ Bruti ne furon scritti parecchi prima di quelli dell’A.: fra gli altri, uno ne scrisse Saverio Pansutti (Napoli, Parrini, 1723), un altro Giuseppe Gorini-Corio, (Milano, Mantano, 1724). Ma non possiamo dire a quale si riferisca Don Buratto.
  27. 69. A noi piaciuti, che piacquero a noi.
  28. 70-72. Tanto le due tragedie del Rucellai quanto quella del Trissino hanno de’ cori, che non prendono parte viva all’azione delle tragedie stesse, ma commentano via via quello che gli attori dicono e quel poco che fanno.
  29. 75. Cioè, separa ciò che è inseparabile, ed unisce cose che non possono stare insieme.
  30. 76. Le Nove Dive, le Muse.
  31. 78. Tersícore è delle Muse quella che presiede alla danza; ma qui è, invece, da considerarsi come la dea del canto.
  32. 79. Canta, cioè, deve cantare.
  33. 81. Ammenda, corregge. All’A. pareva che i melodrammi del Metastasio fossero proprio la negazione dello stile tragico e rideva di coloro che a Pisa glieli additavano come perfetti modelli (Aut., IV, 2°).
  34. 84. Echeggiano, o pare a me, in questo verso, le parole del Tasso (Gerus. lib., XII, 69):
    in questa forma
    Passa la bella donna, e par che dorma. —
  35. 85-87. «Verso il febbraio dell’82, tornatami un giorno fra le mani la Merope del Maffei per pur vedere s’io c’imparava qualche cosa quanto allo stile, leggendone qua e là degli squarci, mi sentii destare improvvisamente un certo bollore d’indegnazione e di collera nel vedere la nostra Italia in tanta miseria e cecità teatrale che facessero credere o parere quella come l’ottima e sola delle tragedie, non che delle fatte fino allora (che questo lo assento anch’io), ma di quante se ne potrebber far poi in Italia. E immediatamente mi si mostrò quasi un lampo altra tragedia dello stesso nome e fatto, assai piú semplice e calda e incalzante di quella» (Aut., IV, 9°). Oltre la Merope del Maffei, rappresentata con indescrivibile successo a Modena il 12 giugno 1713, protagonista Elena Balletti, soprannominata Flaminia, l’Italia possedeva su tale soggetto il Telefonte del Cavallerino (rapp. nel 1512), il Cresfonte di G. B. Livera, (stamp. a Padova nel 1588) e la Merope di Pomponio Torelli (pubbl. a Parma nel 1589). In Francia il Voltaire trattò nel 1743 lo stesso soggetto.
  36. 89. Nel lustro nono, nel 1796 l’A. aveva per l’appunto 45 anni.
  37. 90. Sí che provano difficoltà a capire anche il semplice, piano Fedro.
  38. 93. Terzo nata: a quale delle Meropi prealfieriane intende riferirsi Don Buratto? A quella del Torelli e del Maffei, o a quella del Maffei e del Voltaire? Probabilmente a quelle italiane, ma non è certo.
  39. 96. Una fettuccia, un ornamento.
  40. 97-99. Superiore infatti a tutte le Meropi antecedenti fu giudicata dai molti che ne istituirono il paragone quella dell’A., e la peggiore quella del Voltaire. — Monopolio, privilegio. — Pedina, donna di poco conto.
  41. 100. Questo vecchio è Polidoro, il fedele servo a cui Merope aveva confidato il proprio figliuolo; il Maffei era persuaso di aver creato con questo vecchio, che ha grande parte ne’ due ultimi atti, un tipo immortale, avendolo foggiato, com’egli stesso asseriva, sul Nestore omerico; ma i critici lo giudicarono, in generale, personaggio di maniera e sbagliato.
  42. 101. Mero-mero, tal quale.
  43. 104. Crudelotto, volgarmente crudele e spesso senza che della sua crudeltà si vegga la ragione.
  44. 105. Machiavelliero, scaltro e terribilmente logico come Niccolò Machiavelli.
  45. 106. Adrasto è, nella tragedia del Maffei, il perfido consigliere di Cresfonte, e a lui Egisto, figlio di Merope, consegna un anello, su cui è incisa una volpe, per ragion del quale Merope, dapprima, suppone che l’uomo ucciso sul ponte sia il figlio suo, poi che, all’opposto, il figlio suo sia l’uccisore. Da siffatti metodi di agnizione, di cui gli scrittori di commedie e di tragedie del ’500 e del ’600 fecero uso ed abuso, rifuggí sempre l’A., come indegni della nobiltà dell’arte che professava.
  46. 108. Il fonte, la sorgente di ogni bellezza e di ogni verità.
  47. 113-14. Circa il numero dei personaggi da introdursi nella tragedia, la pensava differentemente l’A., come abbiamo veduto, e anche di questo lo satireggiarono gli autori del Socrate, introducendovi solo tre interlocutori, Socrate, Xantippe e Platone.
  48. 116. Abrenunzio, voce latina del linguaggio ecclesiastico che significa abiuro.
  49. 120. Accattando, mendicando. — Speco, spelonca, antro.
  50. 121. Trissineggianti, molli, umili, acquosi come quelli di G. G. Trissino; valga un esempio: dice Massinissa a Sofonisba:
    Regina, io non vo’ dir gli oltraggi e l’onte
    Che Siface mi fe’ molti e molt’anni
    Per non rinnovellar vecchio dolore,
    Né far minore in voi qualche speranza.
    Ma, sien quante si furo, il mio costume
    È di perseguitare i miei nemici
    Fin ch’io gli ho vinti, e poi scordar le offese.
  51. 123. Non ci si arresti, passi oltre, senza che il suo intelletto si senta svegliato né il suo cuore si senta commosso.
  52. 125. Merope prima, quella Merope che voi puristi giudicate la piú bella, cioè la Merope del Maffei.
  53. 130. Inibisce, proibisce. Si noti l’acutezza di questa freccia lanciata per ultimo: i Cruscanti non ammettono fra’ vocaboli italiani vagire e vagito e intanto condannano gli uomini a bamboleggiare eternamente, a correr dietro alle parole, non curandosi di ciò che piú dovrebbe importare, cioè delle idee.