Dal mio verziere/Pleiade nuova
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Pleiade nuova.
I.
Elda Gianelli: «Riflessi»1
L’altra mattina — una mattina caliginosa di questo inverno musone — un fior di biancospino è piovuto nella mia stanza. Veniva di lontano, da un lembo estremo d’Italia sorriso dall’azzurro mare, veniva sull’aria umidiccia a portarmi una carezza di primavera.
Parlo di un volumetto; niveo, leggiadro, su cui riluce un gentil nome femminile non più nuovo, e un titolo (oh i titoli!) per delicatezza e per simbolo affascinante. Lo apersi, lo scorsi, e l’impressione di primavera rimase; il fior di biancospino mi donò tutto l’olezzo schietto della sua corolla silvana di un’amarezza velata di soavità. Così sono i versi di Elda Gianelli, nati dal dolore di un’anima ancor giovine; alimentati da una fresca vena di poesia abbondante qualche volta sino all’insofferenza dei limiti. Spesso la coppa trabocca. La causa è carina, non c’è che dire: è un petalo di rosa: pure, quando manca, i riflessi sono più coloriti e più profondi. Io la vorrei sempre come in «Romanticismo» e in «Pace», due bozzetti in cui la fine sobrietà lascia navigar la mente in un mare di fantasie donandole più godimento di una lunga lirica o di un poema ingegnoso dopo i quali non resta più nulla da indovinare. Udite, signorine:
PACE
Strani su l’acqua cheta |
Il dramma di quelle ombre conscie e mute, che traspare appena dalla breve poesia come il delitto da una poetica leggenda, evocandoci fronde e mormorii intorno a una pallida parvenza, suscitandoci una pietà strana per un ignoto martirio, ci scuote, non è vero? come un’arma corrosa trovata per caso in un’aiuola fiorita. Leggiamo ora questa, che io, non so bene perchè, prediligo:
ROMANTICISMO
Piegò la bella dama |
M’ama! tra sè proferse, |
***
Oh la poetica visione! Vedete voi, seduta nella gran scranna massiccia la fragile dama rigida e pura come una Vergine di Sandro Botticelli? Le mani giunte sono fini e lunghette, china l’altera fronte di castellana, pensoso e vigile l’occhio che sogna l’amore. Intanto dal balcone gotico inghirlandato di gelsomini sale la melodia d’un liuto e d’una voce che plora nel fresco e rustico idioma provenzale....
La dama sogna, l’incognita dama; ma ecco s’agita, s’anima, vive: le mani le cadono prosciolte in grembo, il petto si gonfia di sospiri. Chi sei tu? Forse Maria di Champagne, la patrona dell’amor cortese? o Giovanna di Fiandra, auspice di poemi? o Jolanda, contessa di Saint-Pol, che presiedeva alla prima traduzione della vecchia cronaca di Turpino? o Maria di Francia, la soave cantatrice di «Lai» in cui vibra una tenera passione tutta nuova, l’autrice immaginosa che fantastica di cavalieri amati dalle fate, di regine amoreggianti coi misteriosi cavalieri del lago, di paesi incantati dove trecento anni passano come tre giorni; la creatrice dei leggendari nomi di Bisclavret, d’Eliduc, di Guingamor, di Tiolet, di Grisedelis, cespiti di chi sa che fioritura....
O Dio, ma dove volo con la fantasia? Signorine, non v’arrabbiate.... mi pareva d’esser sola....
Ora, ai piedi dei due componimenti ispiratori, se io non fossi un’orecchiante in materia poetica, vorrei osservare che fra la non scarsa varietà di metro che la Gianelli adopera sapientemente, il settenario è quello che le s’addice di più. Ma non facciamo questioni tecniche. La tecnica è come l’osso: guai se la intacca un ferro inesperto. E in grazia dell’esattezza non arricciate il naso, vi prego, al chirurgico paragone.
Un sonetto che rispecchia una Provenza autentica è quello ispirato a Clemenza Isaura di Tolosa, il quale insieme ai due sul Verno e all’altro intitolato: «Ruina» accentuano tra gli altri una nitidezza disinvolta e una certa profondità d’osservazione e di pensiero che meraviglia e rallegra in una giovane autrice. Leggiamone uno per saggio:
CLEMENZA ISAURA
Dolci, o soave tolosana, i mali |
Che ve ne sembra? Non par di sentire il Marradi con una sottil vena di passione di più?
Volevo voltare in fretta alcune pagine, ma non posso. Questi due sonetti mi attraggono irresistibilmente:
PENSIERO D’INVERNO
I.
Oh, l’inverno del cor! la nebbia greve |
II.
E al capo mio ridea la primavera |
Ed amò il verno, che la pace assente |
***
Ecco l’amara e copiosa fonte dell’ispirazione: il Dolore; ed ecco i versi più spontanei di Elda Gianelli. Qui anche la chiusa è serrata e succosa, mentre, lo dico per incidente, spesso gli ultimi versi delle sue composizioni sono meno felici dei primi. Per esempio questo principio di due fluenti ottave:
Come una vela candida e romita |
promettevano per la fine qualche cosa di più; ed anche l’altro grazioso primo verso:
|
e questi, soavissimi, dopo il titolo di «Riflessi:»
Voi siete i fiori dell’anima mia, |
ci fanno sperare una progressione che non viene e la cui mancanza ci lascia un po’ freddi, stavo per dire tristi, come in musica la risoluzione indefinita d’una armonia.
In compenso però la strofa corre sempre agile e alata, e, come dissi, l’idea palpita sotto il fragile involucro gentile. Le «Ruine» contro cui si frangono i secoli e che una latente forza, minuta, paziente continua, può, in un secondo, avvallare; «Leggendo Byron» ne’ cui canti ella cerca con un desiderio scrutatore e con una fine intuizione tutta femminile la poesia di ciò che tacque e l’oscuro poema d’un cuor di sposa che nessuno penetrò; i «Grotteschi» d’un dipinto, che le danno un ribrezzo e un fascino di mistero Eleusino; il sanguinoso episodio di vendetta ch’ella coglie nell’«Edda» la epopea nordica — lasciandoci l’impressione eroica e pietosa della tronca testa imbrattata di Swankilda dai capelli d’oro; tutto ciò non è sentimentalismo nè larva di poesia. E nel sentimentalismo non ci cade mai; anche se rivolge lo sguardo pensoso e il bel cuor di donna alle miserie che la circondano, e s’intenerisce al sogno del piccolo suonatore girovago o prevede un morticino prossimo nel bianco fanciullo che incontra in chiesa il dì dei morti:
Un gramo fanciullin da gli occhi strani, |
ci dica il segreto di passione d’una giovine morta che par sorridere in pace, o si ricordi d’un vespro mestissimo; sospiri allo sfogliarsi delle rose o aneli di dileguare nell’infinito, Elda Gianelli non è sdolcinata nè manierata, mai. Le sue rime la rivelano una forte e amorosa tempra di donna, un’anima eletta di fanciulla. Deve essere bruna e ardente come la Sulamite; lei stessa confida al fiume che è irrequieta come lui, che come lui corre verso un destino ignoto; coraggiosa, fiera, celando lotte e ferite con la pudicizia del dolore ch’è nelle anime superiori e virili, fermentando qualchevolta in una protesta, in un slancio di libertà ribelle, calda, onesta, schietta, temperata sempre donnescamente.
Poichè la fervida poetessa dal nome alato è sopratutto donna. Essa deve appartenere a quella fortunata categoria di signore a cui gli uomini perdonano volentieri di adoperare la penna perchè sanno maneggiar l’ago con la stessa maestria, la stessa facilità. Quella fanciulla bruna che la Gianelli ci dipinge seduta ad un verone rivestito d’edera, che agucchia con la mano leggiera e il pensiero vagabondo, in faccia al mare, al gran mare, deve esser lei; e se Elda non fosse una cara figliuola non avrebbe sentito così intimamente la poesia umile e vera di quel «picciolo tinello» nelle «dolci sere» di riunione domestica; in cui il suo pensiero ardito e indomabile e i drammi del cuore le paiono una stonatura e una menzogna. Eppure no, è l’augellino avido di azzurro a cui il morbido nido non basta più, e si slancia..... ma l’impressione dolce del muschio fra cui nacque e la fragranza delle erbe che allacciavano la sua cuna gli rimangono e lo seguono nel suo viaggio acreo, per lungo tempo. Così la musa di questa figliuola, di questa signorina, è profumata e vereconda, e non ci sarà bisogno di sottrarre agli sguardi curiosi delle fanciulle i suoi volumetti di versi, come si deve fare qualchevolta per certe liriche sebbene portino nomi di signorine....
Forse il pensier non sente la carezza |
Vorrei che fosser molti i pazzi di così gentile follìa; molte le anime pure ed illuminate del raggio divino rifrangentesi nella sua, almeno tutte voi, signorine. E allora una fresca falange di leggiadre guerriere dalla verga fiorita metterebbe in fuga il tenebroso esercito dei malcontenti, dei pedanti, degli scettici dell’ingegno femminile. E flagellandoli con le verghe odorose, e soverchiandoli con un affollamento di visi giocondi, chiedereste loro con le vostre voci argentine, assordanti, prepotenti, spietate, cosa sarebbe la primavera se nell’aria non fluttuassero farfalle e petali e profumi, e se accanto ai pomposi non sbocciassero i fragili fiori?
II.
(Ettore Sanfelice: Gru migranti).
Ho chiuso un volumetto di versi, non dei soliti. Del resto c’era da prevederlo. Ettore Sanfelice non è un ignoto nell’animosa schiera dei giovani bardi di questo scorcio di secolo. Di lui abbiamo, oltre varii scritti minori, due raccolte di Rime edite dallo Zanichelli, qualche scena lirica di soggetto biblico, e un dramma poetico: «Concordio», nel quale la vigorìa del concetto è rivestita radiosamente di versi sciolti d’una bellezza e d’un’efficacia non comune. Egli ha salpato con la sua navicella carica di tesori ed ora veleggia forte delle sue dovizie alla conquista dei paesi della gloria2
Frattanto lancia un primo stuolo di «Gru migranti», fantasia di titolo così elegante che fa subito bene pronosticare. Poichè s’ha un bel chiamarla raffinatezza morbosa o decadenza bizantina, questa nostra delicatezza tutta moderna d’orecchio e di gusti che spia nella parola il colore e l’armonia, che ne spreme l’intima essenza e ne ricerca il simbolo occulto: sia perfezione o corruzione, se ne disperino pure i grammatici, il gusto c’è, e ci si lima per appagarlo, tanto che resterà come una delle caratteristiche della nostra letteratura contemporanea. Il titolo quindi deve riassumere oggi non solo l’indole ma l’anima del lavoro, e tutto ciò che d’inafferrabile e di vago resta sempre nella mente dell’autore intorno all’opera compiuta — qualchecosa che non era possibile tradurre e che egli vede diffondersi e accerchiare la creazione sua, fatta realtà, come quei vapori luminosi che qualchevolta fanno una sfumatura intorno alla luna. Raramente quando il titolo è di cattivo gusto l’opera è perfetta: in un punto o nell’altro rivelerà la goffaggine del padre che non seppe vegliare al suo battesimo. «Il verso è tutto» proclama il D’Annunzio; — e il titolo non è poco — osservo io. La presunzione, la modestia, la scimunitaggine, la fantasia, l’austerità la raffinatezza raggiano dal frontespizio, sono la firma morale dell’autore. Almeno così mi pare che sia.
Le «Gru Migranti» del Sanfelice si svolgono in lunga teoria, poderose e altere come aquilette regali, su un orizzonte a pause di nembi e di sole, nella solitudine d’una via del cielo troppo eccelsa per essere ingombra. «.... Come i gru van cantando lor lai» egli effonde la piena delle rime in una ricchezza di metro e di concetto che non si riscontrano frequentemente fra i nostri giovani autori. E neppure si trovano molti che conoscano come lui l’arte difficile del condensare — qualità che in prosa può esser solamente simpatica, ma che in poesia io ritengo indispensabile. Peccato che di questa sua forza egli vada tanto altero da abusarne un pochino a scapito qualchevolta della chiarezza e dell’eleganza; — ma in tempi d’anemia come questi si può ben perdonare un’esuberanza di salute, specialmente se il più delle volte c’incontriamo in versi come questi:
Scendono i morti e salgono le spiche, |
Io conosco qualche poema in cui si è tirato in ballo gli elementi e qualche cosa di più, che non riesce a dare il senso arcano e profondo della palingenesi come queste quattro righe nutrite d’una così gentile maestà. Di questi componimentini, coloriti e tenui come fiori, che raccolgono essenza vera di poesia, è costellato il volumetto denso e sottile. Il Sanfelice li chiama semplicemente «Sensi lirici» o «Note liriche» e sono un’innovazione riuscitissima, intorno alla quale amerei indugiare a lungo con una compiacenza tutta femminile come fra ninnoli fragili e costosi. Ma «la via lunga il piede mi sospinge»; poi il giovine autore, tutto volto a più serii ideali, mi richiama con un rammarico che par rimprovero alle creazioni maggiori che nel suo volumetto sono poi le più numerose.
Anche nella compilazione del libro c’è un po’ di affastellamento — bisogna convenirne. I versi originali s’alternano senz’ordine con le traduzioni, e un leggiadrissimo monologo in versi martelliani confuso così nel pelago minaccia di naufragare. Si direbbe che il Sanfelice col suo tesoro di rime d’oro puro, riunite con una noncuranza da gran signore, voglia gettar una sfida alla gran caterva della mediocrità che dilata la moneta spicciola sul candore degli elzeviri. Pure, per una seconda edizione, mi permetterei di consigliarlo a lasciar circolare un po’ più d’aria nel suo volume, anche sacrificando qualche pagina, per esempio quelle dedicate a tutta la Bellezza, trentatrè strofe d’una filosofia che starebbe meglio in prosa. Ma ora intanto esaminiamo il libro com’è.
Il Sanfelice, poichè non è un poeta volgare, s’accosta al sonetto con una specie di reverenza e lo sceglie per gli sfoghi dell’anima e per i soggetti preferiti — proprio come si ricorrerebbe a una persona eletta e antica per confidarle i nostri affanni e i nostri sogni. «Cassiodoro», «Anacreonte», «Saffo», «Arturo e Morgana», «Ginevra», «In Excelsis» sono a parer mio fra i belli i bellissimi. La prima quartina dell’«Ora» è superba:
Ecco l’ora ch’io sento turbinare |
Ma segue una cruda immagine, che sebbene efficace, è di un verismo che offende. E questo si riscontra varie volte nella poesia del Sanfelice. Mentre si cammina nell’azzurro fra le stelle o fra i laberinti odorosi d’un giardino incantato, una parola, una similitudine, un verso, pungono e fanno arrossire. E questo è strano in un poeta che sa raggiungere le alte cime dell’idealità e regnarvi anche a costo di avvolgersi di nubi. Si direbbe che sdegna di reggersi a mezz’aria. Ma poi quell’altezza di quando in quando gli dà le vertigini, l’aria troppo fina s’infiamma e lo arde, allora scende a precipizio e ci sveglia sulla terra rudemente, non senza una punta di monelleria.
Il sonetto «Cassiodoro» è però fra gli altri un quadretto storico d’un’aristocratica e severa classicità:
Nel cortile del chiostro è somma pace; |
Non sono molti i giovani che si trovino nella mente, come il Sanfelice, una solida coltura capace di alimentare sostanziosamente la vena poetica del loro ingegno, di colorirla delle tinte più fosche e più ridenti della storia e della favola, di profumarla di tutta l’intima essenza d’un concetto afferrato con sicurezza sintetica e profonda. La sua tavolozza è lussureggiante di tinte sfumate illimitatamente da una fantasia sbrigliata e gentile. Dei, ninfe, mostri, maghi, fate, castellane, paggi, genii secolari, larve romantiche — visioni di bellezza, d’arte, di paesi ideali — sfilano nella melodia del verso, fra le garze d’oro del simbolo, nella luce velata e dolce delle età passate.
Vorrei poter dare un’idea dei versi sciolti robusti e armoniosi che compongono la «Favola» e «La poesia Georgica» — due frammenti che sembrano di un marmo di Prassitele; dare un’idea della grandiosità sobria ed efficace che informa «Saturno» e «Il fiume selvaggio», della gemmata eleganza d’una «Sestina nuziale», della fantasia che azzurreggia nella «Visione di Franz Liszt» e nella «Nascita del Minotauro», dell’appassionata mestizia d’alcuni sonetti, del lirismo dolce e melanconico delle «Elegie d’ottobre», del ritmo carezzevole del «Valtzer mortale», delle iridescenze che rivestono d’un fulgore di rosa e di viola i tre brevi componimenti: «Sirene» — «Perle» — «Lagrime», e pennelleggiano variamente pensieri, accenti, visioni in pochi versi senza titolo riuniti in gruppi come fiori; ma non mi è possibile perchè dovrei trascrivere mezzo libro. Pure non so rifiutarmi il piacere di ridire ancora qualche verso:
La vecchietta filando, e sorridendo |
m’imaginavo estraneo a questa vita, |
Ecco che qui riluce una qualità simpatica del Sanfelice: quella di sentire sinceramente la poesia delle vecchie cose, persino delle più umili. Così, quantunque adori l’antichità classica con tutto il suo corteggio di miti e di forme, pure si sofferma volentieri dinanzi a qualche episodio romantico o ingenuo purchè abbia l’aroma della vetustà. Certi soggetti in mano sua pigliano l’aspetto di quei gioielli fragili e preziosi di vecchio stile, un po’ barocco anche, che ricordano le nonne semplici e serene agghindate a festa. Nè l’erudizione e la fantasia inaridiscono il sentimento che serpeggia dappertutto in lagrime e sorrisi, e irrompe sovente in qualche canto d’amore indomito e tempestoso che non di rado termina in uno sconfortante abbandono. Le traduzioni dal vecchio inglese, poi, sono pregevolissime; specialmente quella dei difficili sonetti dello Shakespeare fatta con una fedeltà elegante quanto rara. C’è da augurarsi presto quella in prosa delle opere dello Shelley che il Sanfelice ci promette.
Ma sopratutto auguriamoci un secondo stuolo di Gru che, come queste, ci portino nelle loro piume un riflesso della dolce plaga dell’arte e dei sogni.
III.
Cosimo Giorgieri-Contri: Poesie.3
Una prosa, una poesia che colpisce senza la suggestione di un nome che la illumini della luce già conquistata da tutta una produzione felice antecedente, è un gentile trionfo spirituale per l’autore e per il lettore. Il convenzionalismo e l’indifferenza che adunano intorno all’opera artistica una ghiaccia ben più spessa e dolorosa di quella dell’Inferno Dantesco, non possono essere infranti che da un ingegno eccezionalmente saturo di vitalità. Questo specialmente per l’Italia, in cui il nome è tutto; in cui, ahimè, troppe volte la delicatezza svapora fra la maggioranza sgarbata e vistosa. Il Giorgieri-Contri è un giovine, quasi sconosciuto finora, che non ha pubblicato, ch’io mi sappia, nessuna raccolta di versi, che sta ora attendendo al suo primo romanzo; una personalità artistica ancora in bocciuolo; il momento più eloquente o più vago per l’arte, pel fiore. È un raccoglimento soave tra mistico e ardente, un po’ melanconico anche, come tutti gli stadi di bellezza e di fragilità che non possono durare, che sono come le carità benigne del vecchio Destino.
Le poesie del Giorgieri-Contri, migranti come fogliuzze su per i giornali, non possono passare inosservate ai raffinati della vita intellettuale. Una dolcezza tenera, insinuante, semplice, aristocratica, come quella che spira in certi delicati versi di Bourget, di Verlaine, scorrente nella più pura e melodiosa forma italiana: una velatura tranquilla e squisita che sbiadisce, allontana e spiritualizza l’immagine come nel sogno, un’eleganza artistica e rara che non sminuisce mai, però, la freschezza della sensazione, dell’immagine, del sentimento. E da questo felice equilibrio l’effondersi di una suggestione di fantasia e di verità, ma buona, ma refrigerante; come una melodia facile e gentile che pur ci ricordi un’ora lontana e divina e tumultuosa in cui riassumemmo tutta la nostra parte di felicità.
Cosimo Giorgieri-Contri intitola «Autunni Antichi» un breve cielo di rime, e la doppia melanconia dell’autunno e del passato impallidisce dolentemente le visioni leggiadre. Quei suoi due amanti del secolo della cipria e dei madrigali, la bianca favorita, il re, la pensosa signora vestita di viola, si delineano diafani e vissuti come certe evocazioni di Pierre Loti, l’insuperato mietitore d’asfodeli che guarda nell’ideale come in una lente magica che gli ricompone l’inafferrabile, e gli avvicina dalle profonde lontananze secolari, persone, voci, cose nella loro evidenza originaria.
Ricordo il primo sonetto: «Galante Autunno».
Gli amanti sono: un giovine signore |
* * *
Segue «La caccia», nel quale la sfilata dei cavalieri nell’ombra d’autunno e quel rosso orizzonte in cui il re si affisa sognando, mentre il vento gli passa lamentoso alle spalle come un presentimento, danno una visione e un pensiero tenace. Poi il Labirinto, di così fine metafora; — la Favorita che l’autore ci fa rivivere così delicatamente in quel suo solo ricordarne accanto a una vasca il passo leggiero e il «pallore ducale» della mano; — un’idea di amore e di fugacità così sommessamente espressa al mormorio d’un filo d’acqua di Villa Borghese; — indi la Pensosa, la pensosa dama vestita di viola che mi sembra la dama della Sensitiva di Shelley: «che pareva aver pietà dell’erba che i suoi piedi piegavano» e quelle foglie che, tornata al castello, la Pensosa si troverà sullo strascico «omaggio del parco autunnale alle veste viola» dànno al suo poeta un’immagine gentilissima:
e penserà che pure Ella è passata sola |
Chiude il breve ciclo l’epitaffio scritto sulla tomba di un cane, versi coloriti di un lieve humor epigrammatico che rivelano un lato nuovo di questa eletta personalità.
Io m’auguro, e credo che molti, non per le mie parole ma per il ricordo dei versi incantevoli, si augureranno, di trovar presto il nome del giovane poeta in fronte a un nitido volume. Oh copertine levigate, dai raggi d’oro, copertine auree e fiorite, ospitereste finalmente qualchecosa degno di voi!
Note
- ↑ Pubblicato la prima volta nella Cordelia, giornale per le giovinette — anno XI.
- ↑ Questo scritto apparve la prima volta nel «Bios» di Napoli (Ottobre 1891). Il Sanfelice ha pubblicato ancora: Il Guercino — Ercole — discorsi (Bologna, Azzoguidi 1991). — I Cenci, trag. di P. B. Shelley — Traduzione (Verona, 1862). — Prometeo liberato, dramma di P. B. Shelley — Traduzione (L. Roux, Torino-Roma 1894). — Adorazione, Poema, (Parma, Ferrari e Pellegrini 1894). — Dalla Neve alla Rosa (Velletri, Pio Stacca 1895). — Thomas, dramma (Parma, Ferreri e Pellegrini 1895) ed altro ancora. Il Sanfelice, purtroppo, va spegnendosi per una implacabile infermità che lo ha tolto completamente alla conoscenza della vita e alla sua arte.
N. d. A.
- ↑ Questo articolo fu scritto quindici anni or sono, quando il Giorgieri Contri, che ora ha un posto sicuro tra i nostri migliori poeti contemporanei, era ancora alle sue prime armi.
L’autrice di questo scritto ha la compiacenza d’essere stata fra i primi a rilevare la delicata e originale personalità artistica di lui.
(N. d. A.)