Dal mio verziere/Edoardo Bellamy
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Edoardo Bellamy.
Nell’anno 2000.
Ecco un libro fortunato. L’Apocalittico sogno d’una nuova età dell’oro è stato di buon augurio al giovine autore americano. A Boston, dove il volume uscì col suo titolo originario: «Looking Backward», se ne fecero 335 edizioni; ed in Italia, nella succinta veste latina che gli ha adattato il signor P. Mazzoni, comparisce già per la quinta volta. È un tantino troppo, mi pare, per un libro che non meritando il nome di romanzo, nè essendo un serio studio sociale — titoli a cui aspira — conviene relegare nella sezione delle curiosità. Maravigliosa gente questi Americani! Mi sembrano titani fanciulli che si balocchino col sole e colla luna. Edoardo Bellamy si è baloccato coi secoli. Il protagonista del suo racconto, un tal Giuliano West, per rimedio contro un’insonnia ostinata, si faceva addormentare ogni sera da un ipnotizzatore nella sua camera da letto sotterranea, foderata di cemento idraulico e coperta di lastre di macigno: il servo che solo sapeva il segreto, lo destava ogni mattina. Ma un incendio nella notte distrugge la casa, il servo perisce nelle fiamme, il medico ipnotizzatore era andato all’altro capo del mondo proprio la sera prima, e Giuliano continua a dormire nel suo sotterraneo, finchè un figlio del XX secolo, per certi scavi, non gli rompe l’alto sonno nella testa. Suppongo che la tromba della Resurrezione gli avrebbe cagionato meno stupore della voce del dottor Leete che lo avvertiva garbatamente: — Siamo nell’anno 2000, signore».
Naturalmente Giuliano West crede ad uno scherzo; è impossibile che abbia tanto dormito, lui che pativa d’insonnia! Ma deve pur rendersi all’evidenza: ha proprio schiacciato un sonnellino di un secolo! e mentre gli altri osservano curiosamente quell’uomo vestito all’antica fra quelle suppellettili che fanno rivivere ai loro occhi un’era di barbarie, Giuliano si guarda allo specchio... e si trova giovine, vigoroso e sveglio più di prima. Ecco se non altro un conforto inaspettato. Ma quel povero naufrago di un altro secolo si trova pure assai solo, e non può impedirsi di pensare con rammarico alla generazione sparita fra cui erano le sue conoscenze e i suoi affetti, a quel passato che avrebbe dovuto essere il suo avvenire, alla sua fidanzata Edith. — Edith? — gli dice il suo ospite; — è la mia figliuola. — E gli presenta una bella fanciulla fresca come un fiore. Giuliano se ne innamora: e più tardi apprende che Edith Leete non è altro che la pronipote di Edith Bartlett, la sua antica fidanzata, la quale dopo averlo pianto morto per quattordici anni aveva fatto un matrimonio di riflessione. Sulle prime Giuliano le serba un po’ di rancore per questa conclusione, poi pensa che se la prima Edith non si fosse consolata, l’Edith nuova non esisterebbe, e si consola anche lui.
Questa è tutta la parte romantica che, scritta con maggior spigliatezza, arguzia e colore, potrebbe riuscire, sebben tenue, amenissima. La parte sociale del racconto è una magnifica assurdità, abbagliante e ingannevole come la scienza dei romanzi di Giulio Verne coi quali questo di Bellamy ha un’aria di famiglia. Nell’anno duemila non vi saranno più poveri, nè oziosi, nè malfattori, nè nemici, nè avari, nè tiranni, nè potenti. Una grande armata industriale, in cui tutti indistintamente dovranno servire per il loro paese fra il ventunesimo e il quarantacinquesimo anno, livellerà tutte le classi e darà a tutte l’agiatezza, il lavoro, la felicità operosa, una serena tranquillità. Dopo i quarantacinque anni ognuno sarà libero di dedicarsi all’arte o alle occupazioni preferite, fino alla morte, che con la fatica così equamente distribuita e l’igiene imperante, colpirà solamente nell’estrema vecchiezza. Non si parla di ospedali; le prigioni sono sparite, poichè è sparito il dèmone cattivo sobillatore: la miseria — il germe della corruzione: l’oro. Il danaro non ha più valore, è lettera morta, non si compera e non si vende più; non vi sono più stipendi nè patrimoni. Un libro di credito che ogni cittadino tiene dallo Stato fa le veci del metallo e della cartamoneta; non più dunque interessi privati, piccole industrie, case bancarie, speculatori, affaristi; ogni proprietà, ogni commercio sono fusi in un’unica produzione nazionale ugualmente distribuita da un Presidente che diventa un fornitore.
Ai miei occhi, agli occhi dei profani, questo immane meccanismo di ordinamento sociale descritto minuziosamente sbalordisce, per la sua apparenza di larga semplicità; una semplicità così elementare, così logica, che a tutta prima fa stropicciare gli occhi ed esclamare: «Ma dunque perchè questo non sarebbe possibile?» Poi, ahimè! appena ci si avvicina un poco, anche gli inesperti del grande e doloroso problema, s’accorgono del miraggio. L’edifizio è vasto e splendido, fantasioso e severo; superbo come un arco di trionfo, pio come una cattedrale: ingombra i cieli nel fulgore sano del sole, ma non posa sulla terra; non ha base, non ha fondamenta; ad un soffio svanirà. E svanisce.
Svanisce poichè è inutile, se noi misera progenie d’Eva non potremo abitarlo giammai. Ci vorrebbero degli spiriti luminosi e incorporei da Paradiso Dantesco. Ma noi con questo po’ po’ di zavorra? Povero edificio! Altro che sventramento!
Il signor Bellamy ha dimenticato assolutamente il terribile mostro delle passioni che ognuno di noi porta appiattato alle spalle e che ci sospinge e ci uccide. Non più oro; dunque non più delitti, non più assassinî, non più rapine, non più suicidi ha detto lui: dunque non più forza pubblica, non più luoghi di pena; e fratellanza e ordine perfetto. Oh «Amour, mysterieux amour, douce misère!», dove ti relega il signor Bellamy per emanciparsi così di te?... I delitti e i suicidî mossi dall’amore non sono forse altrettanti di quelli mossi dall’avidità? L’amore non genera forse la gelosia, l’odio, la vendetta, la ribellione, i rimorsi? Poi, lasciando in pace l’amore, e l’egoismo, così tenace nella natura umana? l’ira, l’invidia, l’infingardaggine e tutto quel brulicame di cattivi instinti e di tendenze malsane che ci ribolle nel sangue, che riusciremo a domare, a soffocare giammai? Siamo in terra, signor Bellamy! — Peccato! — Lo so, ma ci siamo; e intanto le vostre sapienti precauzioni per la felicità mi fanno venire in mente una vecchia fiaba in cui una bambina per salvarsi dal lupo manaro turò colla bambagia ogni spiraglio, ogni pertugio, ogni crepaccio della sua casa, chiuse le finestre e si coricò tranquilla... dimenticando aperto l’uscio. Cose che succedono.
E non è solamente su questa.... distrazione che si trova a ridire. Manca l’equilibrio nel lavoro dello scrittore americano. Mentre su certi punti s’indugia a sazietà, come nell’ordinamento industriale, su certi altri sorvola, come nella questione religiosa, essenzialissima. Di agricoltura non una parola; di arte non sappiamo se non che il solo giudice sarà il pubblico il cui verdetto «per l’alto livello universale dell’educazione odierna — parla il dottor Leete — acquista un valore assoluto, preciso, che ai vostri tempi era del tutto impossibile». Quindi a tutti lo stesso granellino di sale della sapienza o la stessa patente di asinaggine. Il genio che si sprigiona e vola, l’intelligenza illuminata e divinatrice, il buon gusto innato e individuale, tutto tagliato a spazzola. Nessuno più farà musica in casa. Si potrà aver musica però a domicilio in tutte le ore del giorno e della notte toccando un bottoncino elettrico, press’a poco come il gas e l’acquedotto. Oh razza anglo-sassone, ti riconosco!
Anche sull’educazione, sulle professioni, sul servizio sanitario, pochi e non soddisfacenti ragguagli. La piaga dei domestici cicatrizzata perchè non vi saranno domestici. Si va a mangiare al ristorante, alla cucina dello Stato e «in caso di emergenze speciali — spiega il solito dottor Leete — come il ripulimento o rinnovamento generale della casa, possiamo sempre invocare l’assistenza dell’armata industriale. Dunque in quel civilissimo secolo il ripulimento della casa è un’emergenza speciale! E dire che quando parlano di noi del secolo decimonono ci chiamano barbari. Siamo proprio noi i barbari, dottor Leete?...
Ingegnosa e verosimile l’idea del trasporto dei pacchi a domicilio per mezzo di tubi pneumatici; e, per le giornate piovose, le gran tele impermeabili che scendendo a terra trasformano i marciapiedi in altrettanti corridoi asciutti e ben illuminati. Anche fa piacere il non riscontrare in un libro d’intenti così eminentemente socialisti, nessuna invettiva, nessuna crudezza, nessuna suggestione.
«Per altre vie, per altri porti |
significano circa le parole del dottor Leete all’indirizzo di quei signori dalla bandiera rossa; e quell’aura di pace, quella compostezza serena danno al racconto un simpatico carattere elevato e fine che gli apre tutte le porte indistintamente.
Il capitolo dedicato all’eterno femminino è il migliore del volume. È un bell’ideale di emancipazione sana, onesta, vera, a cui la donna perviene per mezzo del lavoro. Essa pure appartiene all’armata industriale che non lascia se non per i doveri della maternità, e può attendere come l’uomo ad un genere d’occupazione preferito. Naturalmente sono per lei i lavori più facili e i meno faticosi — è la cavalleria del secolo ventunesimo — e la donna diventa così la vera eguale, la vera compagna, la vera cooperatrice dell’uomo.
Inorridite, rinnegatemi, amiche che passate radiose di gemme nei balli calpestando le trine da mille lire il metro, e che v’adagiate nella morbidezza degli intimi salottini esauste per un viaggio alla Sterne nelle regioni pettegole e profumate; inorridite, ma ho chiuso fra quel capitolo un desiderio e un rammarico.... Che buona salute! che appetiti! che soddisfazione pura e lieta! una stanchezza piena di sollievo, un riposo pieno di dolcezza, una vita feconda e operosa. Oh l’attraente visione! Non più tempo per le emicranie, per le nevrosi logoranti, per le fantasticherie velenose, per i languori cattivi, per gli ozî insidiosi. Mai più annoiarsi, mai più! Poi la gentile alterezza di bastare a noi stesse, e l’affrancamento da ogni schiavitù: quella di un’ipocrita galanteria che ci confina fra i gingilli fragili e inutili, o l’altra meno umiliante ma più triste che condanna la donna a girare intorno allo stretto circolo delle attribuzioni domestiche, con gli occhi bendati, senza tregua, per tutta la vita; come i cavalli che una volta facevano andar le macine dei tintori....
Ed ora un raggio anche per voi, signorine. Immaginate voi che paradiso sarà il mondo quando verrà abbattuto quel famoso «Dio dell’or» che miete tante speranze e inaridisce tanti cuori? che appare sempre, o quasi, livido, inesorabile spettro fra il gioioso festino della vostra giovinezza? Pensate un po’ che ebbrezza volare all’anima gemella sbarazzate e libere per sempre da tutte quelle brutte miserie di doti, di notai, di patrimoni, di assegni, che offuscano lo splendore delle vostre aluccie di farfalle! Sarà un tripudio di gioventù, di bellezza, d’amore!
Ma, ahimè, questo è l’ultimo sogno — un sogno d’alba! — bisogna destarsi e lasciare il baldo e pacifico popolo evocato da Edoardo Bellamy. Avesse egli la potenza del mago Merlino e noi i meriti di Bradamante per poter assistere con convinzione alla sfilata di questi nostri discendenti futuri! Ci sarebbe proprio da consolarsi.