Dal Trentino al Carso/La conquista di Gorizia/Il guado dell'Isonzo
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Zona di guerra, 8 agosto, sera.
Le nostre avanguardie, varcato l’Isonzo fra il villaggio di Podgora e la strada di Lucinico, hanno portato la linea di battaglia nella città di Gorizia.
La stazione meridionale della ferrovia sembra occupata. Si combatte in questo momento alle prime case, all’imboccatura del Corso e di via Manzano, le grandi arterie della città, che nei pressi della stazione si presentano come vialoni bianchi fiancheggiati da orti e da villette.
Per quale magia la grande notizia ha raggiunto fulmineamente le borgate, le città, i villaggi lungo le frontiere della vecchia Italia? Ogni casa ha messo fuori la sua bandiera. Un’ora dopo che i primi drappelli nostri avevano toccato l’altra sponda del fiume, un festoso sventolìo di tricolori palpitava sopra ogni centro abitato, da Cormons a Udine, da Cervignano a Palmanova.
La testa di ponte austriaca di Gorizia, sgretolata per tutto dai primi assalti del giorno 6, è definitivamente caduta faggi a mezzogiorno. La resistenza del nemico aggrappato solidamente sulla cresta del Podgora, sull’altura del Grafenberg (che è una continuazione del Podgora digradante nel vallone di Oslavia), e sui rovesci di Oslavia, è stata accanita, ostinata, disperata. Le ali erano cadute, e il centro reggeva ancora, tenacemente; avviluppato, tagliato fuori, senza speranza, ha sostenuto per tre giorni il nostro urto.
Abbiamo dato ieri una visione generale della magnifica battaglia al suo inizio, con le sue incertezze, i suoi orgasmi, il suo tumulto, la sua esultanza. Dopo il bombardamento formidabile che in poche ore ha sconvolto i trinceramenti nemici, l’assalto generale ha sfondato di primo impeto la formidabile linea di trinceramenti nemici alle due estremità della testa di ponte, sul Sabotino al nord e sul Calvario al sud. Come si sa il Calvario è il costone del Podgora che scende sopra Lucinico. Oltrepassate in questi due punti le difese nemiche, nella stessa sera le nostre forze hanno manovrato, con uno slancio indicibile, per aggirare le posizioni centrali che resistevano.
Sono dal sud penetrate nel villaggio di Podgora, poi in quello di Grafenberg, mentre dal nord, le truppe che avevano espugnato il Sabotino, scese a San Mauro, operavano verso Salcano. Tutto il fiume alle spalle del nemico era dominato, e i passaggi, che sono sette fra ponti e passerelle, erano sotto il nostro fuoco. Gli austriaci che combattevano ancora non potevano più nè ricevere rinforzi nè ritrarsi.
La battaglia non aveva soste. È continuata intensa nella notte. Una notte fantastica. Cumuli di fumo luminoso e sanguigno, un bagliore di vampe, un fiammeggiare di incendi, indicavano Gorizia nella pianura tenebrosa. Erano i quartieri generali austriaci che bruciavano, le sedi dei Comandi nemici da noi individuate ad una ad una. Il nostro lungo rispetto per la città irredenta ci ha giovato conferendo al nemico una insolente fiducia. L’ha pagata tutta in un colpo.
La luce vivida, azzurra, mobile ed effimera dei razzi illuminanti, lanciati a centinaia come in una sera di festa, popolava il cielo di meteore e rivelava neri profili di creste, declivi di alture pallidi come sotto a raggi di luna. I proiettori giravano intorno il loro immenso getto diafano che posava inquiete macchie di splendore sui centri della lotta, brulli, sassosi, tormentati, crepitanti di colpi. Le vampe delle cannonate lampeggiavano alte, con balenii violacei, irradiavano nel cielo il loro breve fulgore; e le esplosioni delle granate e degli shrapnells scintillavano per tutto, abbaglianti; essi punteggiavano la notte di faville gigantesche, che per un attimo contornavano di chiarori violenti ampie nubi di fumo.
E da questo caos di ombra, di vapori, di brume, punteggiato di fuochi, solcato da folgorazioni, saliva il frastuono perpetuo della battaglia, una successione idi boati, di scoppi, di scrosci, di rombi, così intensi da imprimere ai nostri sensi vibrazioni che non hanno fine. Noi ne portiamo nel cervello l’eco perpetua, una risonanza ossessionante che ci accompagna nel silenzio del lavoro, che non ci lascia nemmeno nel sonno breve e febbrile, e che rugge nel fondo del nostro essere come il mugolìo eterno della conchiglia.
All’alba il combattimento continuava violento fra il Podgora e Oslavia. Il lettore voglia seguirci sulla vetta del Sabotino appena conquistata, dalla quale tutta la battaglia si domina. I buoni osservatori del giorno 6 sono già troppo lontani il giorno 7. Il prodigioso balzo in avanti dell’esercito italiano contro i più formidabili bastioni che la natura e l’arte militare abbiano mai opposto ad un assalto ci permette di raggiungere luoghi che finora la morte interdiceva.
Tutto parla di morte sul Sabotino, truce montagna divoratrice di uomini, strana, gonfia, regolare come un cumulo immane di macigni, arida sui declivi battuti dal cannoneggiamento di un anno, sconvolta, biancastra, del colore di un ossario mostruoso, come la montagna della leggenda buddhista narrata da Lafcadio Hearn, la vertiginosa montagna fatta di crani. Si percorre una strada che ha una storia feroce, aperta a furia di assalti, lungo la quale ogni passo è costato una vita. La lotta tenace e sanguinosa ha inciso nella pietra profondamente le sue tappe. Si va su faticosamente per sentieri scavati nella roccia, per camminamenti tortuosi e ripidi, per corridoi sinistri, angusti, opprimenti, senza fine. Di tanto in tanto un rovesciamento di pietre, delle schegge, dei fucili spezzati, degli spruzzi di sangue che si vanno oscurando sui sassi, e sui bordi alti qualche cadavere sporge i suoi piedi sulla testa di chi passa. Si calpestano berretti, giberne, caschi sforacchiati, foderi di baionette, si passa sopra un disseminamento di cartucce.
Bisogna fermarsi spesso per lasciar passare dei feriti. Quelli che possono camminare scendono da soli ai posti di medicazione, lentamente, il volto affumicato dalle vampe, ma sereni, senza un lamento, con una contentezza grave nello sguardo perchè «le cose vanno bene». Sentono il bisogno di dirlo. «Abbiamo vinto!» — «Domani a Gorizia!» — «Questa volta li abbiamo buttati giù!» — esclamano passando, e seguitano a scendere adagio adagio, portando tutti fieramente il peso della loro sofferenza, con le uniformi decorate di sangue.
I portatori di barelle, sudati, ansimanti, eroi dei quali nessuno parla, quasi tutti territoriali, silenziosi, pieni di cautela, pieni di pietà paterna semplice e umile, trasportano i feriti più gravi. Il movimento si ferma improvvisamente in certi istanti: un urlo lacera l’aria. Un proiettile nemico arriva. Passa. È passato. Il movimento riprende.
Un tempestìo di shrapnells austriaci batte il rovescio del Sabotino, verso Salcano. Gli sterpi su quel declivio dirupato hanno preso fuoco e il fumo denso sale e turbina fin sulla vetta.
Dopo due ore di dura ascesa si arriva alla spalla del monte e si è sulle trincee austriache, in mezzo ad una confusione sterminata di pietrame scavato di fresco, di reticolati divelti e sparpagliati in arruffii rugginosi. Oltre alla devastazione fatta dal cannone, più di seicento bombarde hanno portato nelle trincee nemiche uno sconvolgimento da cataclisma. Pochi cadaveri giacciono qua e là negli atteggiamenti strani che dà la morte fulminea, atteggiamenti che dicono il gesto interrotto, pieni ancora di un non so quale impeto.
Sono pochi perchè qui la difesa è stata rapidamente sopraffatta. La baionetta ha subito rovesciato i pochi oppositori i cui corpi stanno abbattuti sui bordi delle trincee. La massa austriaca era ancora nelle sue caverne.
Sulla Quota 609, la vetta massima, un roccione dirupato e grigio, salgono dei camminamenti austriaci, protetti da spesse muraglie di pietrame, che conducono a caverne-rifugio, enormi gallerie che attraversano la cima da parte a parte. Mentre l’assalto passava, dietro alla grande ondata di uomini che ha coperto la montagna, dei pattuglioni si gettavano verso le grotte buie intimando la resa: «Giù le armi! Uscite fuori!». Gli austriaci da dentro non vedevano che baionette sporgere sullo sfondo luminoso dell’ingresso. Si arrendevano.
Ma una caverna ha resistito. Alle intimazioni rispondevano fucilate. Era la caverna più grande, quella che serviva di residenza al comando austriaco del Sabotino e al nucleo più forte della difesa. I nemici rintanati aspettavano il contrattacco. Non ritenevano la partita, e la posizione, perduta. Troppo avevano ripetuto, stampato, e creduto il Sabotino definitivamente inespugnabile. Non riuscivamo a persuadersi. Si riserbavano per la riscossa.
Tutto il giorno, tutta la notte, parte del giorno dopo sono rimasti lì. Arriviamo in tempo per assistere alla soluzione del bizzarro episodio.
Un capitano era stato incaricato dell’operazione. Rimasta inutile ogni esortazione orale, ha cercato delle incitazioni più energiche. Una mitragliatrice, piazzata alla bocca del covo, ha martellato l’ombra. Nessun effetto. La caverna era tortuosa e il piombo non colpiva che la pietra. Si udiva all’interno un vocìo di moltitudine.
Non bastando il fuoco si è pensato al fumo, e il capitano ha chiesto di urgenza qualche bidone di petrolio. Le fiamme divampano all’ingresso orientale del rifugio sotterraneo spandendo per la montagna un odore di lampada che fila. Il fumo avanza all’interno. È sempre più umano dei gas asfissianti.
Per qualche ora la guarnigione resiste all’attacco. Poi, improvvisamente, gli elmetti dei nostri soldati in agguato, che sporgevano immobili sul pietrame, si agitano. Delle voci gridano qualche cosa, le baionette balenano. E ad un tratto il primo austriaco compare alla luce, con le mani levate, disarmato, un tipo atletico, biondo, che ha delle mostrine azzurre al collo dell’uniforme. E dietro a lui un altro, dieci, venti, cinquanta, cento....
La tana vomita uomini in fila, lentamente. Pare che la loro processione scaturisca dalle rocce, per magia, come una sorgente umana. Questa volta la montagna partorisce austriaci. Sono centinaia e centinaia. A drappelli, in fila indiana, scendono fra i macigni, scompaiono, e si vedono riapparire giù in fondo, sui primi prati solcati da camminamenti.
Altre carovane di prigionieri passano intanto laggiù, in corteggi che non hanno fine, che si sgranano lentamente. Migliaia di austriaci. Vengono dalla battaglia. Sono stati presi a San Mauro, ai piedi del Sabotino, sull’Isonzo.
In certi momenti l’artiglieria nemica li scorge e manda qualche shrapnell di addio fraterno. Allora la fila indiana degli ometti acquista una singolare rapidità. I prigionieri corrono verso questa benedetta terra nemica.
La battaglia continua, ed è tutta sotto il nostro sguardo. Quella confusione di collinette che dà alla vallata di Oslavia un aspetto tempestoso, appare dall’alto schiacciata, livellata, e si distende ai nostri piedi, solcata da trincee e camminamenti, in ogni verso, tracciati in tutte le direzioni colme i segni di scritture sovrapposte sopra una vecchia carta asciugante. È in questi profondi grovigli di trinceramenti, in questi complicati sistemi difensivi che il bombardamento non può interamente distruggere, che l’avanzata nostra ha trovato la più dura resistenza.
Dal Sabotino si seguiva ieri l’avanzata passo passo, lenta, dura, ma costante. Dense raffiche di shrapnells nostri staffilavano furiosamente le posizioni nemiche, e dalla terra crivellata da miriadi di pallottole salivano masse così dense di polverone che si sarebbe detto fossero sollevate dal passaggio di innumerevoli automobili.
Alle sette di ieri sera Oslavia, la tremenda Oslavia, tomba di battaglioni, appariva già superata. Il fuoco si spostava. I grossi calibri austriaci mettevano sui ruderi oscuri e informi del paese l’eruzione veemente dei loro colpi. Ma altre cannonate austriache che annebbiavano tutta la riva destra dell’Isonzo, bassa e vellutata da prati, indicavano l’estensione del nostro movimento avvolgente.
Gorizia velata, fumigante, diafana nel tramonto, apriva le sue strade deserte nell’ombra azzurra della sera. La tempesta delle granate riprendeva a tratti sul Podgora, la cui cresta era ancora austriaca, e sul San Michele lontano un ondeggiare incessante di nubi indicava qualche tentativo nemico di contrattacco verso le cime espugnate. All'avvicinarsi della seconda notte la battaglia aveva una ripresa di violenza. Nel cielo crepuscolare gli aeroplani austriaci roteavano cercando di scoprire le nostre artiglierie dalle vampe.
Le retrovie erano ingombre di masse di prigionieri che marciavano ordinati e silenziosi nel buio, in immense colonne. Erano oscure carovane che riempivano del loro scalpiccio pesante, rombante, lugubre, la quiete solenne dei sentieri boscosi. Se non si porta un’uniforme da soldato italiano è pericoloso avvicinarli di notte in aperta campagna. Gli uomini di scorta non esitano ad afferrare l’intruso per un braccio e a scaraventarlo nel branco. Per loro chi non è un compagno non può essere che un prigioniero.
Questi austriaci, vari di età, mescolati giovani ed anziani, hanno ancora l’apparenza di gagliardi soldati. Non si scoprono in loro i segni di lunghe sofferenze. Sono quasi tutti sloveni, croati, polacchi, dalmati. Vi sono pure molti provenienti da queste stesse terre sulle quali si combatte. Nella zona di Monfalcone è stato catturato un abitante di Monfalcone. Aveva in tasca la chiave di casa. Soltanto, non c’è più la casa.
Stamani la battaglia si è andata avvicinando alla sua fase risolutiva. Il Podgora è stato attaccato anche dalla parte dell’Isonzo. Gli austriaci sulla cresta si difendevano su due fronti. Dalle imboccature delle loro caverne, verso Gorizia, mitragliavano i nostri che salivano dal villaggio di Podgora. Stretti da ogni parte hanno prolungato ostinatamente la loro difesa inutile, cieca, disperata, valorosa.
La salita dal lato dell’Isonzo era lenta e difficile, ma aiutava gli assalti dal lato occidentale, che dovevano valicare soltanto pochi metri. Dalla sera di domenica si vedeva il segnale bianco che indica all'artiglieria il limite dell’avanzata piantato ad un tiro di sasso dalla cresta rossigna. Ogni slancio si frangeva in quei pochi passi. Le trincee austriache, per la conformazione stessa del monte, poste lungo la cresta, non potevano essere battute in pieno dall'artiglieria. L’efficacia della difesa non era sensibilmente ridotta e il sistema dei ricoveri scavati lassù permetteva ai nemici di essere rifugiati e in azione. Combattevano, per dir così, dalle tane.
Nulla può ridire l’eroica, meravigliosa ostinazione dei nostri soldati. Fermati, ributtati dalle raffiche delle mitragliatrici, si riordinavano, e via di nuovo. Si vedevano andar su veloci, poi il brulichìo dell’assalto si rallentava, si diradava, e l’ondata di uomini ricadeva. Intanto le nostre forze che avevano aggirato il Podgora, da Lucinico a Grafenberg, erano battute dall'artiglieria. Di fronte a loro, proprio sull'altra riva dell’Isonzo, dei lancia-bombe scaraventavano enormi proiettili che sviluppavano immense nubi di gas lagrimogeno. I nostri combattevano con gli occhiali e la maschera. Il fumo del bombardamento austriaco sorgeva oltre la cima del Podgora a grandi nembi.
Il combattimento era sanguinoso. Ogni assalto lasciava un disseminamento di caduti, austriaci e italiani, fra i reticolati sconvolti e sul bordo delle trincee. Si sentiva però che la resistenza perdeva animo e forza. Finalmente, verso mezzogiorno, un attacco più nutrito, più violento, furibondo, decisivo, ha portato i nostri sulla cima. Il panorama di Gorizia con lo sfondo delle verdi alture di San Marco, e lontano la diafana vallata del Vippacco, si è aperto meravigliosamente al loro sguardo stupito.
Lo spettacolo inatteso li ha fatti urlare di entusiasmo. Per un anno erano rimasti aggrampati a pochi passi da questa visione, come sotto alla cornice di un muro, senza vedere altro che terra rossa, fango viscido, alberi stroncati, macigni, buche, tombe. E ad un tratto l’orrenda altura spariva, il muro crudele crollava, e veniva a loro come un saluto, come un invito, il respiro ampio del luminoso paesaggio goriziano. I soldati piangevano di felicità abbracciandosi. E si sono precipitati giù, verso il fiume.
Qui la costa ripida, non tormentata dal cannone, è rimasta boscosa. Fra gli arbusti aspettava un ultimo tranello. Un folto reticolato sbarrava il passo, nascosto dalle verdure. I primi plotoni vi sono caduti in pieno, e le mitragliatrici erano in agguato. La lotta ha ripreso, a mezzo declivio. È stata breve. L’assalto è passato, e i nostri si sono subito gettati nei camminamenti austriaci.
Poco dopo si prendevano le disposizioni per il passaggio dell’Isonzo. I soldati fremevano di impazienza. Verso le due si sono veduti i primi plotoni scendere fra i cespugli fitti della riva destra ed entrare nell’acqua.
Un momento dopo il fiume scintillante ribolliva di spruzzi. La magra ha permesso di passare l’Isonzo a guado. Con l’acqua fino al petto, il fucile sollevato nel gesto della fantasia araba, i soldati guazzavano urlando, e facevano sforzi inauditi per sorpassarsi, per arrivare primi a toccare l’altra riva. Il fumo li ha avvolti. Gli austriaci tiravamo a shrapnells, facevano salve su salve. Raffiche di piombo fustigavano l’acqua che si è costellata di piccoli getti candidi. Qualche ferito era passato indietro, sostenuto da mano a mano.
Il passaggio si è fatto vicino ai ponti. Le prime pattuglie arrivate alla riva, inerpicatesi alla scarpata, aggrappandosi alle fronde di acacia che la ricoprono, portatesi al bordo della sponda hanno aperto il fuoco contro i bombardieri dai gas lagrimogeni, che si sono arresi. A poco a poco la linea si è andata estendendo lungo la banchina del fiume. Dei piccoli nuclei si sono portati alla difesa dei ponti.
Vi sono due ponti, vicini. Uno di ferro, che nereggia massiccio fra le verdure delle sponde, il ponte della strada rotabile di Lucinico. L’altro in muratura, che porta la ferrovia, alto e monumentale, che lancia verso Gorizia la fuga maestosa dei suoi archi, come un acquedotto. Si scorgono in questo ponte preparativi di mina, e il primo arco è spezzato. Ma il danno così lieve può attribuirsi anche a qualche nostra grossa granata caduta lì durante i tiri di interdizione.
Alle tre, la linea avanzata aveva oltrepassato la stazione ed era alle prime case di Gorizia.
Qualche pattuglia passava, per perlustrare gli accessi, sul ponte di ferro, in una grandine di fucilate. Gli austriaci si difendevano dagli abitati, sparavano dalle finestre, passavano da casa a casa. Molti si arrendevano.
Per i profondi camminamenti di Lucinico sfilano i prigionieri, di cui solo le teste emergono sull’erba, fra i reticolati rotti. Anche qui il campo di battaglia è un inferno; buche enormi, rifugi saltati in aria lasciando uno sparpagliamento di travi, fucili spezzati, baionette contorte, lanciabombe rovesciati, e per tutto schegge, fondelli, granate a mano, mine aeree non esplose. La strada carrozzabile è sparita.
Appena fuori dai ruderi informi di Lucinico, rasa al suolo, verso le trincee, la bella strada candida scompare in una coltre di erbe salite ad invaderla dai prati. Da quindici mesi non vi è passato più un essere vivente. Era la strada maledetta; diveniva ad un tratto una via che portava al di là della vita, che lasciava il mondo, una via feroce e misteriosa che varcava le soglie dell’esistenza. Chi vi metteva il piede era morto.
Oggi essa è tornata a rivivere. Ma gli austriaci la battono con grossi calibri, per richiuderla da lontano e nel velo del polverone e del fumo, sollevati dalle esplosioni poderose e trascinati dal vento, passano i prigionieri ed i feriti, come delle ombre.