Dal Trentino al Carso/La conquista di Gorizia/A Gorizia
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Zona di guerra.
La linea del combattimento ha sorpassato Gorizia di un colpo. L’Isonzo è varcato in forze anche a Salcano. La fronte si sposta d’ora in ora, si modifica, avanza. Non è possibile definirla. Ogni notizia parla di luoghi nuovi. Tutto è in movimento. Bisogna indovinare le fasi della lotta dal fumo dei colpi, dalla direzione del tumulto, come nei vecchi tempi delle battaglie di manovra.
Dopo la lunga e spaventosa immobilità delle trincee, siamo entrati in una fase di irruzione vertiginosa. La nostra forza era come una pesante massa di acqua ferma che premeva possentemente sugli argini, che li scalzava, li sgretolava, li sfiancava lentamente in un’apparenza di fissità insuperabile. L’argine è rotto e la fiumana precipita nella breccia aperta, dilaga, si spande verso altri ostacoli. Troverà argini più lontani, ma per il momento la cateratta sgorga e romba.
Si combatte con violenza ai fianchi, per allargare il varco della linea fortificata che ci tratteneva. Un bombardamento intenso batte il Monte Santo e il Monte Kuk, al nord, batte i rovesci del San Michele e il Vallone di Doberdò, al sud. E nel centro l’ondata copre del suo impeto la piana di Gorizia. I margini dell’avanzata tendono alle alture, dove la nuova resistenza austriaca si delinea.
Ma non cerchiamo di capire. È una giornata di stordimento e di ebbrezza. Lasciamoci trascinare da questa immane ondata di esultanza che passa. Ci sentiamo travolti come da una bufera di entusiasmo. È la gioventù, è la gloria, è l’avvenire d’Italia che passano in un’irruzione prodigiosa, e ci sembra che nessuna giornata abbia avuto questo bagliore. La ritroveremo nella memoria come un ricordo fatto di luce, come una grande fiamma accesa nel nostro passato, nella nostra storia.
Sorpassiamo le vecchie posizioni piene di morti, varchiamo la soglia spaventosa che la fatalità aveva imposto alla nostra vittoria. Sulle trincee di Podgora, silenziose, dalle quali si domina tutto il nuovo campo di azione, due generali vanno lentamente lungo le creste, e guardano pensosi, seguiti da qualche aiutante. Sono i soli esseri viventi sulle tragiche vette.
Passano fra i rottami, fra i cadaveri, in uno sparpagliamento di armi spezzate, di granate a mano, di indumenti calpestati che hanno l’aria morta anch’essi, scavalcano grovigli di fili di ferro, si fermano meditando come per ricostruire nel gesto dei caduti gli episodi supremi della lotta, si additano delle cose vicine o lontane, osservano di tanto in tanto il nuovo campo di battaglia e poi tornano a contemplare l’antico, la loro attenzione va dal passato al futuro, studiano le orme della guerra e guardano il cammino che alla guerra si apre.
Le truppe che marciano ai piedi delle alture, dirette a Gorizia in lunghe file grigie e tortuose sul terreno spezzato da trincee e camminamenti, lungo la ferrovia dalle rotaie divelte e contorte, non immaginano che è il pensiero, è la volontà di quei due uomini il cui profilo si erge sulla vetta solitaria e insanguinata, che li muove. Sono il genio e la scienza della guerra, lassù, Cadorna e Porro. Se i soldati lo sapessero, l’acclamazione sorgerebbe dalle loro masse.
Le truppe sono penetrate a Gorizia nella prima ora del giorno. I battaglioni che, conquistato il Podgora, si sono gettati ieri nel fiume passandolo a guado, si sono trincerati alle prime case dei sobborghi, hanno sbarrato le strade con barricate di sassi, di carri, di travi, di botti. Soltanto qualche pattuglia si era portata più avanti, negli orti e nei giardini. Per tutta la notte è stato uno scoppiettìo di fucilate. Gli austriaci sparavano dalle finestre. Avevano sfondato i recinti, aperto dei varchi nelle pareti degli edifici, eretto parapetti ai crocicchi, per opporsi all’avanzata con una guerriglia di strada. Ma si trattava di poche forze di retroguardia. Il grosso dei nostri era trincerato ancora al di là del fiume, nel folto e antico bosco che fronteggia il villaggio di Grafenberg e che sembra un parco, e di fronte al paese di Podgora.
L’avanzata è avvenuta all’alba. Da alcune case le ultime pattuglie austriache hanno tentato di difendersi. Brevi scaramucce hanno fatto echeggiare di fucilate le vie deserte. Qualche morto, pochi feriti: l’ultimo prezzo della conquista. Un rombo cupo è venuto dal ponte di ferro, quello della strada di Lucinico, l’unico rimasto intatto. Era la cavalleria che passava, al galoppo. È continuata a passare per qualche ora, mentre l’artiglieria austriaca si svegliava e batteva il varco. Plotoni di carabinieri a cavallo irrompevano per le vie e per le piazze, occupavano gli edifici pubblici, stabilivano il primo servizio di sicurezza. Intanto la fanteria avanzava, attraversava a guado l’Isonzo mentre i pontieri lavoravano febbrilmente alla costruzione delle passerelle. Alle cinque del mattino, l’irradiazione delle avanguardie aveva attraversato la città.
I combattimenti riprendevano al di là. Gorizia pareva deserta. I grossi calibri austriaci cominciavano a percuoterla. Il ponte era bombardato, e sotto al fuoco l’avanzata continuava. E continua ancora. Questa è in poche parole la cronaca della presa. Ed ora entriamo anche noi nella città conquistata. Il lettore ci segua pazientemente nel tumulto delle nostre impressioni, alle quali non è possibile dare un ordine.
La strada che da Lucinico va al villaggio di Podgora attraversa l’altissima banchina ferroviaria in un lungo sottopassaggio, oscuro, barricato con travi. Era un rifugio austriaco, una sede di comandi. Per qualche ora è un nostro quartiere generale e un posto di medicazione. È una galleria fantastica, ampia, ingombra di bottino, piena di casse, di armi. Delle lampade elettriche spente pendono dalle travature, e si va nel buio, fiancheggiando strani edifici, casette di legno erette lì dentro come le stazioni sotterranee del Sempione. Passano dei feriti, si odono dei comandi, degli ufficiali si affollano intorno al generale che impartisce ordini, presso uno degli sbocchi, seduto ad una tavola coperta di carte. Pare di essere in una miniera. Dei soldati gridano: Largo! Largo! — e trascinano delle cose pesanti. Sono cannoni presi al nemico. Improvvisamente, il sole. Si sbocca nel villaggio.
L’ultimo bombardamento nostro lo ha devastato. Tutto è in rovina. Da ogni parte, cadaveri austriaci giacciono nell’atteggiamento in cui sono caduti, con le loro granate a mano nel pugno. La resistenza è stata violenta e disperata. Vi sono ancora dei nemici dispersi che non si arrendono. Nei rifugi del Podgora, la cui torva cima ci sovrasta, in quei rifugi che aprono nella boscaglia stroncata la loro bocca nera di caverna, dei nuclei nemici sono rimasti intanati fino a poche ore fa.
Il vicino ponte della ferrovia, crollato in parte, sospende sulle macerie, fra i piloni rimasti, la centina delle rotaie intatte, sospese. Arrivano granate nemiche, di tanto in tanto, e le schegge crepitano sui muri come una grandine sibilante. Degli avvisi in tedesco indicano i passaggi alle posizioni, grandi cartelli neri e bianchi, sinistri come le iscrizioni funerarie sulle porte delle chiese nei giorni di esequie: «Nach Gorizia» — . Seguiamo il sentiero nel bosco che costeggia l’Isonzo, insieme alle truppe, i cui elmetti sporcati di fango oscillano nella marcia tra le fronde simili a ciottoli in moto. Il Genio ha creato una passerella attraverso il fiume. L’artiglieria nemica tempesta il greto. La fanteria passa a drappelli, di corsa.
Un fragore scrosciante di grosse granate ci sorprende, e uno spettacolo magnifico ci inchioda a metà della passerella. L’artiglieria italiana varca l’Isonzo sotto un diluvio di cannonate. Passa sul ponte di ferro. Il nemico vuol fermarla. Enormi esplosioni sollevano gigantesche colonne d’acqua, eruzioni di pietre, la terra trema, par di sentire la vampa dei colpi passare come un soffio ardente. Nuvole dense e vorticose annebbiano il greto, avvolgono il ponte. Quando il fumo si dissipa, la rigida trina di acciaio del ponte si disegna nera in una caligine grigia, e su di essa si rivedono le nostre batterie che passano impavide, tranquille, a piccolo trotto, sollevando la polvere della strada, con i postiglioni eretti sulle selle e i serventi rigidi sui sedili dei cassoni e dei pezzi. Raffiche di shrapnells empiono l’aria del loro lamento.... Dio! un cavallo di testa è caduto! La fila dei cannoni si ferma, si accavalca! È un istante. Le tirelle sono tagliate, il cavallo morto nereggia per terra. Il passaggio continua.
Risaliamo il greto, ecco delle case rustiche, dei cascinali, dei frutteti, poi delle ville, delle strade: Gorizia. Tutto è chiuso, tutto è silenzioso, tutto è abbandonato. Si direbbe che la città fosse vuota da anni. Per le vie alberate cresce l’erba lungo i lati, ai piedi dei muri. Un gran silenzio. Qualche tetto è sfondato, qualche edificio è bruciato, i muri sono butterati da schegge. In certi giardini le piante e i fiori hanno invaso ogni spazio, hanno cancellato i viali, si affacciano da tutte le parti sulla strada, hanno occupato il posto che l’uomo si riserbava fra loro, e un fiammeggiare di oleandri fioriti maschera delle finestre basse che da lunghi mesi nessuno ha più aperto.
Quasi tutte le case dalle quali è scomparsa ogni traccia di vita recente, portano dei nomi italiani alle targhette dei campanelli. Le ortiche mettono alle loro porte delle soglie verdi. Sono le case degli internati. Il fumo di un incendio vela uno sbocco. Delle pattuglie percorrono i marciapiedi, e il loro passo risuona nella quiete ardente e pesante.
Una finestra a pian terreno è spalancata. Guardiamo dentro, c’è forse qualcuno. Nel mezzo della camera sono distesi dei cadaveri di soldati austriaci. Una motocicletta militare passa come un dardo in un crocicchio. Nell’afa ardente della giornata estiva scende dagli alberi polverosi un canto vasto e monotono di cicale. «Fermata del tram» — dice un cartello che sporge, e ci accorgiamo solo allora che delle rotaie rugginose si distendono sotto alla polvere fine della strada.
Gli edifici si fanno ampi, moderni, e si serrano allineando le loro finestre innumerevoli sulle facciate bianche. Siamo nel centro della città nuova, e qui la solitudine che l’Austria ci abbandona è più tragica, per tutto quello che parla della vita della folla, di movimento e di traffico. Vi è una non so quale costernazione nelle cose inanimate, nei palazzi senza sguardo, nei negozi sulle cui porte la polvere si è posata a strati.
Ad un tratto ci troviamo di fronte ad un caffè aperto, un elegante caffè pieno di ufficiali che si dissetano, serviti da un cameriere in giacca bianca. Al banco il padrone. Si bevono delle limonate eccellenti per pochi soldi. Gli austriaci potevano mancare anche di sapone, ma avevano limoni in abbondanza. Anche nelle trincee. E sono limoni nostri, passati per la Svizzera. Le casse portano impressa l’origine. «Boni taliani!» — come dicono loro.
La prima cosa che ha rivissuto a Gorizia è stato il caffè. Si è aperto puntualmente alla mattina, appena si è estinta la fucileria nei sobborghi. Più avanti, nella città vecchia, oltre la piazza Grande, si sente una vita celata oltre i muri, una vita che aspetta nascosta, malsicura ancora. Qualche bimbo si mostra, delle donne spiano da dietro le persiane, sentendo un passo sulle pietre affocate della strada silenziosa. È il popolo più povero, quello che è rimasto del popolo dopo gl’internamenti e le coscrizioni. Domani le porte si apriranno e vi sarà un po’ di folla per queste viuzze tortuose dell’antico quartiere veneziano, che si arrampicano sulla collina del Castello.
Sul Castello gli austriaci tirano con i grossi calibri. Immaginano che serva da osservatorio. Le granate sembra che soffino sulla nostra testa, tanto il loro urlo possente si spande con veemenza. Andiamo senza mèta in questa lugubre solitudine piena di sole. La strada che porta al Castello diviene ad un tratto campestre, fiancheggia muri di orti, dai quali si affacciano le piante. La fucileria è vicina.
Si combatte lì sotto, al borgo San Rocco e al borgo San Pietro. Scaramucce di avanguardia. Non si vede nessuno giù per i vigneti dove la battaglia si riaccende. Degli edifici grandi e bianchi come caserme, una chiesa nuova, delle strade vuote, e intorno dei prati, dei giardini, dei filari d’alberi. Qualche pallottola arriva non si sa da dove, presso l’entrata massiccia della antica fortezza veneziana, sotto al cui arco una lapide di marmo, incisa in caratteri dorati e circondata da una corona di quercia, ricorda la morte avvenuta in quelle vicinanze, per una granata italiana durante la nostra offensiva di novembre, del comandante delle artiglierie, generale Körner.
Non più soldati, non più pattuglie, la solitudine lassù è assoluta, il borgo del Castello, oltre il portale, allinea le sue casette vecchie e nostrane, tutte a portici, in un silenzio di morte grave di spavento. Niente vive se non la battaglia invisibile e misteriosa, uno scoppiettìo che sembra là, dietro i muri, qualche ronzìo e di tanto in tanto il rombo della granata austriaca che arriva, fragoroso e suonante come un rumore di treno e che muore nello scoppio formidabile. La terra sussulta. Si ode lo scroscio lungo di macerie che crollano, di tetti che si sfasciano, qualche casa muore, e una grandine fitta di schegge si sparpaglia sui muri e sulla strada con sibili taglienti sollevando nembi di polvere.
Una porta si schiude, un bimbo di sette od otto anni, pallido ma tranquillo, si sporge, guarda, rimane un po’ incerto, poi domanda: Sono granate austriache queste? — Sì, figliuolo, sono granate austriache. — Con un gesto di rassegnazione si mette a sedere sulla soglia, fra rottami di tegole che la cannonata ha lanciato.
Si vedono lontano le posizioni espugnate, come il nemico le vedeva. Il loro profilo maledetto ci è così familiare che le riconosciamo tutte senza esitazione. Attirano il nostro sguardo, le contemplano con una specie di rancore feroce. Il cannone tuona Verso il Monte Santo, che ci domina, tutto grigio e sassoso come il Sabotino. Sul San Michele continua la lotta accanitamente. Ma i colpi austriaci tempestano ora il declivio verso Gabrije e verso Cotici. Avanziamo. Il bombardamento dei ponti di Gorizia non ha sosta. Vuol dire che prosegue intenso il passaggio delle nostre forze. Quelle batterie nostre che abbiamo visto attraversare l’Isonzo sono già in azione. I loro shrapnells costellano la piana a levante di Sant’Andrea.
Ridiscendiamo nella città. Passano ora dei battaglioni, ordinati e fieri, nelle grandi vie alberate. Sono moltitudini grigie che sfilano, irte di fucili, fra le case taciturne. Nell’ombra dei filari, squadroni di cavalleria si appiedano; i cavalli coperti di polvere, assetati, sfregiano mordendo le cortecce degli alberi, dei soldati sdraiati dormono fra le zampe delle loro cavalcature. Il vento caldo del meriggio fa sventolare le banderuole delle lance riunite in fasci, che dànno un’impressione inattesa e pittoresca di antica guerra. La cavalleria torna dall’inseguimento. È lei che ha ripreso contatto col nemico e riacceso il combattimento. Ha fatto dei prigionieri.
Precedute e seguite da carabinieri a cavallo, le carovane dei prigionieri attraversano Gorizia. Qualcuno è stato preso in città. Ecco un aitante ufficiale austriaco, con la sua ordinanza, che un soldatino conduce, trovato or ora in una casa. Ce ne debbono essere ancora molti, disposti a figurare come dei buoni borghesi di Gorizia, ardenti di italianità. Dobbiamo diffidare di tutti gli uomini atti alle armi che vedremo in giro.
Sui muri biancheggiano dei manifesti ufficiali, sormontati dall’aquila bicipite. Alcuni proclamano in quattro lingue l’infamia della nostra guerra. Altri stabiliscono delle regole per avere la «carta del pane» o del sapone o della carne. La carne costava dodici corone al chilo, il pane sessantasei centesimi, il lardo dodici corone. Un avviso avverte che chi prestasse aiuto ai prigionieri di guerra nel compimento della fuga verrebbe «punito con la morte mediante capestro». Da noi aiutare i prigionieri nel compimento della fuga è diventato uno sport.
Dei colpi precipitosi di mitragliatrice risuonano improvvisamente, vicini. Cos’è? Dove sparano? Sembrano venire dall’alto, dal sereno. Vengono dall’alto. Due aeroplani austriaci volteggiano sulla città, bassissimi. Si vedono ad occhio nudo le loro croci nere sotto le loro ali, si distinguono gli aviatori. Sparano sulle truppe ammassate in certe vie. Non riescono a colpire, ma seguitano a lungo; girano, mitragliano, pare che in certi momenti si fermino quasi, la prora contro vento. Poi si allontanano subitamente. Un Caproni è comparso e li insegue. Un altro sopraggiunge. È la caccia: le mitragliatrici martellano nello spazio. Tutti gli aeroplani si innalzano, si confondono nella luce, svaniscono nell’azzurro. Un rombare vago di motori scende dal cielo.
Il sole declina, il primo giorno italiano di Gorizia è alla fine. Sulle retrovie, in un polverone denso che il tramonto arrossa, tumultua un immenso movimento di veicoli, di uomini, di cavalli. L’avanzata della fronte propaga lontano il suo moto, trascina con sè quartieri generali, basi di rifornimento, stazioni di deposito, riserve, sposta tutto, attiva la circolazione dei servizi; ed è tutta la vita dell’esercito che affluisce, che scorre, che palpita nelle arterie del paese. Le file sterminate di carri, di cassoni, di camions, di furgoni, di automobili, non hanno interruzioni, non hanno lacune, scorrono serrate con un rumore profondo fatto di scalpitii, di passi cadenzati, di rombi di motori, di fragori di ruote. E tutta questa attività prodigiosa ha qualche cosa di incorporeo nelle nebulosità del polverone, come in una nebbia opaca, in una folta caligine popolata di ombre agitate, nella quale tutto sembra sospeso, evanescente, indefinito, irreale.
Per queste strade, che fino a ieri il fuoco nemico interdiceva, fiancheggiate da rovine, si ha il senso definitivo dell’avanzata, dell’irrompere violento di una grande forza. È la guerra che passa. Pare che tutto corra verso il cannone, che il tuonare della battaglia allontanandosi chiami a sè inesauribili energie, urgenti, e piene.
È necessario riattraversare le posizioni abbandonate per rientrare nel vortice di questa vita. Si ripassa fra i morti che impugnano ancora il loro fucile, rimasti soli a combattere una loro battaglia silenziosa nell’ombra della sera, distesi come in agguato. Scrosciano incessantemente i colpi diretti al ponte. Fra un’esplosione e l’altra si sente venir su dalle rive cespugliose un vasto e tranquillo gracidare di rane.