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148 il guado dell’isonzo


opprimenti, senza fine. Di tanto in tanto un rovesciamento di pietre, delle schegge, dei fucili spezzati, degli spruzzi di sangue che si vanno oscurando sui sassi, e sui bordi alti qualche cadavere sporge i suoi piedi sulla testa di chi passa. Si calpestano berretti, giberne, caschi sforacchiati, foderi di baionette, si passa sopra un disseminamento di cartucce.

Bisogna fermarsi spesso per lasciar passare dei feriti. Quelli che possono camminare scendono da soli ai posti di medicazione, lentamente, il volto affumicato dalle vampe, ma sereni, senza un lamento, con una contentezza grave nello sguardo perchè «le cose vanno bene». Sentono il bisogno di dirlo. «Abbiamo vinto!» — «Domani a Gorizia!» — «Questa volta li abbiamo buttati giù!» — esclamano passando, e seguitano a scendere adagio adagio, portando tutti fieramente il peso della loro sofferenza, con le uniformi decorate di sangue.

I portatori di barelle, sudati, ansimanti, eroi dei quali nessuno parla, quasi tutti territoriali, silenziosi, pieni di cautela, pieni di pietà paterna semplice e umile, trasportano i feriti più gravi. Il movimento si ferma improvvisamente in certi istanti: un urlo lacera l’aria. Un proiettile nemico arriva. Passa. È passato. Il movimento riprende.

Un tempestìo di shrapnells austriaci batte il rovescio del Sabotino, verso Salcano. Gli ster-