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146 | il guado dell’isonzo |
ciavano, le sedi dei Comandi nemici da noi individuate ad una ad una. Il nostro lungo rispetto per la città irredenta ci ha giovato conferendo al nemico una insolente fiducia. L’ha pagata tutta in un colpo.
La luce vivida, azzurra, mobile ed effimera dei razzi illuminanti, lanciati a centinaia come in una sera di festa, popolava il cielo di meteore e rivelava neri profili di creste, declivi di alture pallidi come sotto a raggi di luna. I proiettori giravano intorno il loro immenso getto diafano che posava inquiete macchie di splendore sui centri della lotta, brulli, sassosi, tormentati, crepitanti di colpi. Le vampe delle cannonate lampeggiavano alte, con balenii violacei, irradiavano nel cielo il loro breve fulgore; e le esplosioni delle granate e degli shrapnells scintillavano per tutto, abbaglianti; essi punteggiavano la notte di faville gigantesche, che per un attimo contornavano di chiarori violenti ampie nubi di fumo.
E da questo caos di ombra, di vapori, di brume, punteggiato di fuochi, solcato da folgorazioni, saliva il frastuono perpetuo della battaglia, una successione idi boati, di scoppi, di scrosci, di rombi, così intensi da imprimere ai nostri sensi vibrazioni che non hanno fine. Noi ne portiamo nel cervello l’eco perpetua, una risonanza ossessionante che ci accompagna nel silenzio del lavoro, che non ci lascia