Da Quarto al Volturno (raccolta)/Le guide dei Mille
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LE GUIDE DEI MILLE
«Guida di Dio!» gridò, un di quei giorni del 1860, Nino Bixio, tempestando dietro uno di quei militi, che forse in quel momento non gli piacque.
E il grido rimase, nella memoria di chi lo udì, come un colpo di scure dato in una quercia. Ma se quella Guida vive ancora, si può esaltare in sè nel ricordarsene, perchè un rimprovero di quell’uomo valeva quasi una lode. Era così difficile andargli a versi! Non era mai contento neppur di sè e però si può dire, che, se cento uomini come lui fossero stati, a quei tempi, qua e là pel nostro paese, sarebbero bastati pochi anni a metterci a paro delle più forti e severe nazioni. Con lui non parole, ma fatti; fare, fare! o sentirsi il suo sguardo, peggio che una coltellata nel cuore.
Guida di Dio!
Quelle Guide erano soldati che stavano a cavallo sicuri, come i senatori romani nelle loro sedie curuli, e valevano quei centauri ungheresi, che militarono per noi nella guerra del 1860. Tra i cavalli erano vissuti da giovinetti, signori o popolani che fossero; nessun caporale li aveva messi in sella, ma parevano soldati di ordinanza con otto anni di mestiere; esempio da tener in conto per le coscrizioni della cavalleria, che dovrebbero esser fatte nelle regioni dove il cavallo è il primo trastullo, la prima ambizione dell’adolescente, il suo primo trionfo. Chi a vent’anni non montò mai un cavallo, e vien messo allora alla prova, come diverrà mai un vero cavaliero da battaglia? Saran sempre parole dirgli che uomo e cavallo devono essere un corpo solo; e ad ogni modo sempre a quel corpo mancherà l’anima.
Dico bene, colonnello Missori, voi che comandavate le ventidue Guide di Calatafimi?
Allora il Missori aveva trentun anni, ed era così bello ed elegante che, se il nostro sesso potesse avere il suo gruppo di Grazie, non ultimo nel gruppo di quei tempi sarebbe stato certamente lui. E prode era; chè altrimenti non sarebbe stato possibile al comando di quel drappello, di cui erano parte altri più vecchi e provati di lui. Il quale, se queste parole gli capitassero sotto gli occhi, prego sul serio di non aversene a male; e prego sapendo io bene che, con certi uomini, è più facile sentirsi rimproverare di averli lodati, che d’averne taciuto.
Nella sua bella giubba rossa ad alamari neri, portata del cinquantanove; col suo berretto da sottotenente, alla francese, del gusto d’allora; sul forte stallone preso a Marsala, il Missori cavalcava felice. Egli si sentiva nella vita vera: e che le dame milanesi, che non lo vedevano più nei loro salotti aristocratici, pensassero pure a lui! Ora la Sicilia era una dama che parlava al suo cuore cose più alte.
Se non vi fosse stato il Missori, e le altre ventidue Guide avessero dovuto gridar uno sulle loro sciabole, per farsene un Capo, quello sarebbe stato Francesco Nullo, che allora aveva trentaquattro anni, e il suo nome voleva dir tutta Bergamo. Pronto a morire in qualunque ora, destinato a sopravvivere all’eccidio d’Isernia, avvenuto verso la fine della guerra di quell’anno grande, non sapeva che il cinque maggio di tre anni di poi, anniversario dell’imbarco a Quarto, l’avrebbe ucciso una palla russa, a Olkusz in Polonia, e che il palmo di questa nostra Terra che avrebbe ripreso il suo corpo sarebbe stato in un angolo del cimitero di Miekow, dove il generale russo Szakovskoi lo doveva seppellire, con onori da generale suo pari.
Il Nullo era più bello del Missori, perchè più fiero d’aspetto. Nei poemi antichi egli sarebbe stato Niso o Cloridano; Napoleone ne avrebbe fatto un colonnello di dragoni, da lanciar col suo reggimento a cavallo, per la breccia, in una città bombardata, come entrò in Tarragona il padovano Schiassetti.
Dopo il Nullo, per mirabili qualità di soldato a cavallo (gregario o capitano, per lui era lo stesso), veniva Giovan Maria Damiani, uomo di ventott’anni, faccia che faceva desiderare d’essergli amico, ma portamento che dava soggezione, come d’uomo difficile a lasciarsi accostare. Lo ammiravano tutti, gli parlavano pochi; si sapeva che a sedici anni aveva combattuto a Novara; si diceva che aveva visto un fratello a morir sul campo, e che aveva conosciuto quel che volesse dire il dover portar alla madre una notizia così dolorosa. Del resto, egli non si curava che di operar fortemente, e fu sempre uguale a sè tanto a Calatafimi, quando strappò dalla bandiera tricolore uno dei nastri su cui era scritto «Unità» nel momento che caduto Schiaffini, l’alfiere marinaio, quella nostra insegna rimaneva in mano ai Napoletani; uguale a sè al Volturno, quando la mattina del 1° ottobre, sulla via da Santa Maria di Capua a Sant’Angelo, dove arrivò, come l’uragano, con le sue sessanta Guide, e salvò Garibaldi. Inconsapevole del suo valore, sdegnoso, e solitario, sotto la Dittatura poteva divenire quel che avesse voluto, colonnello o forse di più; invece rimase un sem plice capitano, e a guerra finita tornò da sua madre, come un fanciullo.
Egli e gli altri avevano in mezzo, come un babbo, il novarese Alessandro Fasola, coi suoi sessant’anni e la sua giovinezza, che pareva dovesse durare un secolo. Chi sa in Italia che quel vecchio, già carbonaro rivoluzionario nel 1821, soldato di Vittorio Emanuele primo, e poi soldato nel quarantotto, nel quarantanove, nel cinquantanove, credendo sempre ed entusiasta; chi sa che partì del sessanta coi Mille, in un momento di slancio da giovinetto fuggito di collegio? Passava il Nullo dalla stazione di Borgomanero: Fasola era là, in carrozza col suo fattore e lo vide. Balzò, corse a lui. «Dove vai?» «A Genova, perchè si parte per la Sicilia». «Aspettami». E Fasola andò a dire al fattore che avvisasse a casa, montò sul treno e parti. Doveva godere tutta la guerra di Sicilia, sentir quelle di poi sino al giorno che l’Italia entrò in Roma: morì di ottant’anni nel 1881, pieno di tutta la storia del nostro risorgimento, visto in azione.
Vecchio come lui, io glielo prego di cuore, campi Giuseppe Nuvolari di Roncoferrato nel mantovano! Del sessanta aveva quarant’anni, ma vive ancora laggiù nelle sue vaste possessioni, dove l’amicizia lo vede idealmente, tra i suoi coloni, come Faust nell’ultima sua e sola vera gioia. Ma egli non ebbe la vita allegra del personaggio fantastico del Goethe; visse puro e austero tutta la giovinezza, occupato d’un solo pensiero, l’Italia, che s’era presa quasi per amante. Da guida, a cavallo, pareva un Puritano di Cromwel rimasto vivo a girare il mondo, per dar un’idea dei suoi tempi e del suo Paese.
Forse mentre ne scrivo, conversa egli nella sua Mantova con Ermogene Gnocchi d’Ostiglia, vecchio d’un anno più di lui; ma non parleranno delle loro campagne di guerra, perchè son di quella gente che fa e tace. Era a quei tempi il Gnocchi un uomo arcigno a vederlo, bonario a parlargli e s’indovinava che nulla gli era più gradito che l’essere adoperato nei rischi. A cavallo era sempre, e vi pareva nato; sempre pareva stesse con l’orecchio teso alla voce d’un superiore, e sempre sulle sue labbra fosse pronta una parola: «Comandi!».
Giovinetto a confronto loro era Tommaso Rizzotto, paesano del Nuvolari; ma dell’età di questo e gran cavallerizzo come lui: li osservava e sṛ compiaceva in sè Giambattista Tirelli da Malco, che morì a Milano del settantotto.
E poi venivano quelli di mezza età, Carlo Candiani, milanese, sui trentadue anni, un gigante; il veronese Pietro Fiorentino di trentacinque; Luigi Martignoni da Lodi, di trentatre. E ora, pensando ad essi, mi rappresento, tali e quali dovettero essere, quei della sfida di Barletta, coi quali il Martignoni sarebbe stato bene quanto il Fanfulla. Tempestoso spirito in una persona da vestir di ferro, cadde combattendo a Calatafimi, dove, nella cripta del monumento che ora sorge su quel colle, credo che tra le altre riconoscerei le sue ossa.
Era suo grande amico Emilio Zasio, semplice Guida come lui. Ma questo bisogna leggerlo nella Camicia rossa di Alberto Mario, scrittore, amico suo, il quale (venga pure un seicentismo! ) scrisse del Zasio, intingendo la penna nella parte più viva del suo nobilissimo cuore. Chi passa per Pralboino nel bresciano, legge una lapide murata in una casetta modesta, e leggendo gli pare che quella casetta cresca, diventi castello, e ne venga fuori, coi suoi ventinove anni d’allora, il bel cavaliero che li portava per la Sicilia come una continuazione d’adolescenza; fantastico, impetuoso, temerario, e nell’ amare, nel volere, nell’ osare sempre grandioso.
Con lui, con gli altri, sfilano i rimanenti e più giovani tra le ventitre Guide; sfilano ancora nella memoria di chi li mirò il mattino del dodici maggio 1860, appena fuori di Marsala, mentre pel mare silenzioso su cui cominciava a tremolare l’alba, il Piemonte se n’andava rimorchiato dalle navi da guerra napolitane, e il Lombardo giaceva arenato su d’un fianco, quasi alla riva. Essi erano a ca vallo, e suonava tra loro il forte romanesco dei cugini Pietro e Lippo Bruzzesi; suonava il trentino di Egisto Bezzi, che al profilo e alla persona arieggiava un poco il Ferruccio. Pareva una fanciulla dal Trentino fuggita con lui, per seguirlo in guerra vestito da uomo, il giovinetto conte Filippo Manci di ventun anni. E a voler fantasticare, si sarebbe detto che, rivale segreto, li seguisse Filippo Tranquillini, loro compaesano, che n’aveva ventitre, e s’era buttato alle spalle codici e pandette per impugnare la spada. Domenico Cariolato di Vicenza non aveva che ventiquattr’anni, ed era già un veterano della difesa di Roma: Camillo Chizzolini di Marcaria, nel mantovano, cominciava quella giornata a cavallo, forse vagheggiando le albe di quando sarebbe medico condotto nel suo paese nativo: ma l’ingegnere Luigi Daccò, che vide in quella marcia il deserto da Marsala a Rampagallo, se ne sarà ricordato nella Pampas di Buenos-Ayres, dove andò a vivere poi. Seguivano Felice Ferrighi di Valdagno, e Luigi Prignacchi di Fiesse; v’era Eligio Panzeri di Bulciago che doveva vivere soltanto per veder Palermo, dove di ferite morì.
O bel gruppo di cavalieri, degni che con voi fosse stato messo Ippolito Nievo, che pure non mancava in quell’impresa, e che da Guida avea fatto il cinquantanove! A cavallo aveva cantato quell’anno i suoi Amori garibaldini; e, poeta tanto da lirica quanto da epopea, s’egli non fosse morto naufrago l’anno di poi, chi sa in qual ode radiosa vi avrebbe fatti galoppare per sempre? Galoppare come il quindici maggio quando foste lanciati a veder dov’era il nemico, e tornaste raggianti a dire che era denso e fiammante nelle armi, su quei tali colli di Calatafimi, dove fu poi combattuta quella bella battaglia, che fece dire da Garibaldi ai Mille: «Con compagni come voi, posso tentare ogni cosa!».
Brescia, 15 maggio 1893.