Da Quarto al Volturno (raccolta)/I Carabinieri genovesi a Calatafimi
Questo testo è incompleto. |
◄ | Da Quarto al Volturno | Le guide dei Mille | ► |
I CARABINIERI GENOVESI
A CALATAFIMI
Nei Mille di Marsala, quarantatre di quegli uomini portavano il nome di Carabinieri genovesi, da principio invidiati per le belle carabine federali che possedevano ognuno di suo, più tardi pel nome glorioso che si fecero combattendo. Ma non erano tutti di Genova. Un Veneziano, un Palermitano, due Lombardi, quattro Piemontesi si erano messi nella compagnia; non tutti erano esercitati al tiro come il nome avrebbe voluto dire, però i più conoscevano la loro arma a puntino e l’amavano come Paganini o Sivori il loro istrumento.
Se ne vanno gli uomini, le cose e le loro immagini; ma finchè dei Mille ne vivrà uno, saran ricordati quei quarantatre per quel che parvero ai loro commilitoni, l’alba del 15 maggio 1860, quando Garibaldi partì da Salemi. Essi camminavano alla testa delle otto compagnie dei Cacciatori delle Alpi, che andavano a trovare i Napolitani, grossi e in fortissime posizioni a Calatafimi, nome strano che, con quel di Marsala e Salemi, faceva sentire un altro mondo, l’Africa, i Saraceni. Camminavano alla testa e sembravano il braccio teso, quasi il gesto dell’anima di tutta la colonna, che dicesse al nemico: Veniamo.
Gran giorno!
L’Italia sapeva già che Garibaldi era sbarcato nell’isola, allora misteriosa, quasi tenebrosa, sebbene splendente alle fantasie per la sua storia; lo sapeva l’Italia e viveva angosciata.... Chi sa? Chi sa? Angosciatissima, e per ben altro doveva essere la Reggia di Napoli, dove il nome di Garibaldi faceva accapponir la pelle coi ricordi del quarantanove, Velletri e Palestrina. Bisogna aver vissuto quei giorni per sentire quel che si sentì allora: e bisognerebbe essere stati laggiù in Sicilia coi Mille, per capire come essi dovettero capir subito, che per la spedizione non esisteva più nulla se la battaglia non veniva pronta e la vittoria piena e sicura. Garibaldi si era proclamato Dittatore; a Lui, quasi con aria medievale, erano corse e avevano reso omaggio le squadre d’insorti dalle parti di Trapani, Mazzara, Sciacca, armate di schioppi da caccia a due canne, a una canna, lunghi da tirar nelle nubi; ma i più non portavano che delle picche. Erano corse a lui venuto d’oltremare, come un cavaliere del Santo Graal, a chiudersi nell’isola; e quel giorno gli davano campo franco.
Camminavano adunque i Carabinieri genovesi alla testa della colonna, e innanzi, loro comandante, andava Antonio Mosto, che mostrava più anni assai di quelli che aveva. Barba piena e lunga, portamento incurante di parere, sguardo acuto ficcato lontano traverso gli occhiali a suste d’oro; era qualcosa tra un asceta e un archeologo che da quelle parti andasse cercando ove fu Segesta. Quel che valesse per fegato e cuore, chi non lo sapeva, lo indovinava.
A fianco al Mosto e suo luogotenente marciava Francesco Bartolomeo Savi, uomo piuttosto sopra che sotto la quarantina, filosofo e classicista, mazziniano come lui, per altezza di sentire, e austerità di vita uno dei più somiglianti al Maestro.
Il manipolo non aveva altri ufficiali. Ma contava un furiere come Giuseppe Belleno, due sergenti come Antonio Burlando e Stefano Canzio, due caporali come Stefano Cervetti e Giuseppe Sartorio, dei quali si può parlare senza tema d’adulare neppure i due che vivono ancora, perchè chi li conobbe sa quali prodi furono e s’inchina volentieri al loro valore.
Dovevano sentirsi d’animo ben sicuro i militi di quel manipolo, inquadrati in quella cornice! Dall’anima severa del Savi a quella ingenua e quasi femminea del Sartorio, dalla parola grave del Mosto a quella scintillante e balillesca del Canzio, c’erano tutte le note della vita. E tutti erano giovanissimi quei Carabinieri, tutti, eccetto che il sergente Burlando che aveva trentassett’anni e Luca Delfino, che, nato nel 1807, si era messo ancora a quella prova da semplice gregario, come uno che avesse voluto andare a morire d’una palla, piuttosto che invecchiare sin chi sa quando e finire in un letto. Veramente l’idea della patria gli aveva mantenuta la giovinezza, ed era andato laggiù per amore. Degli altri soltanto due toccavano i trenta, Onesto Faccini e Domenico Finocchietti; i più giovani non avevano o passavano appena i venti anni, come Capurro, Carbone e Stefano Dapino biondo e bello e di gentile aspetto; quasi fanciullo era il Galleani minore, che aveva appena diciassette anni, e andava a fianco d’un suo fratello che n’aveva poco più di venti. Marciavano per la valle, e vestiti come tutta la spedizione dei loro panni alla paesana, sotto un certo aspetto potevano parere un corteo nuziale: parlavano il loro dialetto che a momenti scatta di collera, ed era così caro e parlato così volentieri da Garibaldi, che l’addol civa, mentre sulle labbra di Nino Bixio guizzava come la saetta. E forse pensavano che se oltre il Mosto e il Savi avessero avuto alla loro testa anche Nino, la loro piccola compagnia sarebbe stata legione. Del resto Nino c’era, anzi se lo sentivano dietro, lì alle spalle, capitano della prima compagnia dei Cacciatori dell’Alpi. Dunque per quel momento era come fosse stato con essi; in qualunque circostanza vicino o lontano, nella battaglia, con essi sarebbe stata, se non la spada, l’anima di lui.
Ecco il villaggio di Vita, ecco le Guide che tornano di trotto a dire che il nemico è in posizione, ecco il colle. Salgono; e di là da quel colle vedranno. E coi Carabinieri salirono tutti.
Agili, sereni, sicuri si piantarono in faccia ai Napolitani, sul pendio del colle che fronteggia quello del Pianto dei Romani, dove i nemici formicolavano.
Si piantarono ed aspettarono. Avrebbero voluto lanciarsi come falchi; però il Generale avea ordinato di non far fuoco; egli stesso guardava aspettando. Chi sa che cosa passava in quel momento nella sua mente? Ma la sua volontà era legge. E però, quando i superbi Cacciatori napolitani dell’ottavo battaglione discesero dal Pianto dei Romani a provocare, e cominciarono a tirare dal basso in su contro le prime linee di Garibaldi, i Carabinieri stettero un pezzo muti a quel fuoco, quasi studiando l’abilità dei tiratori nemici; poi cominciarono essi coi loro colpi infallibili. Pochi tiri, ma tutti al segno. I Cacciatori napoletani oscillarono. E allora giù, balzando come tanti tigrotti dal covo, giù si lanciarono alla baionetta i Carahinieri, e dietro ad essi tutte le compagnie.
O gran giorno, o immortali quelle tre ore del combattimento! Ma se fosse stato perduto? Si accapriccia il cuore, immaginando Garibaldi vinto, i suoi a squadre, a gruppi, rotti, messi in caccia, uccisi per tutta quella terra da Calatafimi a Salemi, lontano, lontano; gli ultimi ad uno ad uno, chi qua chi là, scannati come fiere, fin sulle rive del mare; e la testa del generale mandata a Napoli, che la potesse vedere e finisse di tremare quel Re! Si raccapriccia. E forse l’Italia non si sarebbe fatta mai più.
Felici allora, ben felici si sarebbero potuti chiamare i trentun morti combattendo, che almeno non avrebbero vista la gran tragedia; trentuno, chè tanti furono su mille i caduti a Calatafimi, oltre a centottantadue feriti. E tra quei feriti ve ne erano dieci dei Carabinieri genovesi, e tra quei morti cinque di essi. Erano Belleno, Sartorio, Casaccia, Fasce e Profumo. Quindici caduti su quarantatre! Nè questo vuol dire che non sapessero combattere, guardarsi, risparmiarsi, studiar di cader il più tardi che si potesse nella battaglia. Anzi! Forse, come disse Garibaldi, non vi fu mai fatto d’armi combattuto da soldati più sapientemente di quelli. Ma senza descriverlo importa ricordare che a quei Carabinieri, alle loro carabine infallibili, si dovette in gran parte la bella vittoria. Suona ancora all’orecchio di chi v’era lo squillo del Carabelli trombettiere dei Carabinieri, che durante il combattimento non cessò un istante di suonare. Pareva il Miseno di Virgilio. Squilla, squilla ancora la sua tromba nella memoria di chi la udì, ed egli è morto che sarà un anno.
Da quel giorno, Carabiniere genovese fu titolo d’onore. Ch’io sappia di quei di Calatafimi ne vivono ancora quindici, ma quando ricordano la loro giovinezza e quel giorno, devono sentirsi alteri nella coscienza anche pei loro compagni morti sul campo a Calatafimi, a Milazzo, al Volturno e poi e poi.
Brescia, 15 maggio 1893.