Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro IV/Capitolo VIII
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO OTTAVO
§ I.
La viva gioia che palpita nel cuore del marinaro, quando, dopo i pericoli di una lunga navigazione, rivede la patria, fu d’un colpo repressa dall’aspetto della pubblica mestizia. L’angelo protettore della Castiglia, Isabella, la Regina adorata, era presso a morire di lenta malattia.
Nonostante l’ardore che lo avrebbe immantinente fatto correre a Medina del Campo, stanza della corte, l’Ammiraglio fu costretto di fermarsi a Siviglia, precipua sede de’ suoi nemici. I suoi patimenti ve lo trattennero in un’osteria. I rari amici che aveva in quella città n’erano allor assenti: perfino il suo ammirator fedele, il dotto teologo padre Gaspardo Gorricio, aveva per breve tempo abbandonata la Certosa delle Grotte. La stagione malinconica aggravava i suoi patimenti: aveva preso stanza in quell’osteria come un qualsia straniero in quella città diventata sede degli affari delle colonie. Durante la sua assenza, gli uffici della marina erano stati organizzati. L’Ammiragliato delle Indie costituiva un vero ministero della marina e delle colonie, di cui era presidente il vescovo Juan Fonseca, implacabile avversario del grand’Uomo: quel ministero si denominava col nome di Palazzo della Contratacion.
Colombo, il quale aveva sperato di potersi alla perfine riposare delle sue fatiche e delle sue cure, si trovava per tal modo, e suo malgrado, spinto sotto la mano de’ suoi persecutori. I marinai che per commiserazione aveva condotti a sue proprie spese, e fra’ quali aveanvi antichi ribelli, non potevano ottenere dagli uffici della marina il pagamento del loro salario. Conoscendo la sua generosità, importunavano l’Ammiraglio coi loro richiami, nella ferma persuasione che non tralascerebbe di far valere i loro diritti. Obbligato a stare in letto, impedito da’ suoi dolori, scrivendo a gran fatica, egli sapeva che gli emissari de’ suoi nemici, i ribelli che avevano attentato alla sua vita, erano liberi e accolti alla corte, ove andavano arricciati, e olezzanti di odori e di muschio, secondo la sua propria espressione, a mostrare le loro barbe impudenti1, ed a macchinare contro di lui, mentre i documenti del loro processo erano rimasti sulla nave, che uscita appena dal porto dovette rientrare a San Domingo per rifornirvisi di alberi. Colombo scriveva ai Re affine di prevenirli di quanto er’avvenuto: scriveva al tesoriere Morales e, per timore che prestasse orecchio alle calunnie dei Porras, mandavagli copia degli scongiuri co’ quali i ribelli, sollecitando il suo perdono, si erano obbligati a obbedirgli. Si rivolse altresì al dottore Angulo, ed al licenziato Zapata, segretario della corte, per attenuare l’effetto delle accuse dei Porras.
Oppresso da’ suoi dolori fisici, l’Ammiraglio pativa altresì del più vivo patimento morale che potesse straziare uman cuore: sapeva in preda ad un male incurabile l’eroica Donna che lo aveva compreso, e si era fatta sua protettrice, e sua amica: egli non poteva in quel terribile contrattempo nè parlarle, nè scriverle: non osava nemmeno richiamarsi direttamente alla sua memoria; era morta la virtuosa donna Juana della Torre, la sola, forse, che avrebbe avuto il coraggio di parlar di lui alla moribonda Isabella. Ogni settimana giungevano a Siviglia corrieri della Corte, e le notizie da lor recate straziavano la grande anima dell’Ammiraglio, e secondo la sua propria espressione «gli facevano drizzare sul capo i capelli2.
Ahimè! quando Colombo sbarcava, ogni speranza già si era dileguata.
La Regina si trovava a Medina del Campo, quando sentì i primi assalti della malattia, i cui progressi non si arrestarono più: gli uni l’attribuivano ad una irritazione cagionata dalle fatiche dell’equitazione durante la guerra3; gli altri, alle afflizioni prodotte dalla morte successiva del principe don Giovanni, di sua figlia primogenita, l’infanta Isabella; di don Miguel, e i contrasti interni che rendevano cotanto infelice sua figlia donna Juana, sposatasi coll’arciduca Filippo il Bello. Tutti questi motivi insiem uniti peggiorarono crudelmente il suo stato4. L’energia della sua volontà dovette cedere a poco a poco all’indebolimento delle sue forze fisiche: dovette sospendere una parte delle sue ordinarie fatiche. Tuttavia consacrava ancora ogni giorno alcune ore agli affari del regno. In tale stato ricevette la lettera dell’Ammiraglio, scritta il 7 luglio 1503 dalla Giammaica, portata miracolosamente da Diego Mendez alla Spagnuola, e di là in Castiglia.
La Regina non aveva aspettato l’arrivo di questo bravo scudiero per occuparsi dell’Ammiraglio. Mentr’egli languiva abbandonato sulle coste della Giammaica, Isabella davagli segno della sua costante memoria nominando guardia del corpo suo figlio primogenito con un salario di cinquantamila maravedis all’anno5. Poco appresso, ella scrisse due volte al governatore Ovando, perchè conservasse intatti i diritti dell’Ammiraglio6, conforme alle reali stipulazioni; indi aveva conceduto a suo fratello don Diego Colombo lettere di cittadinanza spagnuola, affine di poterlo investire di qualche benefizio7.
Isabella volle ammettere alla sua presenza il pio e fedele servo di Colombo: udì i particolari di quella navigazione, contro la quale parevano essersi collegate tutte le potenze dell’aria: ultima lotta del rivelatore del globo contra forze, dianzi ignote, della natura, spedizione unica pei pericoli e pei patimenti, contro cui si erano raccolti tutti gli attacchi dell’atmosfera e cumulati tutti i rigori del mare. Ella riseppe da Diego Mendez la scoperta delle miniere d’oro di Veragua, la ricerca ostinata dello stretto, che non si era trovato per difetto di navi in istato di continuare l’esplorazione delle coste, ma la cui apertura in un luogo più lontano era confermata dall’esistenza nuovamente riconosciuta di un mare oltre la terraferma. La Regina seppe dalla bocca di quel valentuomo lo stato della colonia, ove aveva passato nove mesi suo malgrado; ella seppe le stragi di Xaragua, quelle dell’Higuey, la schiavitù orribile a cui serviva di pretesto il lavoro delle miniere: conobbe il fine lamentevole della poetica regina di Xaragua, la nobile e ospitale Anacoana. Il suo cuore fu oppresso d’amarezza a quelle orribili particolarità; e nella sua indegnazione disse al presidente di giustizia don Alvaro, parlando di Ovando: «io lo destino a tal posto che non sarà mai stato occupato8.»
A premiare l’attaccamento del valoroso Mendez9, che l’Ammiraglio aveva fatto capitano di vascello, essa volle sollevarlo alla nobiltà, e dargli, insiem colle lettere patenti, uno stemma che avesse a perpetuare la tradizione del suo eroismo.
In breve il mutamento avvenuto nella persona d’Isabella si rese palese a tutta la corte. Per la cura di una malattia, la cui causa era interna ed organica, i consulti della medicina furono sempre esterni e verbali. Il pudore della Regina non permise mai alcuna delle esplorazioni chirurgiche che si usavano, ed erano necessarie nel suo stato: i mezzi dell’arte non furono che accessorii per lei. Dopo che fu dichiarata la malattia, durò cento giorni senza interruzione10.
La sollecitudine de’ popoli per la loro Sovrana fu estrema. Le chiese erano sempre stivate di una calca piangente che indirizzava al cielo preghiere11: furono annunziati digiuni, si celebrarono novene, si offerse il Santo Sacrifizio, e molto si pianse, perchè la Regina era l’onore, la gloria, la protezione di ogni famiglia castigliana: ella personificava la delegazione del potere divino nella dignità regia: la potenza immacolata del suo nome riassumeva l’autorità materna della corona. Tocca Isabella dall’iniziativa de’ suoi popoli, non pose ostacolo alla loro pia sollecitudine: ma quando ebbe riconosciuta l’inefficacia di que’ voti, porgendo l’esempio di un’assoluta rassegnazione alla volontà di Dio, ordinò che cessassero le preghiere pubbliche per la sua guarigione, volendo si pregasse solamente per la salute dell’anima sua.
Come avviene spesso in simili casi, la malattia pigliò in quel periodo il carattere idropico12; la Regina avversava ogni specie di alimenti, e sentivasi arsa da sete inestinguibile13. L’esacerbazione de’ patimenti locali non iscemava in nulla i dolori che provava in tutte le articolazioni.
Tre giorni prima della sua morte Isabella aggiunse un codicillo al suo testamento, fatto il 12 precedente ottobre. Un sentimento di pudica sollecitudine le fece prevedere e vietare pel suo corpo le cure dell’imbalsamamento preventivo alle esequie dei sovrani: non volle che neppure la morte potesse abrogare quella legge di sospettosa decenza che fu la casta regola della sua vita. Per umiltà vietò altresì di consacrare alla sua sepoltura alcun monumento sontuoso. Correva voce alla corte che Isabella aveva fatto promettere al Re di rivocare e castigare Ovando, il quale si era bruttato del sangue degli Indiani; di proteggere que’ popoli lontani, ch’ella aveva tanto desiderato raccogliere sotto lo stendardo della croce, e di rintegrare nei suoi diritti, titoli e governo il Vice-re delle Indie, don Cristoforo Colombo. Questa voce era perfettamente fondata. Si diceva altresì a Siviglia che la Regina aveva parlato di Colombo nel suo testamento14; ma questo era un errore. Motivi di prudenza le imposero un silenzio, che, lungi dal provar oblio, faceva testimonianza di fedele memoria; si astenne da ogni disposizione in favore dell’Ammiraglio nell’interesse medesimo di lui: egli aveva già troppi nemici, ed ella temeva d’invigorire a suo danno l’odio del Re.
Mentre egli esponeva la sua vita in pro della Castiglia, nel tempo stesso in cui naufragava alla Giamaica, gli uffici di Siviglia, sentendosi favoreggiati da un’alta influenza, dimandavano alla Regina, allora impedita dalla salute, di spedire colla consueta prontezza gli affari, di eleggere presso di sè qualche persona di confidenza, a cui volgerebbonsi per ciò che risguardava l’amministrazione delle Indie e le imprese nei mari d’Occidente. Una lettera scritta in Alcala il 5 luglio 1503, in risposta agli uffici della marina, manifesta le importunità e le male arti de’ persecutori del grand’Uomo. Essi presentavano emoli concorrenti in violazione dei diritti e dei trattati dell’Ammiraglio: senza gradirli, la Regina elesse per ricevere comunicazioni di questo genere, Ruyz di Castaneda, segretario della camera reale15.
Finalmente, venendo meno le sue forze, Isabella vestì l’abito del terz’ordine di san Francesco16, di cui seguiva la regola da più anni, e ricevette con tutto l’ardore della sua pietà il santo Viatico. Ella fu dolce colla morte. La fermezza reale e la grazia femminina accompagnandola sino al fine, duravano associate presso al suo letto di dolore. L’oppressione delle sue membra, l’indebolimento di tutto quel povero corpo così segretamente torturato, le sue palpebre chiuse rendevano la sua agonia simile al sonno della tomba. Le furono recati gli ultimi soccorsi della Chiesa. La sua immobilità era completa. Ma quando si venne a scoprirle i piedi per la santa unzione, un fremito improvviso agitò la moribonda: il pudore sopravviveva all’annichilimento; ella fece un gesto, ricuperò le sue forze per ritrarre e coprirsi i piedi17, cui nessun occhio, neppur quello delle sue cameriere, aveva unqua veduti ignudi.
La lotta contro la distruzione durò alcune ore ancora, e il martedì 26 novembre 150418, verso il mezzogiorno19, quella squisita essenza di tutte le virtù esalò verso Dio.
E insiem con lei si eclissò la gloria e la felicità delle Spagne.
§. II
Durante quel tempo un’angoscia crudele agitava l’Ammiraglio: egli tremava all’idea di perdere la Regina, l’anima delle scoperte, la patrona delle Indie, la protettrice del vero e del giusto, l’imagine del bello e del buono, l’ideale della superiorità regia. Egli indirizzava alla Santa Trinità20 i suoi voti per la conservazione della vita di Isabella.
Fin dal suo arrivo a Siviglia, Cristoforo Colombo aveva combinato un mezzo di andare a Medina del Campo. Fuor di stato di sopportare il passo del cavallo e le intemperie della stagione, imaginò di farvisi trasportare a braccia. Ma una seggiola portatile di dimensione ordinaria non avrebbe potuto convenire al suo stato di continuo dolorare; e per evitare i ritardi, risolvette, cotanto era ardente il suo desiderio, di fare il tragitto nella lettiga dei morti, quella che fu adoperata per portare il defunto ultimo arcivescovo-cardinale don Diego Hurtado de Mendozza. L’Ammiraglio pregò il consiglio capitolare di Siviglia, di volergli prestare quella lettiga funebre, poichè il suo stato non gli permetteva altro modo di trasporto. Si vede negli archivi della cattedrale, che fu tenuto un consiglio il 26 novembre 1504 dal Capitolo ad effetto di deliberare sulla dimanda dell’Ammiraglio delle Indie21. Nondimeno, a malgrado del loro desiderio di compiacere a Colombo, siccome la povertà notoria dell’Ammiraglio non assecurava i Signori del Capitolo contro i guasti e il deterioramanto che potrebbero esser fatti alla lettiga negli accidenti della strada, il prestito del feretro mortuario non fu consentito che alla condizione che Francesco Pinelo, tesoriere della marina, si obbligasse esso medesimo a far riportare il detto feretro alla cattedrale in buona condizione22.
Colombo disegnava allora di seguir la strada molto più lunga, ma più comoda della plata o via d’argento, l’antica strada romana che da Medina conduce a Salamanca. Però non potè partire: che il peggioramento del suo stato e il rigore insolito del freddo lo impedirono di uscire dal letto.
Il carteggio stesso dell’Ammiraglio fa conoscere che ogni settimana giungevano a Siviglia messaggeri della corte. Nondimeno, il 3 dicembre Colombo ignorava ancora la gran calamità, e preparava la partenza di suo fratello don Bartolomeo, di suo figlio Fernando, e del zelante Corvaial: pregava per l’angelica Sovrana, quando già essa aveva ricevuto il premio celeste delle sue opere egregie.
Finalmente egli conobbe la sua sciagura!
Chi sarà che possa dire il dolore di quel cuore eroico, e l’amarezza del suo cordoglio senza nome? Il padre che perde la figlia unica non prova nelle viscere strazio più acuto. Per dipingere questa inenarrabile afflizione, bisognerebbe poter misurare nella sua sublimità l’attrazione di due anime che la Provvidenza aveva predestinate a elaborare la più grand’opera della specie umana. Per la sua immensità il dolore di Colombo toccava all’infinito; il suo patimento molteplice era vasto come lo spirito che animò quel corpo di regina improntato di una indelebile maestà: era lo spezzamento di una simpatia superiore, radicata nella tenerezza dell’anima, nata al soffio lirico dell’entusiasmo per la natura, fecondata dagli splendori della fede, e vivificata in Cristo, che n’era il principio, la salvaguardia e il fine immortale.
L’uomo che aveva addoppiata la creazione, e misurato l’Oceano, non poteva misurare l’immensità della sua perdita.
Il suo unico sostegno in questo mondo era caduto. Egli aveva perduto più assai di una protezione, di una sovrana; aveva perduto la sua amica. Si, la Regina amava con filiale tenerezza e onorava con rispettosa deferenza l’uomo che Dio avevale mandato per raddoppiar lo spazio noto della creazione. Isabella ritrovava in Colombo le sue proprie doti, vale a dire le sue eminenti virtù. Ell’ammirava inoltre quella modestia d’eroe, quella semplicità di santo, quella schiettezza di fanciullo e di poeta, verginalmente conservata da quel patriarca dell’Oceano in mezzo alle vicissitudini degli anni e delle sue favolose fatiche. Ell’amava il contemplatore della creazione, che presentiva le leggi della natura, e ne’ suoi pittoreschi trattenimenti le fidava con gran calore i segreti delle sue percezioni coll’eterna freschezza d’ispirazione e di linguaggio proprio del genio dell’Ammiraglio. Un rispetto involontario inclinava la grande Isabella, tanto venerata, dinanzi a quel vecchio, il quale respirava la possanza, traspirava il sublime, e raggiava, sin da questo mondo, dell’impronta dell’immortalità.
Ella sola vedeva chiaramente queste grandezze; essa sola provava il rispetto che imponeva la sua missione provvidenziale. Perocchè, eccettuate le anime elette, alcuni vescovi, alcuni religiosi, il rimanente degli Spagnuoli non iscorgeva in lui che un alto magistrato di mare che serviva la corona in terre straniere, un ammiraglio in oceano poco conosciuto, cui la origine genovese rendeva sempre un po’ sospetto. Ella sola aveva sostenuto i suoi disegni, la sua amministrazione contro gli uffici della marina, contro i cortigiani e i consiglieri, contro la voce pubblica, contro il Re medesimo, e non aveva ceduto che una volta all’illusione delle apparenze; perocchè bisognava che l’imperfezione umana, che la debolezza della donna pur apparisse nel corso di quest’amicizia senza pari: ma aveva riparato il suo errore versando segretamente lagrime di tenerezza e dolore sulla sciagura ond’era stata complice involontaria.
Per l’anima ardente di Colombo, un tale istante di fiacchezza non era esistito: vedeva sempre nell’incomparabile Isabella il tipo della purezza, della costanza e della fedeltà alla parola, il fiore delle grazie umane, e la poesia dell’umanità23. A chi potrà egli oggimai narrare i rapimenti che suscitavano in lui le maraviglie delle regioni sconosciute? Per chi vorrà intraprendere nuove scoperte? Chi lo seguirà ora col pensiero e gli saprà grado delle sue lontane fatiche? Chi verrà in suo aiuto per recare finalmente ad effetto lo scopo definitivo delle sue speranze, la redenzione della tomba del nostro Salvatore?
Quando egli ebbe compreso che la sua sciagura era compiuta, che la Regina era morta, Colombo sentì gelarglisi il cuore. La sua desolazione rimase muta come la tomba. Il suo dolore inesprimibile non cercò effusioni, e s’inabissò nel silenzio di uno strazio infinito. Solamente è noto che i suoi fisici patimenti si addoppiarono crudelmente. E, sempre così duro e laconico in ogni cosa risguardante la propria persona, confessa nella sua prima lettera al figlio, che fa un grande sforzo nello scrivere in quel momento a «cagione del male spaventevole» che prova24.
In quel medesimo tempo, il più illustre guerriero della Spagna, Conzalvo di Cordova, aveva anch’esso l’anima traffitta dal dolore; le lagrime solcavano il volto del gran Capitano. Quella morte lo sprofondò in una indicibile afflizione25. L’elegante latinista della corte, Pietro Martire d’Anghiera, scriveva all’arcivescovo di Granata: «la mia destra vien meno pel dolore; nondimeno mi sforzo di scrivere... La Regina ha esalato la sua anima immensa, segnalata dall’eccellenza delle azioni! La faccia della terra è priva d’un’ammirabile ornamento sin qui senza esempio.....26.
Appena fu ritirato da questo mondo quel tipo di onore, di unione e di fiducia, riapparve subitamente lo spirito di discordia. Diffidenza e malcontento occuparono le alte ragioni della corte; le fronti si oscurarono; gravi inquietudini assalirono gli uomini di pace e di preveggenza; la politica si diede in braccio al machiavellismo; le mediocrità gelose, le astute ipocrisie rialzarono il capo; i buoni e i giusti diventarono sospetti; mentre nelle campagne corse il presentimento di calamità impensate.
Parvero mutare perfino gl’influssi celesti. Intemperie eccessive, disordini atmosferici contrassegnarono quell’epoca di corruccio e lamentazioni. Negre nubi velavano l’orizzonte; il sole non si mostrava più: pioggie incessanti guastavano le terre, le strade, e cagionavano innondazioni. Tutte le pianure andarono sott’acqua, e le sementi marcirono, il che produsse una generale carestia. ll feretro della Regina, condotto a Granata, secondo la sua volontà, per poco non fu portato via dalle correnti. Il cappellano del Re, incaricato di dirigere il funebre convoglio, dice che non si era mai veduto a memoria d’uomini un simile diluvio: più fiate corse rischio della vita in quel lugubre tragitto27. Le lettere dell’Ammiraglio accennano al cattivo stato del mare, che riteneva le navi nel porto di San Lucar, e l’inondazione di Siviglia per lo straripamento del Guadalquivir28. La miseria, le dissensioni, la fame, e la violata giustizia chiarirono in breve che la Regina non era più di questo mondo. La Spagna si trovò in procinto di cadere nella confusione, e il suo territorio di dividersi.
Ma noi ci dobbiamo ristringere alla parte di questi avvenimenti che riguarda l’Ammiraglio.
§ III.
Dacch’era sbarcato, Colombo non poteva uscire dal letto, nè servirsi delle sue mani, sopratutto durante il giorno, a motivo di una debolezza che gl’impediva di tenere la penna, e non gli permetteva di scrivere altro che la notte29: era, obbligato di rubare alle ore del sonno quelle del suo carteggio e della discussione degli affari. Nondimeno la sua attività di spirito in mezzo a’ suoi dolori desta anche oggidì maraviglia.
Fin dal suo arrivo, aveva saputo che il Sommo Pontefice, Giulio II, il quale sapeva certamente i rapporti esistiti fra’ suoi predecessori e il rivelatore del Nuovo Mondo, si lamentava di non ricevere da lui alcuna notizia delle Indie: onde fece al Capo della Chiesa una relazione sulle sue scoperte. Ma, temendo che queste comunicazioni officiose colla Corte Pontificia non dessero motivo a nuove accuse, prima di spedire quel documento a Roma, stimò prudente darne copia al Re ed al nuovo arcivescovo di Siviglia, il domenicano Diego de Deza, suo amico, e stato suo difensore nella celebre conferenza di Salamanca.
Nondimeno ciò che riesce ammirabile più ancora, della sua forza morale, e della sua pazienza in mezzo a tante prove, ella si è la sua generosità di carattere, e la perfezione evangelica della sua carità che gli fece prendere a proteggere i marinai che aveva ricondotti, una parte dei quali aveva pur attentato alla sua vita: non si limitò a perdonar loro: per provvederli dei mezzi di rientrare in patria, dovette spendere milledugento castigliani della somma da lui esatta a San Domingo. Giungendo a Siviglia, nella sua prima lettera, raccomandava vivamente alla sollecitudine dei Re questi uomini, la cui paga era scaduta, ed il bisogno appariva estremo. Alcuni giorni dopo ricordava da capo alla corte le loro necessità, la loro miseria. Il 28 novembre raccomandava a suo figlio Diego di parlare in favor loro30; e senza timore di essere importuno colla sua insistenza, il l.° dicembre ricominciava a scrivere in lor favore.
Siccome gli uffici, non ostante le doglianze de’ marinai e le istanze delle loro famiglie, non davano evasione al loro affare, nel punto ch’egli non poteva mandare che centocinquanta ducati a suo figlio, e gli raccomandava di usarne con parsimonia, faceva altresì, non ostante le sue strettezze, un’anticipazione a quegl’ingrati; e quando, stanchi di supplicare invano gli uffici sordi ai loro richiami, si decisero d’indirizzarsi al Re medesimo, egli diede loro una lettera per l’arcivescovo di Siviglia; incarico suo figlio, suo fratello l’Adelantado, e Alonzo di Carvajal di aiutare coi loro consigli quegl’infelici, quantunque fra loro ve ne avessero alcuni, diceva egli, piuttosto meritevoli di castighi, che di ricompense, lo che si riferiva ai ribelli31.
Nè qui si limitava la sua sollecitudine: si occupò a far levare gli ostacoli messi fuori dagli uffici nella spedizione di tutti gli affari che lo risguardavano, e mandava egli stesso alla corte i fogli regolari di pagamento fatti dal suo fedele Diego Mendez.
Ma questa energia di suppliche in nome dell’umanità e della giustizia non veniva impiegata da lui pe’suoi propri interessi: si limitava a ricordare i suoi servigi e gli obblighi che la corona aveva contratti verso di lui. Egli aveva fatto tutto quello che il suo stato permetteva di fare. Fin dal suo arrivo a Siviglia, aveva scritto ai Re per annunziare il suo ritorno, e prendere i loro ordini. In tale occasione il re Ferdinando disse a suo figlio don Diego, guardia del corpo, cortesie, che, nella sua purezza di cuore il giovine credette sincere e trasmise al padre. Ma nel mandare al Re il suo dispaccio, l’Ammiraglio aveva aggiunto una memoria in forma di «lunghissima lettera» sull’amministrazione delle Indie, nella quale esponeva qual era propriamente lo stato della colonia, l’origine dei mali, e indicava quali rimedi fossero indispensabili: alla qual memoria non fu data risposta.
L’Ammiraglio scrisse di nuovo e inutilmente.
Il 12 dicembre, indirizzò una nuova lettera al Re, la qual pare che non abbia avuto miglior sorte delle precedenti.
La sciagura che aveva percosso la Spagna poteva aver fatto trasandare queste lettere dell’Ammiraglio; ond’egli non s’insospettì di tal silenzio: scrisse ripetutamente a suo figlio Diego, che instasse per ottenere risposta.
Ma tutto fu vano.
Nonostante quel silenzio del Re, venuto a sapere da qualche persona degli uffici di Siviglia, probabilmente da Francesco Pinelo, che si volevano in breve fondare tre vescovadi nelle Indie32, dimandò di essere udito: prima che si decidesse definitivamente tal cosa.
Anche a ciò nessuna risposta.
Nel dicembre, Colombo scrisse di nuovo a suo figlio: e non si ristrinse a questo solo il desiderio dell’Ammiraglio. Seppe dalla voce pubblica che le presentazioni erano state fatte e gradite secondo la forma ordinaria. Allora dimandò che si ritardasse almeno la partenza dei vescovi33 finch’egli avesse parlato al Re; correva il 18 gennaio. Sicuramente, anche questa dimanda sarebbe stata messa da parte, se la cosa fosse dipenduta solo dalla corte: sendochè il dì medesimo, il corriere recava a Siviglia, da trasmettersi al governatore di Hispaniola, nuove istruzioni di cui l’Ammiraglio ignorava il suggetto.
Ma in quella che l’Ammiraglio languiva disgraziato, infermo, e povero nella città calunniatrice, diventata per lui una nuova Cedar34, il Capo della Chiesa, che pigliava sul serio la vice-reggenza dell’Araldo della Croce, si maravigliava come in questa creazione di vescovadi, motivata da rapidi progressi della conversione degli indigeni, il Vice-re delle Indie non avesse pronunziata alcuna opinione, nè fosse fatta parola di lui. Questo silenzio di Colombo, e sopra Colombo, Porta-Croce del Cattolicismo, parve sospetto.
Alla Corte Pontificia non erano ignote nè l’invidia nè le persecuzioni ond’esso era oggetto. Questa creazione di un arcivescovado, e al tempo stesso di due vescovadi, per rispondere ai bisogni improvvisi dei tre centri delle popolazioni indiane sollevò gravi dubbi nella Cancelleria Romana. Incontrastabilmente i tre vescovi proposti offrivano tutte le guarentie desiderabili di pietà e di ortodossia: erano il padre Francescano Garcias di Padilla, il dottor Pietro de Deza, nipote del Domenicano arcivescovo di Siviglia, e il licenziato Alonzo Mansa, canonico di Salamanca35: onde queste elezioni furono gradite alla Santa Sede. Nondimeno, nella sua prudenza, essa non fece la spedizione della Bolla, sin a più ampie informazioni: così la Corte di Roma esaudì, come se gli avesse uditi, i voti dell’Ammiraglio, che il re Ferdinando aveva rigettato: intanto i vescovi non partirono.
Se Colombo insisteva cotanto per dare il suo parere intorno a questa creazione di vescovadi, gli è perche la gloria di Dio e l’onore del Sommo Pontefice lo empievano di una pia inquietudine: sentiva chiaro che veniva fatto abuso della lontananza per indurre in errore il Santo Padre, e far servire a fini mondani la sua sacra autorità.
Questa circostanza, che non fu mai notata da veruno storico, merita di essere qui finalmente esposta.
Nella speranza di crescere importanza al suo governo, e dare all’Hispaniola un lustro profittevole a’ suoi disegni ulteriori, Ovando aveva imaginato di sollecitare la creazione di un arcivescovado e di due vescovadi nella sua isola. ll solo fatto di questa proposta chiarisce sufficientemente qual era lo zelo religioso, e quale l’abilità amministrativa di costui.
Dimandava, dunque, l’erezione dell’arcivescovado di Xaragua, avente a suffraganei i vescovi di Larez e della Concezione.
Ovando trovava un interesse speciale a far erigere in sede episcopale il villaggio di Larez, fondato sotto i suoi auspicii, e che contava da sessanta abitatori. Con questo mezzo sperava attirarvi coloni, ed eternare la sua impresa. Rispetto alla Concezione, in cui si erano allogate circa centocinquanta persone, protette dalla soda fortezza che vi aveva costrutto l’Ammiraglio, il vescovo avrebbevi trovata dicevole residenza: erale dato nome di città: il luogo presentavasi salubre e sicuro.
Per ciò che risguardava l’arcivescovado, pareva cosa molto naturale di fondarlo a San Domingo, capitale della colonia, la qual possedeva una cittadella, un porto militare e la più gran terra dell’isola. Ma quantunque Ovando avesse desiderato la creazione di una sede metropolitana, per crescere lustro al suo governo, pure il suo carattere ambizioso e dominatore gli faceva temere la presenza di un’autorità superiore e indipendente, la quale avrebbe potuto restringere e censurare le opere sue: propose eppertanto di stabilire l’arcivescovado a Xaragua, luogo lontano dalla capitale settanta leghe fra monti e valli, senza strade, senz’abitazioni, e senza abitatori possibili. Xaragua. dolorosa imagine, orribile rimembranza che Ovando non avrebbe mai dovuto evocare! terra incendiata dopo la strage! cumulo di rovine e di ceneri, abbandonato al silenzio della diserzione e dello spavento!... Un arcivescovo er’allora a Xaragua tanto utile ai bisogni religiosi, quanto potrebb’essere oggidì uno nella foresta di Bondì, nella Sierra-Nevada, o nelle paludi Pontine.
Nonpertanto, una tale proposizione era stata esaminata, pesata e approvata da don Juan Fonseca, presidente degli affari coloniali. Ecco in qual modo questo vescovo meramente titolare provvedeva al servizio di Dio all’Hispaniola. Egli aveva osato dire che il Cristianesimo faceva gran progressi nelle Indie, perchè l’idolatria andava ogni giorno scemando. L’idolatria, diffatti, vi diminuiva, perchè gl’Indiani scomparivano: le stragi, le uccisioni in massa, gli assassinii, le morti particolari e arbitrarie, e i lavori delle miniere affrettavano la distruzione degli indigeni, e così a poco a poco veniva meno l’idolatria. Ma il Cristianesimo guadagnava per questo una qualche anima? Ecco perchè Colombo veniva respinto; perchè i traffici vergognosi, e le turpitudini sanguinarie abborrivano la sua chiaroveggenza.
Le osservazioni di Colombo furono segretamente comunicate da parte sua al Nunzio Apostolico.
Nè si limitò a questo la sollecitudine evangelica dell’Araldo della Croce.
Nonostante le sue strettezze, e le sue angustie giornaliere, tentando un ultimo sforzo, col mezzo delle firme di Francesco Ribarol, di Francesco Grimaldi, di Francesco Doria, e delle accettazioni di Pantaleone e di Agostino italiani, i quali mettevano il loro credito a sua disposizione36, riuscì a mettere insieme il danaro per fare un viaggio a Roma, e vi spedì in tutta fretta l’Adelantado, latore di un messaggio particolare pel Santo Padre. Don Bartolomeo, sempre pronto ai desiderii di suo fratello, partì sotto il pretesto di andare a rivedere il suo paese natio, affine di non destare sospetti, e compì rapidamente il suo viaggio. Noi abbiam prove che nel 1504 egli si trovava a Roma, ove tessè la storia del primo viaggio di Cristoforo Colombo, accompagnata da una carta delle sue scoperte, di cui fece dono a un canonico di San Giovanni di Laterano, il quale ne arricchì Venezia per affezione al dotto Alessandro Zorzi37, suo amico, autore della Raccolta, formata sotto i suoi auspicii. Questa particolarità si trova mentovata sopra un esemplare del Mondo Nuovo posseduto dalla biblioteca Magliabecchi.
Il soggiorno dell’Adelantado nella Città Eterna non fu di lunga durata. Partito da Siviglia verso il cadere del gennaio 1505, prima del dicembre era tornato in Ispagna: ma aveva raggiunto lo scopo del suo viaggio. Il Santo Padre ricusò la spedizione dei Brevi. Tutte le istanze dell’ambasciatore spagnuolo presso la Santa Sede caddero a vuoto. Sul Capo della Chiesa l’avviso confidenziale di Colombo prevalse in confronto alle affermative della corona di Spagna e sulle astute arti del carteggio diplomatico. La presentazione ai tre vescovadi rimase come non avvenuta, e trascorsero così diversi anni.
Bisognò che la corte di Spagna riprendesse ab ovo l’affare, e modificasse il suo piano secondo i suggerimenti confidenzialmente comunicati da Colombo al Santo Padre. La pretesa del chimerico arcivescovado di Xaragua fu annullata, anzi l’arcivescovado scomparve per lungo tempo dalla Spagnuola38.
Il freddo eccessivo stancava l’Ammiraglio ed inaspriva i suoi dolori. Egli si trovava altresì inquieto pel suo stato di povertà. Sapeva che alcune caravelle partite da Hispaniola, e che il tempo aveva costrette a riparare in Lisbona, recavano dell’oro, ma che non avevan nulla per lui; mentr’egli credeva di aver a ricevere sessantamila once d’oro39, ch’era l’ammontare de’ suoi diritti, e che il governatore avrebbe dovuto porre in disparte per lui. Perciò, saputa questa mala notizia, scriveva a suo figlio: «Fa grande attenzione alla spesa; questa è una necessità40.»
Riesce facile comprendere l’imbarazzo pecuniario di Colombo. Lasciando stare il suo scotto giornaliero all’osteria, era obbligato di sostenere alla corte i suoi due figli, don Bartolomeo e i suoi inviati Diego Mendez, Carvajal, Geronimo, i quali non riscuotevano neppur essi il loro salario. A que’ giorni era dovuta a suo figlio don Diego una paga scaduta qual guardia del corpo di circa 25,000 maravedis; inoltre, su quello ch’ei doveva riscuotere per suo fratello 59,860 maravedis. L’Adelantado andava creditore di 261,665 marevedis41, e don Fernando di 60,000 per la loro paga di mare. Non sorprende adunque la sollecitudine dell’Ammiraglio obbligato di far fronte a tanti bisogni42. Nondimeno, nè le sue pene morali, nè i suoi dolori fisici alteravano la sua dolcezza, e le sue simpatie per tutto ciò che parevagli degno di stima. ricevette la visita di Americo Vespucci, il quale, chiamato dal Re per affari di mare, veniva a prendere le sue commissioni, vale a dire, sotto pretesto di essergli gradevole, dimandargli qualche lettera d’introduzione. Come è noto, Americo Vespucci, primo fattorino del suo compatriota fiorentino Juanoto Berardi, si era disgustato del commercio, e dato allo studio della cosmografia a misura che le conversazioni dell’Ammiraglio aveano desto in lui un nobile desiderio di conoscere. Egli aveva fatto, con Alonzo di Ojeda e col piloto Juan de la Cosa, un viaggio alla terraferma coll’aiuto delle carte dell’Ammiraglio, delle quali l’ordinatore generale della marina, vescovo Fonseca, aveva loro a tradimento dato copia. E nondimeno l’Ammiraglio non fa caso di tal sua partecipazione più o meno indiretta a questa fellonia: sa che ha viaggiato, osservato, patito senza profitto pecuniario; e siccome in tutte le sue relazioni anteriori con lui Vespucci era stato onestissimo, Colombo, non guardando per minuto, lo giudicava «un uom molto dabbene43,» accettava le sue offerte di servizio, e lo indirizzava a suo figlio don Diego.
Cinque giorni dopo l’Ammiraglio scriveva ancora a suo figlio per raccomandargli che procurasse di ottener la grazia di due uomini sottoposti a processo criminale, e di porre la loro supplica fra quelle che dovevano essere messe sotto gli occhi del Re nella settimana santa44, tempo delle grazie reali. Questa lettera è l’ultima che ci sia giunta fra quelle che l’Ammiraglio indirizzò da Siviglia a suo figlio; la sola che non sia scritta interamente di sua mano.
Sul cominciar del gennaio 1505, riconoscendo l’Ammiraglio che il mal volere della corte gli dava poca Speranza di ottenere giustizia, e pensando che forse la sua persona era la sola che formasse ostacolo all’adempimento de’ suoi desiderii, imaginò di presentar finalmente e, far gradire al Re il Suo primogenito don Diego, qual successore a’ suoi diritti, titoli e privilegi, in virtù dei trattati fatti colla corona di Castiglia nella pianura di Granata, firmati dai due Re, e da essi due volte ratificati con formole solenni. Consigliato da lui, don Diego indirizzò una memoria al Re cattolico per ricordargli i servigi di suo padre, le promesse che gli aveva fatte a viva voce e per iscritto, pregandolo di volerlo rintegrare nel suo governo e nell’esercizio de’ suoi diritti; chiedendo questo atto di equità per sua propria giustizia, e per iscaricare la coscienza della Regina che si era in ciò obbligata. Don Diego lo supplicava di volere, almeno in virtù delle stipulazioni espresse nelle convenzioni reali, nominarlo in luogo, stato e diritti dell’Ammiraglio suo padre, e mandarlo alle Indie, dandogli direttemente, se tale era il sun piacere, consiglieri per assisterlo coi loro lumi nel suo governo45.
A Diego Colombo non venne fatta risposta.
L’Ammiraglio pote credere che questo silenzio procedesse da una irregolarità di forma nella presentazione, e che piacesse al Re di ricevere da lui medesimo l’espressione del suo desiderio: perciò scrisse al Re una breve lettera, franca e insiem rispettosa. Invocando i diritti scritti ne’ trattati, l’Ammiraglio ricorda ch’è stato ingiustamente strappato al suo governo, e che questa ingiustizia fu manifestamente punita da Dio nel suo autore e ne’ suoi agenti, e supplica il Re d’investire suo figlio don Diego, in propria vece, del governo delle Indie. Per mala ventura Colombo, onde commovere il Re, e accelerare la spedizione dell’affare, aggiungeva essere probabilmente le contrarietà cagionate da quegli eterni ritardi la principal cagione della strana e dolorosa infermità che lo rendeva impedito del corpo46.
Ah! una tale confessione diventò la sentenza di Colombo.
Per sì alto che fosse collocato, Ferdinando non lasciava cader niente a terra: i suoi odii erano inoltre indovinati e serviti con arte diabolica. Da quel punto il sistema di andare a rilento, nelle cose che risguardavano l’Ammiraglio, oppresso da patimenti, fu come ordinato, e voluto dal Re medesimo.
Come ben si può prevedere, non fu data risposta alla lettera.
Avendo l’Ammiraglio gran voglia di andare alla corte, nella fiducia che di viva voce affretterebbe i suoi affari, rinunziò al funebre e dispendioso viaggio, che voleva fare in un feretro mortuario. Il tempo si er’addolcito. Egli pensava di poter sopportare il passo di una mula, essendo troppo penoso pel suo stato di patimento quello di un cavallo. Già il 29 dicembre aveva scritto al figlio di ottenere un permesso dal Re di andarne a lui sopra una mula sellata ed imbrigliata47; cosa vietata da una ordinanza del 149448.
Don Diego ottenne tal licenza, che venne firmata a Ciudad de Toro il 25 febbraio49. Ma in quel mentre i dolori crudeli dell’Ammiraglio, raddoppiati dal dispiacere di tali ritardi, e da nuovi rigori della temperatura, lo impedirono muoversi: passò la quaresima a Siviglia, dolorando. Nonostante i suoi patimenti, egli non iscemava le sue mortificazioni, osservava rigorosamente il digiuno quaresimale, e seguiva esattamente la regola dell’Ordine Serafico.
Finalmente le dolci influenze della primavera migliorarono il suo stato. Nel maggio, sostenuto da suo fratello l’Adelantado, e cavalcando una mula, prese la via di Segovia, ove si era stabilita allora la corte. Tuttavia, era tale ancora il suo patire, che, giungendo all’estremità della via detta dell’Argento, cadde di bel nuovo malato a Salamanca. ll fedele Diego Mendez venne a trovarlo ed a prestargli le sue cure50. Dopo alcune altre stazioni dolorose, cagionate dalla gravità del male, Colombo giunse al termine del suo viaggio.
Il Re lo accolse colla sua solita cortesia; ma non gli diede il suo titolo di Vice-re, e non lo fece trattare secondo il suo grado, come si costumava quando viveva la regina: ascoltò il racconto della sua pericolosa navigazione, e con interesse, la scoperta delle miniere di Veragua: lasciò che l’Ammiraglio narrasse il suo forzato naufragio alla Giamaica, l’abbandono in cui lo aveva lasciato il governatore di Hispaniola, la ribellione dei Porras, gli insulti patiti a San Domingo, e non gli diede altra consolazione che quella di poche parole vagamente affabili, che non potevano più ingannare l’esperienza di Colombo: e mentre protestava del suo interesse, e riconosceva i titoli così antichi come incontrastabili dell’Ammiraglio alla gratitudine della corona, il Re trovò il mezzo di terminare la udienza senza aver deciso, e neppur promesso cosa alcuna.
Lasciati correre alcuni giorni, Colombo credette di dover ricordare al Re i servigi da lui resi. Ferdinando gli rispose in guisa oltremodo cortese, che non era possibile dimenticarli. Tuttavia la freddezza dell’accento, che distruggeva l’affabilità delle parole, l’aria imponente da lui presa a bella posta perchè Colombo si conservasse in una circospetta riservatezza, e si astenesse da ogni richiesta diretta che avesse potuto recarlo ad un’aperta dichiarazione, mostravano le vere disposizioni del Re: parlava sopratutto all’Ammiraglio della sua gotta, de’ suoi reumi, gli raccomandava sopra ogni cosa di aversi gran cura, gl’indicava medici, indi con un gesto grazioso lo accomiatava.
Se questo modo di trattare da vecchio imbecille il Rivelatore del Globo, pareva a Ferdinando una faceta accortezza, ciò ch’esso accogliea di crudele dovette profondamente ferire il cuore di Colombo. Per alquanti giorni se ne stette ritirato, offerendo a Dio quegli oltraggi; indi si provò di mettere in brevi linee sotto gli occhi del Re l’oggetto del suo richiamo.
Lunge dal sentirsi nella sua lettera impacciato per la noncuranza quasi disdegnosa che gli mostrava la corte, l’Ammiraglio, ch’evitava sempre di ricordare il carattere sovrumano della sua scoperta, e i favori onde il Signore lo aveva privilegiato, questa volta parlava alto e forte al suo signore terrestre. Egli chiama col loro nome le cose che altri fingeva ignorare. La memoria degli ottenuti prodigii, la coscienza de’ diritti violati, il sentimento della giustizia calpestata imprimono al suo stile una forza interiore, indipendente dalle espressioni, dalle forme della frase, vigoria che la traduzione non può rendere. Ecco in qual modo principia questa lettera, sublime di laconismo ed energica semplicità:
Potentissimo Re.
“Dio, nostro Signore, mi mandò miracolosamente qua per servire le Altezze Vostre. E dico miracolosamente, perchè io era andato a presentare la mia impresa al Portogallo, il cui Re s’intendeva di scoperte meglio d’ogni altro, e ch’ebbe gli occhi, l’udito, e tutti i sensi chiusi a tal punto, che, per ben quattordici anni non potè comprendere quello che io gli esponeva. Dico altresì miracolosamente, perchè io ho ricevuto istanze per lettere di tre principi, che la Regina (Dio l’abbia seco) ha veduto, e sono state lette dal dottore Villalon, ecc.51”
L’Ammiraglio aggiungeva, che, secondo la grandezza de’ suoi servigi, e i vantaggi che ne dovevano conseguitare, tutto il mondo aveva creduto che Sua Altezza l’onorerebbe, e gli mostrerebbe la sua benevolenza; che, così operando, ella non farebbe che adempiere ciò che aveva promesso a viva voce, e ciò a cui ella si era obbligata per iscritto colla sua firma.
Ferdinando rispose essergli nota la importanza delle Indie: e Colombo meritare tutti i favori che gli erano stati fatti. Tuttavia, siccome la sua dimanda era complessa, poichè si trattava ad un tempo di titoli, di governo, di diritti pecuniari, e di conti da rivedere, insomma di cose quasi litigiose, conveniva scegliere persona capace per cosiffatta sorta di arbitramenti. L’Ammiraglio accettò questa proposizione e pregò il Re a voler rimettere l’affare nelle mani del nuovo arcivescovo di Siviglia, don Diego de Deza. Ferdinando consentì. Nondimeno l’Ammiraglio specificò espressamente quale quistione intendeva di sottomettere all’approvazione altrui: ed era esclusivamente quella che risguardava le rendite, il montare dei diritti sugli oggetti tratti dalle Indie: perocchè rispetto a’ suoi titoli, ed al governo delle Indie, non ammetteva che si potessero discutere, essendo il suo diritto troppo chiaramente scritto. Pare che l’arcivescovo di Siviglia non accettasse un tale mandato, sia che credesse che la sua amicizia per Colombo lo rendesse sospetto in questo affare, sia che la sua modestia lo impedisse di pronunziarsi come arbitro fra il suo Sovrano ed il Vice-re delle Indie: fatto sta che ricusò di esser l’árbitro in tal lite.
In capo a qualche tempo, l’Ammiraglio tornò a supplicare il Re di ricordarsi de’ suoi servigi, delle sue fatiche, della sua prigionia cotanto immeritata: gli ricordò che si trovava privato de’ suoi diritti e del suo governo, senza essere stato nè accusato, nè esaminato, nè convinto, nè difeso, e ch’era punito senza che si fosse pronunziata sentenza contro di lui; ch’era stato incatenato senza saperne il perchè; che le loro Altezze, nell’esprimergli a viva voce e per iscritto il dispiacere che sentirono per tale trattamento a lui fatto, gli avevano promesso di rintegrarlo nell’esercizio del suo potere e delle sue dignità.
Anzichè far le mostre di respingere o stornare un tale richiamo, Ferdinando ne riconosceva la giustizia, e pareva incoraggiarlo a lamentarsi dello stato in cui si trovava; ma non andava più in là. Tutte le volte che l’Ammiraglio si presentava alla corte, il Re accoglieva con estrema cortesia le sue istanze, e gli rispondeva parole officiose. Quando egli cominciava le sue lamentanze, anche il Re aveva da offerirgli nuove gentilezze lusinghevoli, e tali da suscitar nuove speranze: contuttociò l’affare non moveva passo.
Finalmente, vedendo Colombo che i suoi diritti non avevano forza, dappoichè gli mancavano i mezzi da farli valere, tentò di rimettersene alla generosità propria del Re: gli disse, per evitare le lentezze di una lite, di fissare egli stesso ciò che a lui si doveva, perocch’era estenuato dalle fatiche, dalle infermità; e sospirava il termine di quella contesa per potersi ritirare in un cantuccio ignorato, e morirvi in pace.
ll Re gli rispose graziosamente che non voleva privarsi ancora de’ suoi servigi; che pensava a soddisfarlo sotto tutti i rispetti; che non poteva dimenticare di andargli debitore delle Indie, e che pensava non solamente di concedere a lui tutto ciò che gli apparteneva legalmente in virtù de’ suoi privilegi, ma di guiderdonarlo altresì con beni propri della corona52.
Dopo sicurazioni così formali esprimere un dubbio sarebbe stata un’offesa. Bisognava tacere e aspettare. D’altronde, se dopo morta Isabella i grandi lo abbandonavano, gli rimaneva però il suo antico amico Diego di Deza. L’Ammiraglio era altresì in grande estimazione ed amore presso l’illustre francescano53 Francesco Ximenes de Cisneros, cardinale, arcivescovo di Toledo: conservo un’ombra di speranza, perocchè di quando in quando Colombo si lasciava pigliare alle parole insidiose di Ferdinando: la sua rettitudine non poteva credere ad una dissimulazione sì lungamente condotta, nè ad un tanto dispregio de’ più sacri diritti.
Siccome la Regina era sopratutto quella che si trovava obbligata verso l’Ammiraglio, parve conveniente di sottomettere il suo richiamo ad un consiglio istituito per vegliare all’esecuzione delle intenzioni e degli obblighi testamentari dei Re di Spagna. Il Consiglio prese regolarmente a trattar l’affare; mise gran tempo ad esaminare le carte, a deliberare, ma non pronunziò alcuna decisione. Sarebbesi detto che non credesse l’affare di sua competenza. Un alto personaggio pareva segretamente rendere inutile e impossibile qualsivoglia decisione. A Segovia si faceva sentire il medesimo spirito ond’era animata la fazione di Siviglia.
In capo ad un certo tempo, l’Ammiraglio ottenne che quel consiglio ripigliasse la trattazione del suo affare; ma non fu per altro che per ricominciare le dilazioni. La corte era molto divisa nel suo parere sulla istanza di Colombo. Nella loro rettitudine, il cardinale Ximenes e l’arcivescovo di Siviglia non ammettevano che fosse possibile dispensarsi dal tenere a Colombo le promesse che gli erano state fatte. L’autorità di questi due eminenti prelati raccolse al loro avviso gli uomini tementi Dio: ma allato al Re i bassi cortigiani erano in maggioranza: per essi la ragione di Stato la vinceva sopra ogni considerazione privata di coscienza e di obbligo. L’interesse dello Stato, dicevano, si opponeva all’esecuzione del trattato del 17 aprile 1492, non ostante che fosse stato ratificato: la ricompensa dimandata era troppo superiore ai servigi resi: non conveniva fare così potente un privato, sopratutto uno straniero54. Il Consiglio a cui Colombo si era rivolto non pronunziò alcuna sentenza: evidentemente l’intervento segreto del Re era cagione di questo rifiuto di giudicare: ma Colombo, il quale non poteva pensar mai il male, credette, che, avendo quest’affare una grande importanza, il Re non voleva pigliare sopra di sè di deciderlo, allor appunto che sua figlia, l’infante donna Juana, erede del trono di Castiglia, era sul giungere accompagnata dal suo sposo l’arciduca Filippo d’Austria; e prese pazienza di tal contrattempo. Nondimeno, non mancava occasione di ricordare al Re quale ingiustizia fosse lasciarlo privo del suo governo, delle sue rendite, e come venisse commesso contro di lui un atto di violenza cui nulla poteva giustificare. Nonostante il suo diritto, veniva così sancito l’infame operato di Bobadilla.
Dal canto suo, il figlio primogenito dell’Ammiraglio, don Diego, ricordava anch’esso al Sovrano la dimanda che gli aveva diretta per l’investitura del governo ereditario delle Indie, che gli apparteneva in virtù dei trattati di cui presentava copia. Il Re non lasciava mai senza risposta queste dimande: ne accusava ricevuta con puntuale esattezza. Nelle udienze e nelle conversazioni, aggiungeva cortesie e proteste di benevolenza alle assicurazioni già date. Non si mostrò mai importunato dall’insistenza dell’Ammiraglio, nè da quella di suo figlio; tutto al contrario, quante più istanze gli erano fatte, e tanto più rispondeva garbatamente: non era possibile lamentarsi dell’accoglienza invariabilmante cortese fatta alle urgenti dimande; ma tutto rimaneva in sospeso, niente si terminava.
Nell’aspettazione, intanto, di una decisione differita per la paura di avversare le intenzioni del Re, la borsa dell’Ammiraraglio si vuotava: le caravelle d’Hispaniola non recavan nulla per lui: il suo amministratore, sottomesso all’arbitrio del governatore, non osava55 far valere presso Ovando diritti che venivano contrastati e disconosciuti: questo ufficiale aveva altresì gran motivo di temere. Non potendo più innanzi sostenere la spesa a cui l’obbligava il suo grado nella residenza reale, Colombo partì per Valladolid, ove la corte non fece che una breve e passaggera dimora. Ma affinchè le sue tribolazioni fossero al loro colmo, alle torture della gotta ond’egli erà travagliato, venne ad aggiungersi un’altra malattia56.
Allora Ferdinando, che, senza mostrare di pensarvi, seguiva con attenzione lo scadimento delle forze dell’Ammiraglio, e l’imbarazzo delle sue finanze, giudicando il momento opportuno, fecegli proporre di rinunziare a’ suoi privilegi e di accettare in iscambio un dominio situato in Castiglia, il feudo di Carrion de los Condes, al quale si aggiungerebbe una pensione sui fondi della corona. L’Ammiraglio rigettò disdegnosamente una tale offerta, colla quale si era sperato sedurre la sua miseria. Altrettanto inflessibile allora nella sua povertà e nelle sue infermità, quanto lo era stato nel tempo delle sue speranze sotto Granata, allorchè costrinse la corte a concedergli i suoi privilegi, egli non cedette nulla, non rinunziò ad un iota de’ suoi diritti disconosciuti, e serbò il silenzio dell’indegnazione, limitandosi ad appellarsi a Dio di quella iniquità.
Dal letto Colombo scrisse al suo antico difensore davanti la Giunta di Salamanca, Diego Deza, diventato arcivescovo di Siviglia e rimasto suo fedele amico: versò nel segreto dell’amicizia il suo dolore colla ritenutezza ed il laconismo di un uomo avvezzo a soffrire, e gli disse «pare che Sua Altezza non giudichi a proposito di eseguire le promesse che mi hanno fatto egli e la Regina (che è ora nel seno della gloria) sulla loro parola e sul loro sigillo. Lottare contro la sua volontà, sarebbe un lottare contro il vento. Io ho fatto tutto quello che doveva fare. Lascio il rimanente a Dio, che mi è stato sempre propizio in tutti i miei bisogni.»
Così l’uomo che in quel tempo rendeva la Spagna il paese più ricco e più potente della cristianità, non aveva tetto ove riparare il suo capo; dormiva in un letto a nolo, e si trovava ridotto a far debiti per pagare la spesa all’albergo.
Questa miseria non bastava al tacito odio del Re. Non solamente ei lo privava delle sue rendite, ma voleva spogliarlo anche de’ suoi titoli e de’ suoi onori. Qual era dunque il delitto di Colombo? Qual cosa gli si poteva rimproverare? Nessuna accusa gli era intentata, e nessuno storico potè mai raccoglierne contra di lui. La sua sommessione non era stata forse eguale al suo zelo? il suo zelo alla sua prudenza? la sua prudenza alla sua fedeltà? la sua fedeltà al suo ossequio e attaccamento? Anche dopo la morte della Regina, sua amica, suo sostegno, manifestò egli il suo dolore con iscapito del servizio del Re? Non conservò all’ingrato Monarca la sollecitudine che Isabella avrebbe desiderato per lui?
Noi abbiamo intorno a ciò una prova fuor d’ogni sospetto, perchè fu sorpresa all’intimità dell’espansione paterna, alle comunicazioni della famiglia, nel momento medesimo in cui, percosso in tutto il suo essere dalla morte della Regina, Colombo indicava al suo primogenito, allora vicino al Re, qual condotta doveva tenere. Questi consigli acquistano un doppio interesse dalle circostanze medesime. Ecco come il padre parlava a suo figlio: «ora, la cosa principale è di raccomandare affettuosamente a Dio e con gran divozione l’anima della Regina, nostra signora. La sua vita fu sempre cattolica e santa, e per questi motivi si deve credere ch’essa è nella sua santa gloria, senza dispiacere d’avere abbandonato questo aspro e penoso mondo57.»
«Indi, l’importante e sola cosa che val tutte le altre, è di applicarsi e far continui sforzi pel servizio del Re, nostro signore, e di lavorare a risparmiargli fastidi. Sua Altezza è il capo della cristianità: vedi il proverbio il quale dice che quando la testa soffre, soffrono anche tutte le membra: ed è perciò che tutti i buoni cristiani devono pregare per la prolungazione della sua vita, e la conservazione della sua salute; e noi che abbiamo più specialmente obbligo di servirlo, dobbiamo fare di ciò uno studio maggiore di tutti gli altri.58»
Queste raccomandazioni dell’Ammiraglio non manifestan esse il fondo dell’anima sua? Non si trova forse in esse una sommissione assoluta, e l’attaccamento più sincero?
Ma che importava a Ferdinando della, fedeltà di Colombo? Per questo gran politico, l’interesse era l’unica regola del cuore. Egli non supponeva in alcuno quella generosità, di cui non sentivasi capace esso medesimo, e non perdonava la superiorità. Ciò che lo offuscava in Colombo, ciò che lo rendeva implacabile contro di lui, era la sua gloria, la sua involontaria grandezza. Nessun servizio poteva riscattar l’importanza acquistata da questo straniero da lui veduto cotanto povero, implorante l’onore di una udienza, supplicante che gli si volesse credere; e che, dopo sette anni d’importunità, aveva in meno di otto mesi conquistata la dignità di Vice-re di regioni più vaste della Spagna; si era veduto trattar da sovrano dal Capo della Chiesa, dalla Corte di Portogallo, di Castiglia e dalle Potenze Cattoliche.
Vedendo tanta ingratitudine rispondere a tanti benefizi, col cuore straziato da sì nera slealtà, si vorrebbe per l’onore della specie umana poter attenuare l’odiosità di un tale procedere. Dicasi a scarico di Ferdinando, che, indipendentemente della sua antipatia naturale per la grandezza di Colombo, egli temeva che il progresso delle scoperte, lo sviluppo delle colonie finisse per dare ai Vice-re delle Indie un’autorità, che, favorita dalla distanza e da immensi tesori, fosse per suscitarli a dichiararsi indipendenti e formare uno stato emolo della Castiglia. L’aumento indefinito di territorio cui presagivano le scoperte successive avrebbe potuto naturalmente ispirare i medesimi timori, le medesime previsioni a qualunque altro monarca. Nondimeno, questo sospetto dell’avvenire, la diffidenza inerente a siffatti pensieri non potevano sciogliere il Re dai suoi obblighi. Primieramente la defezione e il delitto non si suppongono; non si possono, almeno, punire prima di provarli: indi, in queste previsioni ipotetiche non v’era pericolo immediato per l’esistenza del regno: perciò Ferdinando non osava invocare questa necessità suprema della pubblica salute, questa generalmente ammessa ragione di stato, che permette sospendere, sciogliere o rompere qualsivoglia obbligo contrario alla legge della propria conservazione.
Se dall’esecuzione dei trattati esistenti fra la Corona e l’Ammiraglio dovevano conseguitare per quest’ultimo vantaggi enormi, essi erano proporzionati ai profitti medesimi della Castiglia. Inoltre quest’eventualità felici, ora divenute oggetto di stupore e d’invidia, erano entrate anticipatamente nello spirito di Colombo, allora ch’egli aveva poste le sue condizioni rimuneratorie. La corte ne stupiva e ne temeva allora; ma egli non n’era in verun modo sorpreso. Tutti i suoi obblighi ei gli aveva adempiuti e oltrepassati: aveva trovato più assai di quello che cercava, e dato ai Monarchi più di quanto aveva promesso e molto al di là delle loro speranze: in guisa che la violazione fragrante degli obblighi della Corona, l’oblio della parola e della firma reale non possono trovare pur l’apparenza di una scusa, e neppure di un pretesto.
Qualunque sia il grado d’indulgenza con cui si voglia considerarla, la condotta di Ferdinando ripugna alla coscienza. Si patisce a vedere sì alto allogarsi cotanto dispregio della giustizia. Il partito preso di non osservare gli obblighi contratti, perchè diventano gravi o impaccianti, e perchè si possiede la forza, offende l’onesta pubblica. La mala fede è tanto più ributtante lorchè si mostra sotto le volte dorate. La premeditazione di Ferdinando, quel suo speculare sulla miseria e l’indebolimento del Rivelatore della Creazione, la sua spoliazione dell’eroe malato, offrono alcunchè di crudele ed empio, come l’attentato contro l’orfanello o la vedova senza protettore. La giustizia non conosce prescrizione alcuna, e la storia non ha perdono per simili iniquità.
La slealtà di Ferdinando doveva indegnare Colombo quanto la Sua ingratitudine; poichè, malgrado il silenzio della sua modestia, portava in sè il sentimento della grandezza dell’opera sua, e perciò de’ suoi servigi così ostinatamente disconosciuti.
Secondo una certa scuola, la maggior parte dei biografi ripetono ciecamente che l’Ammiraglio morì inconsapevole dell’importanza delle sue scoperte, e che scambiò sino alla fine il Nuovo Continente per la costa asiatica.
Non se l’abbia a male il signor Humboldt, questo è un madornalissimo errore. Bisogna ricordarsi che Colombo diede il nome d’Indie alle terre scoperte, affine di interessare ad esse la Corte, perchè le Indie erano allora tenute in conto della regione più ricca in perle, oro, diamanti e spezierie: Fernando Colombo lo dice positivamente59. Altri contemporanei, il Torquemada, l’Herrera, hanno egualmente assicurato ch’egli non diede quel nome alle sue scoperte se non per tal motivo60. Si deve altresì aggiungere che l’Ammiraglio, fin dal suo terzo viaggio, indicava una terra di cui non si era mai udito parlare. Rispetto a Cuba, siccome nessuno ne aveva fatto il giro, ed anche più anni dopo la morte dell’Ammiraglio, quell’isola fu creduta un continente; anch’egli aveva potuto pensar a quel modo, e figurarsi fosse il prolungamento della costa d’Asia, la qual si avanzava verso l’est fin nel mare delle Antille61. Ma questo non pregiudica punto all’esattezza della sua nozione sull’esistenza del Nuovo Continente. Dopo la sua terza spedizione, egli seppe non solamente che la terraferma era un Continente, ma altresì che l’Oceano ne faceva il giro.
La logica dei fatti è più forte di quella degli storici, e la vince altresì sulle loro sottili induzioni.
Noi abbiam detto e ripetiamo, che, sin dal suo terzo viaggio, l’Ammiraglio sapeva che il nuovo continente non era l’Asia; e possiamo assicurare eziandio, ch’egli sapeva che l’Oceano circonda co’ suoi flutti il Nuovo Continente; perocchè prima d’intraprendere la sua quarta spedizione, parlava di trovare uno stretto, un passaggio che lo avrebbe condotto in quel mare sull’altra riva dell’istmo di Panama.
Questo è un fatto positivo, stabilito sulle parole medesime di Colombo, sulla testimonianza de’ suoi nemici, sulla voce unanime degli scrittori del suo tempo. Essendo a Granata sotto gli archi a sesto acuto dell’Alhambra, l’Ammiraglio annunziava l’esistenza dell’Oceano dall’altra banda del Nuovo Continente. Se nella lettera del 7 luglio 1503 parla di Ciguare e di Ganges, ripetendo le denominazioni date dagl’indigeni, si conforma alle idee allora generalmente ammesse, e fuor delle quali non lo si sarebbe compreso; ma non crede di aver trovato l’Asia; E anche, allorquando è ridotto a usare il nome d’Indie, per prudenza o per modestia, non osando nè volendo crearne uno egli stesso per imporlo ad una terra sì vasta, sa bene che Dio gli ha dato in balia lo sconosciuto, regioni totalmente ignorate dall’antico Mondo.
Colombo ha un’idea così chiara della sua scoperta, è talmente convinto che questo Nuovo Continente non è l’Asia, che indica come il mare lo circoscrive; traccia la giacitura geografica di Veragua rapporto alle terre opposte sull’altra riva dell’Oceano, e dice ch’elle si trovano situate come Tortosa è a risguardo di Fontarabia, e Pisa a risguardo di Venezia62.
Se per un certo tempo Colombo si era potuto figurare di essere giunto alle Indie, le sue ultime spedizioni avevano rettificato e fissato le sue idee sull’importanza delle fatte scoperte. Non esistevano più dubbi per lui dopo il suo quarto viaggio63. L’intuizion potente che gli aveva fatto indovinare l’esistenza di uno stretto fra le due divisioni del Nuovo Continente, e presentire il luogo predestinato alle grandi comunicazioni dell’avvenire fra’ popoli, gli mostrava chiaramente l’immensità delle sue scoperte. Egli aveva, dunque, intera coscienza dell’enormita dell’ingiustizia del re, e sentiva che non era mai stata commessa verso d’un uomo iniquità maggiore. Colla donazione apostolica della Santa Sede, e colla linea del papale scompartimento, egli aveva assicurato alla Castiglia la metà del globo, ed erangli rifiutati i suoi diritti, i suoi titoli, i suoi onori, il suo pane! non possedeva al mondo che le sue rendite, e le si facevano scomparire! andava debitore alla fiducia o alla commiserazione di alcuni Genovesi di poter vivere miseramente col mezzo di prestanze!...
Egli vedeva allontanarsi indefinitamente la liberazione del Santo Sepolcro, desiderio supremo di tutta la sua vita, allora che ogni cosa pareva in pronto per recarlo ad effetto. L’oro abbondava ad ogni arrivo, e prometteva per la seguente stagione ricchezze più grandi; ma nulla giungeva per lui. Qual traffittura non doveva sentirsi in cuore? Nondimeno, non emise alcuna lamentanza, e trattenne sulle sue labbra ogni rimprovero pronto ad uscirne. Racchiudendo in fondo al suo isolamento l’amarezza delle sue tristezze, le offrì a Colui di cui aveva portato la croce. Cotesta calma nel colmo delle afflizioni non lascia indovinare altro che virtù? Vi ha forse nella storia esempio da potere raffrontare con questo? La filosofia è impotente così a ispirare come a spiegare questa sublime rassegnazione. Il messaggero della salute teneasi dinanzi agli occhi il Crocifisso: si ricordava che il nostro divin maestro Gesù, venendo a recare all’umanità più che un mondo e tutti i mondi, la verità, la via e la vita, era stato calunniato, perseguitato, legato, battuto con verghe, dato in ispettacolo alla moltitudine, e condannato all’ultimo supplizio nonostante la sua dichiarata innocenza. Ad imagine di lui, il Rivelatore del Globo taceva sopra il suo letto di dolore, e come il liberatore delle nazioni perdonava a’ suoi nemici.
Nella seconda quindicina di aprile, l’Ammiraglio seppe che il Re er’andato colla corte alla Corogna, per ricevere sua figlia, ora regina, dona Juana, la quale veniva accompagnata dall’arciduca Filippo, suo sposo, a prendere possesso della corona di Castiglia. Un raggio brillò sopra il suo letto di dolore. Colombo spero di trovare nella figlia di Isabella un po’ di quella affettuosa giustizia che aveagli mostrata la madre, l’incomparabile Regina: scrisse a lei per iscusarsi di non andare a incontrarla, e incaricò l’Adelantado di portare il suo messaggio, diretto a dona Juana ed al suo reale sposo.
In questa lettera spicca anzitutto la rassegnazione alla volontà divina: dice loro che piacque a Nostro Signore privarlo della fortuna di andare a incontrarli e dirigere egli stesso la loro navigazione: gli assicura, che, nonostante i dolori che lo martoriavano senza pietà, potrà render loro tali servigi che non saranno mai pareggiati. Facendo allusione alla morte di Isabella ed ai mutamenti avvenuti dopo quella inesprimibile perdita, dice che questi tempi sventurati lo hanno ridotto a quella estremità: il perchè egli non può presentarsi, e nemmen suo figlio64; di cui nel suo stato non potrebbe far di meno: termina esprimendo la speranza di essere rintegrato nella sua dignità e ne’ suoi onori, conforme ai trattati che obbligano la Castiglia verso di lui.
Questa lettera fu scritta verso il primo del maggio.
La Regina di Castiglia e l’arciduca Filippo giunsero il 7 alla Corogna. L’Adelantado non potè adempiere il suo messaggio che in capo ad alcuni giorni. I nuovi Sovrani di Castiglia accolsero graziosamente la sua dimanda, e promisero di darle pronta evasione65. Appena lo permisero le convenienze, l’Adelantado partì per recare a suo fratello questa buona notizia.
Ma durante questo tempo la malattia di Colombo aveva fatto irremediabili guasti.
Note
- ↑ “Ellos fueron allá con sus barbas de poca vergüenza.” — Cartas de don Cristobal Colon á su híjo don Diego. — Fecha en Devilla á 21 noviembre 1504.
- ↑ “Y las nuevas acá son tantas y tales que se me encrespan los cabellos todos de los diretan revés de lo que mi anima desea.” — Cartas de don Cristobal Colon á su híjo don Diego. — Primero de diciembre de 1508.
- ↑ “Putridum et verecundum ulcus quod ex assiduis ad granatam equitationibus contraxisse aiunt.” — Alvar Gomez de Castro, De rebus gestis Francisci Ximenii, lib. III, fol. 47.
- ↑ “Las muertes successivas del principe don Juan, de’su híja la infanta doña Isabel y de su nieto el principe don Miguel, junto con las extravagáncias de la infanta doña Juana y sus disturbidos matrimoniales con el Archiduque don Felipe habian producido en la Reina un estado habitual de tristeza, que hizo mas púigrosa la enfermedad de que adolecio..., etc.” — Lucio Marineo, Las cosas memorables de la España, lib. XXI.
- ↑ Nombramiento de contino á don Diego Colon. — Archiv. de Simancas; lib. de Continos, Letra C.
- ↑ Carta de la Reina al Comendator Ovando, fecha en Segovia á veinte y siete dias del de noviembre de 1503. — Documentos diplomáticos n° clii.
- ↑ Naturaleza de Reinos à don Diego Colon hermano del Almirante. — Registrada en el Real Archivio de Simancas, en el sello de Corte.
- ↑ “Yo vos le hare tomar una residencia cual nunca fué tomada.”— Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste, ecc. Decade 1, lib. IV, cap. iv.
- ↑ A chi voglia sapere fin dove spingasi presso una certa scuola la forza delle prevenzioni, e l’eccesso dell’ingiustizia contro il cattolicismo, Diego Mendez, ne somministra la misura. Ecco in quale stima tenesse questo eroico cristiano, che ben tre volte aveva salvato la spedizione nel corso di queste campagne, Humboldt, il qual non osando trattar da matto don Diego Mendez, tiensi pago di appellarlo «uomo bizzarro». Vedete! lo trova bizzarro perchè è mirabilmente singolare e singolarmente sublime! — “Un uomo bizzarro, Diego Mendez, fedele compagno dell’Ammiraglio, ecc.” — Humboldt, Esame critico della Storia della geografia del Nuovo Continente, t. III, p. 239.
- ↑ Storia Palentina. — Del continuatore anonimo del vescovo Rodrigo Sanchez de Arevalo.
- ↑ “Quibus diebus cum omnes suae domus equites, saccrdotes, et totius Hispaniæ populi per omnes ecclesias sacrificiis, orationibus, jejuniis et lachrymis pro ejus salute profusis Deum optimum maximum deprecarentur..., etc.” Lucius Marineus Siculus, De rebus Hispaniæ memorabilibus, lib. XXI.
- ↑ “Sparsus est illi humor per venas, paulatim labitur in hydropisiam. Nec deserit illam febris intra medullam jam delapsa.” — Petri Martyris Anglerii, Opus Epistolarum, liber decimus septimus. — Epist. cclxxiii.
- ↑ Die noctuque perpetuum est potus immoderatum desiderium; cibi vero nausea.” — Petri Martyris Anglerii, Opus Epistolarum. — Ibidem.
- ↑ Cartas del Almirante don Cristobal Colon á su híjo don Diego. — Lettera datata da Siviglia il venerdì 13 dicembre 1504.
- ↑ Coleccion de documentos ineditos para la Historia de España, tom. XIII p. 496.
- ↑ “Cujus corpus habitu sancti Francisci reconditum animam Deo reddidit.„ — Lucius Marinus Siculus, De rebus Hispaniæ memorabilibus. liber XXI, § de Isabellae reginae morte.
- ↑ “Non erit silentio praetereundum tantam fuisse in ea honestitatis et pudicitiae copiam, quod et dum unctionem extremam reciperet, etsi jam semianimis esset, pedem nudum in quo unctio poneretur, nulli etiam familiari neque mulieri ostendi pateretur..., etc.” — Historia Palentina. — “Cuya honestitad fué tanta hasta que el ánima se le querìa salir, que cuando le daban la extrema uncion no consintió que le descubriesen el pié..., etc.” — Las cosas memorables de la España.
- ↑ “Obiit autem Hispaniarum maximum decus in oppido Methyna Campi, die vigesimo sexto novembris anno millesimo quingentesimo quarto.” — Lucio Marineo Siculi, De rebus Hispaniae, lib. XXI.
- ↑ “Obiit 1504 die 26 novembris inter undecimam et duodecimam prope meridiem.” — Apuntamientos de Pedro de Torres, Bibl. Real. n° 96, fol. 10. — Abbiam dovuto precisare minuziosamente il giorno e l’ora di questa morte, per fissare l’incertezza causata dalla differenza delle date attribuite a questo avvenimento da storici accreditati. Lucio Marineo era cappellano dei Re, e Pedro de Torres, fratello di doña Juana, la nutrice dell‘infante, era stato segretario dei comandamenti della Regina.
- ↑ “Plega á la santa Trinidad de dar salud á la Reina nuestra señora.” — Carta de don Crístobal Colon á su híjo don Diego. — En Sevilla primiero de diciembre 1504.
- ↑ “Este dia mandaron sus mercedes que se preste al almirante Colon las andas en que se trujo el cuerpo del señor Cardinal don Diego Hurtado de Mendozza.” — Archivo de la contaduria de la Santa Iglesia de Sevilla. — — Coleccion diplomatica, n° cliv.
- ↑ “É se toma una cedula de Francisco Pinelo que asegure de las volver a esta iglesia sanas.” — Archivo de la contaduria de la Santa Iglesia de Sevilla. — Coleccion diplomatica, n° cliv.
- ↑ La Francia, terra ospitale alla gloria, paese di giustizia storica, non conosce quanto basta la vita della nobile Isabella. Però debbesi al signor Ferdinando Denis, autore delle Cronache Cavalleresche della Spagna, una importantissima notizia sulla Regina Cattolica, pubblicata alcuni anni fa, nella Revue de Paris. Dopo questo bel lavoro sotto ogni riguardo commendevole, i giudizi del dotto abate Rohrbacher, autore della Storia generale della Chiesa, e quelli di Rosseeuw-Saint-Hilaire, autore della Storia di Spagna, componevano ciò che noi abbiamo di più completo sulla vita d’Isabella, quando l’illustre Padre Ventura di Raulica, tanto giustamente soprannominato il Bossuet italiano, in un’opera monumentale scritta in francese, con animo affatto francese, venne a rendere popolare fra noi la gloria di questa Sovrana.
La Regina cattolica trovava naturalmente il suo posto fra i modelli della grandezza e della pietà, che alla nostra contemplazione tanto magnificamente espone il libro della Donna Cattolica. Il maestro degli oratori italiani, che altresì è il primo dei predicatori francesi, a cui emulo è solo il celebre domenicano Lacordaire, uomo unico nel suo genere, non ha guari sorprendente per la sua parola, ed ora non meno ammirabile pel suo silenzio, il reverendissimo Padre Ventura di Raulica, usando dell’autorità che gli appartiene, venne a chiarire l’alta superiorità della Regina Isabella sopra il suo sposo. Egli ha ridotto al suogiusto valore Ferdinando il Cattolico, spiegata la vera causa della sua rinomanza, e ci ha saputo indicare succintamente, con apprezzamenti pieni di profondità, il carattere di quel Re, che non fu grande se non con Isabella e per Isabella. Rimandiamo i nostri lettori per formarsi giusta idea della Regina Cattolica, alla grande opera la Donna Cattolica che fa continuazione alla Donna del Vangelo. - ↑ Memoria scritta di mano dell’Ammiraglio per suo figlio Diego.
- ↑ “Nec multis inde diebus Regina fate concessit, incredibili cum dolore atque jactura Gonsalvi.” — Paulus Jovius, Vitae illustrorum vivorum, fol. 275.
- ↑ “Cadit mihi pro dolore dextera. Cogor tamen scribere... animam illam ingentem insignem, praeclare gestis optimam Regina exhalavit. Orbata est terrae facies mirabili ornamento, inaudito hactenus....” — Petri Martyris Anglerii, Opus Epistolarum, liber decimus septimus. Epist. cclxxviii.
- ↑ Nella sua prima lettera dell’anno 1505, Pietro Martire parla di questa perturbazione generale dell’atmosfera: “Coelorum illa rabies inaudita — Petri Martyris Anglerii, Opus Epistolarum, liber decimus septimus. Epist. cclxxix.
- ↑ “Unos navios detiene en San Lucar el tiempo . . .” — “Las aguas han sido tantas acá que el rio entró en la ciudad.” — Viernes trece de diciembre de 1504. — Cartas de don Cristobal Colon á su hijo don Diego.
- ↑ Cristoforo Colombo. — “Mi mal no consiente que escriva salto de noche, porque el dia me priva la fuerza de las manos.” — Cartas del Almirante don Cristobal Colon á su hijo don Diego. En Sevilla, primero de diciembre de 1504.
- ↑ “Que proveyeran á la paga desta gente pobre, que han pasado increiblcs trabajos, y les traido tan altas nuevas.” — En Sevilla á 28 de noviembre.
- ↑ “Y ansi es razon; bien que entrellos hay que mas merescian castigo que mercedes. Esto se diz por los alzados.” — Carta de don Cristobal Colon á su hijo don Diego, á 29 de diciembre de 1504.
- ↑ Acá se diz que se ordena de enviar ò facer tres ó cuatro Obispos de las Indias.” — Lettera di Colombo del l.° dicembre 1504.
- ↑ “El enviar Obispo á la Española se debe dilatar fasta fablar yo á su Alteza.” — Cartas de don Cristobal Colon a su hijo don Diego.
- ↑ “Heu mihi quia incolatus meus prolungatus est! Habitavi cum habitantibus Cedar.” — Psalm. cxix.
- ↑ I tre soggetti proposti e accettati furono: il dottor Pietro di Deza, nipote dell’arcivescovo di Siviglia, per l’arcivescovado di Xaragua; il padre Garcia di Padilla, francescano, pei vescovado di Larez, e il licenziato Alonzo Mansa, canonico di Salamanca, per quello della Concezione. — Il Padre Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. v, pag. 310, in 4°.
- ↑ Come scorgesi dalle lettere di Cristoforo Colombo, a suo figlio, sotto la data delli 13 e 29 dicembre 1504.
- ↑ Pare che il lavoro di don Bartolomeo fosse intitolato, sia dal donatario, sia da Alessandro Zorzi: Una informazione di Bartolomeo Colombo delle navigazioni di Ponente e Garbin nel Mondo Nuovo.
- ↑ “Il re Ferdinando, quando in appresso riprese questo affare, propose un nuovo accomodamento, che venne approvato dal Papa. Egli consentiva a sopprimere la Metropoli di Xaragua e ad erigere San Domingo, la Concezione, e San Giovanni di Portorico in vescovadi suffraganei di Siviglia; il che venne concesso. Li stessi soggetti che già erano stati nominati lo furono di nuovo, il dottor Deza al vescovado della Concezione, il padre di Padilla a quello di San Domingo, ed il licenziato Mansa a quello di San Giovanni.„ — Il padre Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. IV, pag. 310, in-4°
- ↑ L’indomani, dopo la partenza di Diego Mendez per la corte, Non mai fu veduta tanta grande bricconeria, che sessanta mille pezzi, lasciati, per me, siano scomparsi.” — Lettera dell’Ammiraglio a don Diego Colombo, del 18 gennaro 1505.
- ↑ “Ya dije como es necessario de poner buon recabdo en los dineros fasta sus Altezas nos den ley y asiento.” — Lettera di colombo a don Diego, datata da Siviglia il 21 dicembre 1504.
- ↑ Partido de paga hecho á don Bartolomé Colon. — Suplemento primero á la coleccion diplomatica, n° lx.
- ↑ Ciò nullameno, all’epoca del pagamento, che ebbe luogo solo nel 1506, dietro i documenti verificati da Muñoz, Ferdinando non ebbe più che 31750 maravedis, e l’Adelantado 52916 maravedis. — Nota al documento, n° cliv, della collezione diplomatica. — Pare che l’Ammiraglie dovesse pagare la metà di questa somma sulla sua parte di redditi; e gli uffici amministrativi di Siviglia vi prestaron mano.
- ↑ “És mucho hombre de bien.” — Lettera di Colombo a don Diego di Siviglia il 5 febbraio 1505.
- ↑ “Ten forma que Diego Mendez ponga esta dicha peticion con las otras en la Semana Santa que se da á su Alteza de perdon.” — Da Siviglia il 25 febbraio 1505.
- ↑ “Con que vayan con migo las personas que V. A. sea servido, cuyo consejo y parecer, yo haya de tomar.” Memorial de don Diego Colon. — Las Casas, la Historia de las Indias, Iib. Il, cap. xxxvii, fol. 115.
- ↑ “Que creo que la congoja de la dilacion deste mi despacho sea aquello que mas me tenga asi tullido.” — Carta del almirante don Cristobal Colon, pidiendo al Rey Catolico. — Suplem. primer. á la colecc. diplom., n° lvi.
- ↑ “La licencîa de la mula, si sin trabajo se puede haber, folgaria de ella y de una buena mula.” — Carta del almirante don Cristobal Colon a don Diego. — En Sévilla a 29 de diciembre.
- ↑ La comodità del servizio delle mule, avendo fatto trascurare affatto in Castiglia la riproduzione dei cavalli, i corpi di cavalleria si trovavano nelle ultime guerre ridotti alla metà dell’effettivo del primitivo contingente. L’ordinanza del 1494 più non permise l’uso delle mule che alle donne ed al clero; e un posteriore decreto, emanato a Granata il 20 gennaio, rinnovò questa interdizione, alla quale il Re fu il primo a sottomettersi. — Andres Bernaldez, Historia de los Reyes Catolicos. cap. cxxxiv. Ms. — Ramirez, Libro de Pragmat, nel 1503, fol. 284.
- ↑ “Por la presente vos doy licencia para quo podais andar en mula” ensillada é enfrenada por cualesquier partes destos reinos, etc.” — Cédula registrada en el real archivo, libros de la Camara.
- ↑ “Venido su señoria á la corte, y estando en Salamanca en la cama enfermo de gota.” — Testamento olografo di Diego Mendez.
- ↑ “Dios Nuestro Señor milagrosamente me envió acá porque yo sirviese á V. A. Dije milagrosamente porque fué á aportar á Portugal, adonde el Rey de alli entendia en el descubrir mas que otre: el le atajó la vista, oido y todos los sentidos, que en catorce años no le pude hacer entender lo que yo dije. Tambien dije milagrosamente porque hobe cartas de ruego de tres principes, que la Reina, que Dios haya vido y se las leyó el doctor Villalon..., etc.” Carta del Almirante don Cristóbal Colon al Rey Catolico. — Suplemento primero á la coleccion diplomática, n° lviii.
- ↑ Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste dei Castigliani nelle Indie occidentali. Decade, 1, lib. VI, cap. xiv.
- ↑ “Egli era molto amato altresí da Francesco Ximenes, arcivescom di Toledo, religioso dell’ordine di San Francesco.” — Herrera, Storia generale delle Indie occidentali, Decade 1, lib. VI, cap. xiv.
- ↑ Il P. Charlevoix. Storia di San Domingo, lib. IV, in-4.
- ↑ “Non vi fu alcuno che osasse reclamare per me in questo paese.” — Lettera dell’Ammiraglio a don Diego Colombo, del primo dicembre 1504.
- ↑ Propria espressione di Colombo.
- ↑ “Su vida siempre fue católica y santa y pronta á todas las cosas de su santo servicio; y por esto se debe creer quo está en su santa a gloria, y fuera del deseo deste áspero y fatigoso mundo. »— Cartas de don Cristobal Colon. — Memorial de letra del Almirante.
- ↑ “Su Alteza es la cabeza de la cristiandad: ved el proverbio: que diz: cuando la cabeza duele, todos los miembros duelen. Ansi que todos los buenos cristianos deben suplicar por su larga vida y salud y los que somos obligados á le servir, mas que otros, debemos ayudar á esto con grande estudio y diligencia.” — Cartas de don Cristobal Colon. — Memorial de letra del Almirante.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. vi.
- ↑ “Otros dicen que no tuvo Colon mas causa para llamarlas Indias, sino aver querido poner mas codicia á los principes con quien trataba, y autorizar mas su navegacion con este nombre, por el oro, plata, perlas y otras cosas...” — Juan de Torquemada|Juan de Torquemada, la Monarquia indiana, libro primero, cap. vii.
- ↑ Nel 1508, due anni dopo la morte dell‘Ammiraglio, il re. Ferdinando diede l’ordine di esplorare tutte le coste di Cuba, onde si venisse finalmente a sapere se essa fosse un’isola ovvero un continente: Sebastiano da Ocampo, a quest’uopo ricevette una commissione. — Herrera, Storia generale delle Indie occidentali. Decade 1, lib. VII, cap. i.
- ↑ “Tambien dicen que la mar boxa á ciguare, y de alli á diez jornadas es el rio de Guangues: parece que estas tierras estan con Veragua como Tortosa con Fuenterabia, ó Pisa con Venecia” — Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici, scritta dalla Giammaica il 7 luglio 1503.
- ↑ “Estuvo un tiempo en opinion que estava al fin de Oriente y principio de Asia; pero como descubrió la tierra firme, y la halló atraversada, se desengano. — Herrera, Storia generale delle Indie occidentali. Decade 1, lib. VI, cap. vi.
- ↑ “È otras angustias en que yo he sido puesto, contra tanta razon, me han llevado á gran extremo a esta causa no he podido ir a vuestras Altezas ni mi hijo” — Carta del almirante don Cristóbal Colon á los reyes don Felipe y doña Juana. — Suplem. primer, á la coleccion diplomat, n° xlii.
- ↑ I Re fecero buona accoglienza alla lettera, e diedero speranza all’Adelantado che l’altare dell’Ammiraglio sarebbe prontamente sbrigato. — Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste fatte dai Castigliani nelle Indie occidentali. Decade 1, lib. VI, cap. liv.