Canto 5

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CANTO QUINTO


ARGOMENTO.



La Missione nel rustico paese
     Prosegue il Padre della Cappellina;
     Ei dopo il piano alla montagna ascese,
     E a Dio convertì il popol da dozzina;
     Rapina, carne, e furto assai riprese;
     Indi a quei rozzi insegna la dottrina;
     Ed ivi trova pur più d’un minchione,
     Che in pubblico vuol far sua Confessione.


I.


Signori, già son giunto al Quinto Canto,
     E qui lasciando il popol Cortonese,
     Or mi convien andar col Padre santo
     A visitare il rustico paese:
     Dirò come costui si dava vanto
     Di conquistar colle sue belle imprese,
     E ridur finalmente a penitenza
     I rustici che han grossa la coscienza.

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II.


Pastor d’Anfriso, or tu con la sampogna
     Suonami una leggiadra Pastorale,
     Mentre per questa gente mi bisogna
     Stile più grossolano, e dozzinale;
     Di costoro dirò senza menzogna
     Peccati, che non han del veniale;
     E chi forse li tacque al Confessore
     Se ne fece di poi predicatore.

III.


A ritrovare intanto il monte, il piano
     Vedo già il Missionario apparecchiato,
     Per rivedere il pelo al mal Cristiano
     Da molti Cittadini accompagnato;
     Più d’uno col pensier di mano in mano
     Siccome fece il Padre, ed il Curato,
     Con insegnare ai putti la dottrina,
     E rimondare al Prete la cucina.

IV.


Mentre costui a qualche villa andava,
     E che poco lontano era scoperto,
     Col popol tutto il Prete l’incontrava
     Per onorar di sì buon Padre il merto;
     E beato colui si riputava,
     Che toccar lo potea! Stimando certo,
     Gli s’attaccasse nel toccar la veste
     La santità di lui come la peste.

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V.


Con le prediche poi, che far soleva
     A quella razza senza discrizione,
     Tremar da capo a piedi ognun faceva
     Nel minacciar l’eterna dannazione,
     E la dura cotenna s’arrendeva
     Alle percosse della riprensione;
     Con cui scoprì gran furti del villano
     Fatti sull’aia col rastrello in mano.

VI.


I modi udite or quì da lui tenuti
     Nel corregger la lor mala coscienza,
     Ed esortar quei contadini astuti,
     Per poterli ridurre a penitenza,
     Con parole mordaci, e detti acuti,
     In pulpito esclamando in lor presenza,
     E le passion mostrando de’ soggetti,
     Predicava in tal guisa i suoi concetti:

VII.


O popoli di razza acuta, e fina,
     Che di malizia agli otto gradi siete,
     E vi puzzan le mani di rapina,
     Perchè le rape maneggiar solete;
     Sebbene uomini siete da dozzina
     In furberia però giudizio avete,
     Tanto nel criminal, che nel civile;
     Grossi di scarpe, e di cervel sottile.

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VIII.


Giove, siccome ho letto, si diè vanto
     Di far l’uomo di stucco,; indi propose
     Formar la donna di cicale al canto;
     Fece il bel tempo, e questo ai preti espose;
     Scarso tagliò della pazienza il manto,
     Che sulle spalle poi dei Frati pose;
     Fece pien di creanza il Cortigiano;
     E senza discrizion fece il villano,

IX.


Ma io dirò di più senza coscienza,
     E di natura che nel male inclina,
     Ladron in atto, eretico in potenza
     Macchinatore dell’altrui rovina;
     Dietro al somaro poi senza pazienza,
     Uomo da bosco, uccello di rapina;
     Serpente antico di malizia tanta
     Che scacciar non si può con l’Acqua Santa.

X.


Oh contadini di bestial natura,
     Oh rustica progenie maledetta,
     Che la cotica avete così dura,
     Che non la passerebbe una saetta;
     Il vizio vi accompagna in sepoltura,
     Nè mai avete la coscienza netta,
     Col callo ai piedi, e mani pur callose,
     Con unghie adunche si, ma non pelose.

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XI.


Voi siete quelli che l’altrui togliete,
     E le decime al Prete non pagate;
     Santificar le feste non volete,
     Quando vi manca il pan sol digiunate;
     Fornicare, ammazzar quando potete,
     E falso testimonio spesso fate>;
     Perchè la vostra rustica malizia
     Bandì da voi la legge, e la giustizia.

XII.


E per dirvela in somma, o mascalzoni
     Nel confessar più volte ho ritrovato,
     Che vi voglion del fabbro i tanaglioni
     Per cavarvi di bocca un sol peccato;
     E spesso avete, rustici bricconi,
     Allo spezial gli scrupoli lasciato:
     E pensando gabbare i Confessori,
     Di voi stessi vi fate traditori.

XIII.


Questi son dunque della fede i segni?
     E questo è in voi di buon Cristian l’odore?
     Tristi furfanti, villanacci indegni,
     Di magagne ripieni, e d’ogni errore;
     E sarà ver, che ceda ai fieri sdegni
     Fin Satanasso al rustico furore?
     Deh non v’inganni più con tentazioni
     Convertitevi omai, e siate buoni.

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XIV.


Or quì bisogna dir pubblicamente
     Quei peccatacci, che commessi avete,
     Ed ogni vostra colpa, o trista gente,
     Che il perdono dipoi conseguirete:
     Ma pur tra tanti ancor nessun si sente?
     Oh che razza ostinata che voi siete!
     Sù, sù, gridate pur fino alle stelle
     Misericordia, voi Contadinelle.

XV.


Dopo alte strida, allor senza vergogna
     Seguì la confessione universale
     Di peccati che d’aglio, e di scalogna
     Avean odor, con il suo pepe, e sale:
     Chi con sorelle si grattò la rogna,
     O madre, o zia, con atto criminale;
     Altri la vigna avea palificata
     Chi della nuora, e chi della cognata.

XVI.


Alcun di sua coscienza la bruttura
     In cotal guisa poi manifestava;
     Alle pecore, e capre, oltre natura
     Più volte fatto avea pascer la fava,
     E nel condur le vacche alla pastura
     Col stimolo di nervo le incalzava;
     Col fare una figura in fin all'Effe,
     Per poterle poi dir bestie coll’Effe.

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XVII.


Padre, uno disse, io ve la dirò schietta;
     Quando i’ ero ragazzo più piccino,
     Una ragazza un dì trovai soletta,
     Starsi filando all’ombra sotto un pino,
     Subito messi mano alla brachetta
     Per entrar nella grotta di Merlino;
     E la distesi sopra il santambarco
     Col bracco in mano per turarle il varco.

XVIII.


Padre, diceva Marco di Sandrone,
     Da giovine son stato un tristarello,
     Nel veder con le pecore il montone
     Mi sentivo allungare il chiavistello;
     Allora poi pensando all’occasione
     Faceva in su, e in giù col pintentello:
     Dopo aver dato poi di se tal saggio,
     Così un altro parlò nel suo linguaggio.

XIX.


Io son quel Margarite da Pecano,
     Che tenne mala pratica nov’agne,
     Di ciravello strubeg' e balzano
     Vissuto con astuzia, e con engagne,
     E capriccione nel menar de mano
     Con Marco, o Piero, o Pavel, o Giovagne;
     Mo ne chieggio perdono a tucchie quanchie
     A Dio, alla Madonna, e a tucchie Sanchie.

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XX.


Un gatto, Padre, dentro a uno stivale
     Più volte, disse un altro, ho tentennato:
     Rispose il Padre: non facesti male,
     Perchè dall’unghie sue ti siei salvato .
     Minchion io fui, che da una bestia tale
     Da giovine restai tutto graffiato;
     E per aver manco di te cervello,
     Ebbi a lasciar la testa, ed il cappello.

XXI.


Padre, diceva un altro, io son Pastore,
     Che vado or per il monte, or per la valle,
     Nè furon mai dal mio carnal furore
     Le somare sicure, e le cavalle:
     Per contentare in me cotale umore
     Non basterebber poi tutte le stalle,
     Ripiene d’ogni razza di animale,
     All’appetito mio tanto bestiale.

XXII.


L’esser poi con le mani ardito, e lesto,
     E l’aver sempre in esse il rasparello,
     Nell’uva del Padron farvi l’agresto,
     E nell’aia adoprar d’ugne il rastrello;
     In tutte le raccolte far del resto,
     Uscìa di bocca ad ogni villanello,
     Che a man giunte dipoi la remissione
     Per se chiedeva, e non per il Padrone.

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XXIII.


In somma, nel paese de’ villani
     Vomitato per tutto apertamente
     Della coda fu visto, e delle mani
     Tutto il velen dal rustico serpente:
     Ma quivi adesso un abbajar di cani
     Interrompe il mio Canto, e nuova gente
     Mi fa veder in Chiesa appunto entrata
     In forma di solenne mascherata.

XXIV.


È l’Ossaja un villaggio, in quella parte
     Che da Cortona guida al Trasimeno,
     E le reliquie ancor serba di Marte
     Fra l’ossa antiche il fertile terreno,
     Dove Annibale già trovò le carte
     Della fortuna in suo favore appieno;
     E con l’asso di spade nelle mani
     Il gioco vinse marcio anche ai Romani.

XXV.


Or mentre quivi il Frate predicava
     Videsi comparir con divozione
     Dodici Preti, e ciaschedun portava
     D’un Apostolo il segno, e di passione
     Un istrumento, in cui rappresentava
     Chi Pietro, chi Giovanni, e chi Simone,
     Chi Giacomo, chi Andrea, e chi Taddeo,
     E chi Filippo, e chi Bartolommeo.

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XXVI.


Così l’Apostolato allor si espresse
     In un Collegio di più colpe reo;
     E non vi fu chi miglior cera avesse
     D’Apostolo portando il suo trofeo,
     Che la persona di colui che elesse
     La figura mostrar di S, Matteo:
     E il popolo minchione offriva a quello
     L’ammirazione in voto, ed il cervello.

XXVII.


Tosto che il Missionario predicante
     Dentro la Chiesa vide entrar costoro,
     Si voltò verso lor tutto zelante,
     E disse: o degno, e religioso coro,
     Che siei cosi devoto nel sembiante,
     Ma troppo attendi ad ammassar dell’oro!
     Bisogna chi del Cielo i Santi imita
     Il secolo lasciare, e mutar vita.

XXVIII.


Entrar vi vedo in questa sacra soglia
     Di devozion ripieni e duolo esterno;
     Ma poi non so se sotto ovina spoglia
     Vi sia un lupo, o spirito d’Averno;
     E piaccia a Dio, che poi cangiando voglia,
     Quel che con croce in man oggi discerno,
     Diman visto non sia, voltata faccia,
     Con l’archibuso in mano andare a caccia.

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XXIX.


Mirate, chi pare or santa Maria,
     Un Prete uomo da bosco, e da riviera!
     Iddio sa poi come la fede stia,
     In chi d’un San Tommaso ha poca cera;
     E quel che pare adesso un San Mattia,
     Non torni a far giulè, flusso, o primiera,
     E la sorte di quel voglia imitare
     Con un mazzo di carte da giocare.

XXX.


Il Padre con ragion questo diceva;
     Non già che ciò sapesse in Confessione,
     Ma perchè gli altrui fatti risapeva
     Dagli uomini devoti, e pie persone;
     Onde molto contento ne godeva,
     Per esser di sua propria professione
     L’udir chi nell’orecchie a lui soffiava,
     Per saper poi ciascun quanto pesava.

XXXI.


Quivi comparve ancor tutta dolente
     La Sbuccia meretrice, che bandita
     Già di Cortona fu, ma peninente
     Ora si fìnse; e come assai scaltrita,
     Si scompigliò, si presentò piangente
     Piena di contrizione al Gesuita,
     Che vedendola in tanto affanno, e pena
     Chiamolla una novella Maddalena.

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XXXII.


Dopo ch’ebbe sfogato il suo dolore
     Promise d’esser buona, e farsi Monica,
     Ma rivocato il bando in suo favore,
     Non fu mai Maddalena, nè Veronica;
     Perchè nato non era quel sartore,
     Che doveva per lei tagliar la tonica:
     Alfin poi si ridusse a mutar vita,
     E farsi, non so come, Convertita.

XXXIII.


Con queste ed altre simili sparate
     Le persone più triste, e dissolute
     Si vedevan così mortificate
     Per ogni villa, come volpi astute;
     Ed in queste divote mascherate
     Lucciole per lanterne eran vendute,
     Mentre con finte azioni, ed opre sante
     Gabbar poteva il Mondo ogni furfante.

XXXIV.


Il Missionario poi, che lor credeva,
     Queste dimostrazioni assai lodava,
     Tutti con larga man benediceva,
     E motuproprio gli canonizzava;
     Da colpa, e pena ancora gli assolveva,
     E molti verso il Cielo incamminava;
     Assicurando ognun con lieta fronte
     Dal tenebroso passo d’Acheronte.

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XXXV.


Quando un Villano, roba del Padrone,
     Per furtum factum, poi avesse avuto,
     Senza trattar della restituzione
     Con un’Ave Maria era assoluto;
     Anzi per segno poi di divozione
     A star zitto il Padrone era tenuto;
     E rilasciando il proprio in man rapace
     Con gli altri poi gridar viva la pace.

XXXVI.


Ma qu+, lasciato il piano, alla montagna
     Vedo che il nostro Padre ora s’invia;
     Dove a gente più zotica, e taccagna
     S’accinge ad insegnar del Ciel la via;
     Quivi facendo mirabilia magna,
     Pur la ridusse a buona ortografia
     Con la dottrina, che già seminata
     Sopra quei monti mai si vide nata.

XXXVII.


Giunto ch’ei fu tra così dure genti
     Disse: la pace sia con voi Fratelli,
     Dio sia quel che v’allumini le menti;
     E vi cangi di lupi in bianchi agnelli:
     In pulpito dipoi con rauchi accenti
     Fece sermoni assai galanti, e belli;
     E per rendersi grato agli ascoltanti
     In tal guisa parlava a lor davanti.

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XXXVIII.


O Tartari nostrali imbastarditi,
     Furbi di sette cotte, e gente alpina,
     Zingari di montagna, e degli Sciti
     Razza peggior assai, ladra, assassina;
     Non son da voi mai buon costumi usciti,
     Perchè raspa chi nasce di gallina,
     Nè caca lupo agnelli; e se la vacca
     I figli fa, le corna ancor gli attacca.

XXXIX.


Così nel suo principio salutava
     Quei popoli; e dipoi gli riprendeva;
     Con molti esempj, che lor raccontava,
     Gli inteneriva, e pianger li faceva;
     Il pelo alla coscienza gli levava
     Di sua lingua il rasojo che radeva:
     Toglieva via dalla lor carne impura
     Il quojo grosso, e la pellaccia dura.

XL.


La parte loro poi fecero anch’essi
     Col raccontar gl’inveterati vizj,
     Volontari omicidj, e furti espressi,
     Contro il prossimo assai cattivi offizj.
     D’aver ancor poveri, e ricchi oppressi
     Con ladrocinj, e fino in benefizi;
     Ed altre cose pubbliche, e segrete,
     Che in confession giammai le seppe il Prete.

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XLI.


Qui si sentì per primo Tofanone,
     Che disse: Padre santo, io per dispetto,
     Feci una burla ad Angel di Simone,
     Mentre una notte si trovava in letto;
     E di sal forestiero in conclusione
     In casa gli cacciai un buon sacchetto,
     Con dirlo poi ai Sbirri; e in una sera
     Feci a costui buscare la galera.

XLII.


Accuso, Padre, e a tutte le persone,
     Diceva un altro, la coscienza ria:
     Più di vent’anni son, la Confessione
     Non so dirvi per me che cosa sia:
     Perchè poi di saldare ebbi intenzione
     In una volta ogni partita mia,
     Con trattenermi, ed aspettar fra tanto
     Un Giubbileo del Papa, o un Anno Santo.

XLIII.


Per ogni bosco, e per le macchie al passo
     Con l’archibuso mio sempre alla mano,
     Spesso mi son pigliato qualche spasso
     Con tirare alla volta del Cristiano;
     Con gli assassini poi più d’uno scasso
     Feci peggio d’un Turco, o d’un Marrano;
     Più volte andai con simili furfanti
     Alla caccia di Fiere, e di Mercanti.

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XLIV.


Padre, un giovane disse, io non son schietto
     Dove l’asino porta lo straccale
     E portando alla Togna un grande affetto
     Nell’offendere Iddio commessi male:
     Mi son preso più volte gran diletto,
     Con un’arte ch’è propria naturale,
     Nelle selve piantar della montagna,
     Innestando il marron sulla castagna.

XLV.


Tutti i ragazzi poi egli attastava
     Delle montagne, ove di mano in mano
     Nella dottrina quelli ammaestrava,
     Ed in ciò che s’aspetta al buon Cristiano;
     Con fatica, e sudor gli dirozzava
     L’intelletto silvestre, e grossolano,
     Onde ben spesso ancor da quei monticoli
     De’ spropositi udia molto ridicoli.

XLVI.


Uno tra gli altri, ora mi viene in mente
     Da raccontarvi; e servirà per chiusa
     Della Missione alla Montana gente;
     Poi manderemo a riposar la Musa.
     Il Missionario in zelo molto ardente
     Tra quella gioventù di ingegno ottusa
     Un ragazzetto interrogò tra tanti
     De’ precetti di Dio, di quali, e quanti.

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XLVII.


Il poveretto, come appunto fanno
     Gli altri suoi pari stava titubando,
     E come fan color, che poco sanno
     Con il pensiero andava ruminando;
     E il Gesuita gli accresceva affanno
     Mentre andava di nuovo interrogando,
     E alla risposta lo sollecitava,
     E gl’interrogatorj gli incalzava.

XLVIII.


Il proprio Padre, che gli stava a lato,
     Vedendo il figlio scarso di concetti;
     Pezzo d’asino, disse, e disgraziato,
     Capaccio duro, e bue, orsù che aspetti?
     Che ti venga la rabbia! io t’ho insegnato
     Sei persone di Dio, tre li Precetti,
     Già comandati a noi contro natura,
     La superbia, il Battesimo, e l’Usura.

XLIX.


Tosto che quella bestia udì parlare,
     Il Gesuita, si gettò per terra,
     E dalle risa quasi ebbe a crepare,
     Gridando ad alta voce, serra, serra
     La stalla, perchè il bue vuole scappare:
     In casa poi, se il mio pensier non erra,
     Questo bel caso, acciò non se ne scordi
     Nel Libro registrò de’ suoi ricordi.

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L.


I Gesuiti hanno cotal peccato
     Di dar la quadra a ciaschedun ch’è tondo,
     E chiunque di loro ha predicato
     Scrive quel che gli avvenne in stil giocondo;
     Quindi un libro ne fanno intitolato:
     Somma degli spropositi del Mondo:
     E spesso poi ne leggon qualche straccio
     Per trastullo la sera al Camminaccio.



Fine del Canto Quinto.