Conchiglie/Il poeta e il vasaio

Il poeta e il vasaio

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Neera - Conchiglie (1905)
Il poeta e il vasaio
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Il poeta e il vasaio.

Vecchio, scorato, stanco della lotta, coll’infinito desiderio di riposo che segue quasi sempre una vita avventurosa, egli si era innamorato di quel cantuccio ridente.

La casina bianca a cavaliere del monte, tutta sola sul davanti del paese di cui formava l’avanguardia, lo aveva sedotto colle sue finestre verdi, coi muri rozzamente incorniciati di pampini, [p. 132 modifica] col piccolo cortile mal lastricato dove spuntava l’erba, ma tutto aperto sulla valle come un terrazzo e pieno di sole.

Gli sembrava che le sue memorie e i suoi rimpianti, le sue speranze svanite, i suoi pazzi sogni di gloria, tutta la poesia morta del passato avrebbe trovato lassù un asilo di religiosa quiete.

E per questo aveva accettato subito quando gli proposero di comperare per una tenuissima somma la casina bianca del vasaio. Firmò il contratto e sborsò i denari senza averla neppure visitata. Gli erano bastate le finestre verdi, il tralcio di vite e il cortile che egli si proponeva di tramutare in un giardino delle Esperidi. [p. 133 modifica]

Effettivamente il fabbricato mancava di scala, supplendovi una scaletta di legno esterna, mezzo tarlata, ma il poeta la trovò abbastanza pittoresca e pensò che facendovi arrampicare dell’edera l’effetto doveva riuscire bellissimo.

Il giorno della consegna si decise poi a visitare minutamente il suo acquisto, guidato dal vasaio che si fermava ad ogni stanza, ad ogni parete, ripetendone la storia e asciugandosi una lagrima.

— Vidispiace dunque molto di abbandonare questa casa?

— Moltissimo, signore. Qui sono nato, qui presi moglie, qui restai vedovo: sono attaccato ad ogni chiodo, ad ogni sasso. I miei figli quan[p. 134 modifica] d’erano piccini correvano per il cortile e la mia povera moglie li sorvegliava da quel balconcino — vede quel balconcino di legno? — intanto che stendeva il bucato o che rattoppava i panni.

— Ed ora non avete più nessuno?

— Ohimè! più nessuno!

— Come me — pensò il poeta.

— Se non erano i creditori che mi spingevano a vendere la casa per pagarli, io vi sarei morto di fame, signore, sì, di fame; ma sarei morto dove sono nato.

Così dicendo entravano in una stanza più bella e più ampia delle altre. Il vasaio si levò il cappello;

— Era la camera di mia moglie; vi stette inferma due anni. [p. 135 modifica]

Il poeta si levò il cappello anche lui.

— E come faceste a ridurvi in tanta miseria? Il vostro mestiere non rende più?

— Purtroppo è così. Una volta non si comperava una scodella a dieci miglia in giro che non l’avessi fatta io. Vede quel quadrato di terra laggiù accanto al pozzo? Ci avevo il trogolo tutto circondato da un muricciuolo. Sciabordavo la creta e facevo i più bei vasi che si fossero mai visti: le mie scodelle verniciate di rosso erano celebri; nel colore azzurro riuscivo un po’ meno, ma erano tutte solide, ben fatte e a buon prezzo. Ma che vuole? I tempi sono cambiati; di roba nostrana non se ne vuol [p. 136 modifica] più sapere. Capitano da tutte le parti degli stregoni forestieri che sanno spacciare più fanfaluche e le massaie (che già sono donne) preferiscono comperare da loro. Sono belli, non dico di no, ma quanto durano quei piatti? Eppure è così. Si corre dietro a quello che fa maggior figura, si ha il gusto di cambiare, e la roba fuori casa ci par sempre migliore della nostra. E poi, sa, il progresso... Badi, non metta il piede su questa trave, è fradicia. Infine gli affari andavano di male in peggio, io mi facevo vecchio e con tutti quei dispiaceri in famiglia, non avevo nemmeno più voglia di logorarmi il cervello. Ho venduto tutto, tutto; la cola, il menatoio, il banco, la ruota, il macinello. [p. 137 modifica] Mi sono rimaste ancora due o tre dozzine di scodelle che nessuno vuole e alle quali darò un calcio un giorno o l’altro per farla finita.

— Brav’uomo — disse il poeta — quello che è successo a voi colle vostre scodelle capita qual più qual meno a tutti i viventi. Ognuno di noi ha una fornace dove lavora per molti e molti anni dei vasi che crede capi lavori finchè altri capolavori gli capitano davanti e veri o falsi la turba segue sempre gl’idoli nuovi. Abbiate pazienza. Ho anch’io un mucchio di cocci qui.

Si toccò la fronte.

— Il peggio, signore, è che non ho trovato nemmeno un canile dove andarmi a riposare, e quando le avrò [p. 138 modifica] consegnata la mia casa potrò dire di trovarmi nudo nel mondo.

— La mia casa — pensò il poeta — moralmente è sua dunque. I miei denari l’hanno pagata, l’atto notarile me ne costituisce padrone e mi dà il diritto di mettere questo uomo alla porta; ma posso io cacciare l’anima sua?

Avevano visitato il piano superiore e ridiscendevano per la scaletta di legno.

— Questa vite — domandò il poeta levando gli occhi a guardare il pergolato — dà molta uva?

— Oh! no, signore, non fa mai niente altro che foglie.

— È buono a sapersi: così la farò sradicare. [p. 139 modifica]

Il vasaio strinse le labbra e ammiccò con gli occhi come se volesse piangere.

— Ebbene? — Ho detto qualche cosa che vi offende?

— Il signore vuol far sradicare la vite, e ne è il padrone, oh sicuramente, ne è il padrone; ma quella vite l’ho piantata il giorno che nacque il mio primo figliuolo, e se non la vedessi più, quando passerò di qui, mi parrebbe di veder morire una seconda volta il mio povero Battista...

— Quand’è così la lasceremo stare, non intendo accrescere i vostri dolori. Ora volete avere la bontà, brav’uomo di dirmi press’a poco il giorno in cui fate conto di sgombrare? La camera dove vorrei dormire è piena ancora delle vostre robe e [p. 140 modifica] non posso trasportarvi il mio letto se non è uscito il vostro.

Nuova stretta di labbra, nuovo ammiccare d’occhi e due lucciconi grossi grossi che scendevano adagino sul volto rugoso del vasaio.

— Che c’è ancora?

— Sono troppo povero per pagare un uomo che mi trasporti i mobili, e se il signore mi permettesse di portarmeli via a poco a poco...

— Be’; sia come volete. Intanto mi acconcerò alla meglio in un’altra camera.

— Che il Signore Iddio la benedica per la sua carità.

— Grazie.

In quel momento saltando una siepe sbucò fuori un botolino giallo e venne a [p. 141 modifica] fiutare con diffidenza lo straniero.

Il poeta lo toccò col bastone sulle gambe.

— È il mio cane — intervenne subito il vasaio — non è cattivo, al contrario è il migliore di tutti i cani; non ha ancora vista la sua cuccia nel cortile vicino alla porta? Andiamo, Alì, fa’ vedere la tua cuccia al signore; egli è ormai di casa.

— Gran mercè — disse fra sè il poeta — a quanto vedo siamo in tre a possedere questa casa.

— Se il signore vuol riposarsi un momento?

Così dicendo, colla massima cordialità, il vasaio indicava una sedia rustica posta nel cortile sotto un fico gigantesco. [p. 142 modifica]

— Troppa cortesia, obbligatissimo.

E il poeta sedette dominando con occhio sereno la quieta profondità della valle. Il vasaio, in piedi, continuava a fargli la descrizione del cortile, dei giuochi che vi facevano i suoi bambini, delle ore placide ch’egli vi aveva trascorse circondato dalla famiglia. Il botolino, accovacciato, guardava or l’uno, or l’altro dimenando la coda.

— Dunque per questa notte non posso dormire qui?

— No — fece il vasaio mortificato, così comicamente mortificato che il poeta sorrise — ma domani mi incarico io di metterle all’ordine la camera. Vedrà.

— Vi sono forse dei topi in questa casa? [p. 143 modifica]

— Qualcuno si sà. Ha paura dei topi lei?

— Non per me, ma per i miei libri.

— Oh! non tema. Io so fare una pasta con certi ingredienti che mi sono avanzati fin da quando fabbricavo le vernici per le mie scodelle; li faremo morire tutti. E poi, a un bisogno, Alì sa strozzare un topo tanto e quanto fosse nato da una gatta.

— Ha molte abilità il vostro cane?

— Le ha tutte; non gli manca che la parola.

— Ma questo è l’ideale! — riflettè il poeta — al vostro cane manca appunto la sola cosa che sia superflua.

Si separarono con una buona stretta di mano. [p. 144 modifica]

Il giorno dopo, il vasaio fu sollecito a disporre ogni cosa per l’arrivo del nuovo padrone; ridusse i suoi mobili in una stanza sola, non abbastanza tuttavia che non rimanesse qua e là un quadretto, uno sgabello, una pentola, quasi non potesse staccarsi totalmente da quelle mura e volesse illudersi ad ogni costo di possederle ancora.

— Amico mio — disse il poeta, arrivando col pacco de’ suoi libri più preziosi sulle spalle — ho sognato tutta la notte di questa casetta, e credo proprio che mi ci troverò come in paradiso. Ma l’aria dei monti aguzza l’appetito; io ho una fame del diavolo.

— Poco male — rispose il vasaio — quando si hanno denari da spendere. [p. 145 modifica]

— Qui non c’è osteria?

— Signor no. Ma una dozzina d’uova sono subito trovate.

— E cuocerle?

— Se non è che questo, me ne incarico io. Ho uno zio cuoco e l’arte non mi riesce affatto nuova. L’avverto a questo proposito, che se lei vuol tenere galline, io conosco perfettamente il metodo di allevarle, faccio covare le uova, svezzo i pulcini e trasformo i galli in capponi.

Il poeta pensava che quell’uomo era come ve ne sono pochi, di cuore semplice ed aperto. Quant’a lui, poveretto, si sbracciava per fargli cortesie; dal momento che un piede in casa lo aveva ancora, egli si sentiva felice [p. 146 modifica] e colla felicità il bisogno di mostrarsi riconoscente.

Nè l’indomani, nè gli altri giorni che seguirono, non si parlò più di andar via. Il poeta si era accomodato alla meglio, mescendo i suoi mobili a quelli del vasaio accettandone i servigi spontanei.

Essendosi accorto che la fronte di lui si corrugava quando gli sfuggivano le parole casa mia, adottò una leggiera variante e, senza affettazione, pronunciava casa nostra, che faceva brillare di gioia gli occhi del povero uomo.

— Peuh! peuh! — concluse il poeta, dopo qualche settimana di prova — che possa esser vero che non tutti gli uomini sono bricconi? [p. 147 modifica]

— E fattosi portare sotto il fico un tavolino, un calamaio e un foglio di carta, scrisse a un’amico:


«Ho trovata finalmente la pace. Comperai in questo paese una casetta, un uomo e un cane, e non so ancora bene quale dei tre mi appartenga maggiormente; perchè della casa io godo due sole camere e l’uomo e la bestia invece non mi abbandonano mai. Egli (l’uomo) fa la pulizia generale, frigge le uova, spazzola i mie abiti, va alla posta a prendere le mie lettere, ha cura che il mio calamaio non manchi mai d’inchiostro, insomma è il servitore più zelante che si possa desiderare; ma [p. 148 modifica] viceversa poi, è lui il padrone della casa mia; ordina e dirige le riparazioni, semina i fiori, taglia gli alberi e solo per estrema bontà mi ha permesso di aprire un’altra finestra nella camera dove dormo. Essa (la bestia), si corica a’ miei piedi, fa da guardia, mi avverte quando arriva qualcuno e raccoglie il mio fazzoletto.

«La mia casa, cioè la nostra casa, non abbonda di comodo e di superfluità; ma guarda tutta la valle, è battuta dal sole e gli uccelli la prediligono per venire a farvi il nido. Desidererei che fosse un po’ più ombreggiata, e a questo proposito contavo di farvi piantare attorno un bo[p. 149 modifica] schetto di acacie; ma il mio servitore, cioè il mio padrone, mi fece osservare giudiziosamente che la casa ne soffrirebbe a cagione dell’umidità.

«Vieni a trovarmi. Questo buon uomo mi ha posto tanto amore che se lo prego è capace di sbarazzare una stanzuccia dove egli tiene un avanzo di scodelle, e così ti improvviseremo un alloggio.

«Vedrai la mia beatitudine quando mi siedo dopo pranzo davanti al sole che tramonta e che i miei due amici mi si mettono a fianco, muti, l’uno dimenando la coda, l’altro fumando in una vecchia pipa. Io mi abbandono allora ai dolci sogni della fantasia, [p. 150 modifica] penso senza rimpianti al passato e mi sento tranquillo, tranquillo, tranquillo». [p. 151 modifica]