Conchiglie/Socialismo Sport
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Socialismo Sport.
Nella sala bassa e nuda dell’albergo due signore sedute di fronte stavano facendo colazione. L’una grassa, grossa, massiccia, col viso piatto, il naso camuso, gli occhi largamente divisi e sporgenti nella loro massa cristallina senza raggio somigliava un enorme cetaceo; una vera balena vestita di seta nera con certi trasparenti malinconici sopra una pelle vizza e cascante e una collana d’ambre intorno al collo che doveva risalire alla data, forse innocente, ma terribilmente lontana della sua prima comunione. L’altra, svelta, asciutta, vestita all’inglese con camicetta di foulard, solino inamidato e cravatta maschile non era neppur essa molto giovane ma si vedeva data risolutamente ai partiti avanzati; un portasigarette d’argento niellato le stava d’accanto, insieme ai guanti, sulla tovaglia quadrettata dell’albergo; una bicicletta l’attendeva alla porta.
In qual modo incominciassero non so. Quando io entrai nella sala la donna cetaceo, agitando un braccio nella cui adiposità affondavano sei medaglioni di mosaico fiorentino lasciandovi il solco, gridava (e per una contessa, che tale affermavasi nell’albo dei viaggiatori, gridava un po’ troppo).
— Non mi parli di eguaglianza, per carità! Tra noi e i nostri servitori c’è di mezzo l’abisso che separa due razze. Non vede le loro membra grossolane, i loro istinti codardi, tutta la bassezza e la volgarità dei loro atti? Il loro sangue non è simile al nostro le dico!
Io guardavo meravigliata la bocca che pronunciava tali bestemmie e le larghe mani da rigovernatrice di stoviglie che ne accompagnavano coi gesti le singolari affermazioni. E guardavo pure la sua compagna, rigida, nella attitudine di chi sta raccogliendo gli argomenti per la risposta mentre con lo stecchino toccava appena la superficie dei denti, con molta delicatezza, per non alterarne lo smalto. In fondo alla sala, sulla parete del caminetto, un enorme Gambrinus di terracotta a cavalcioni della sua botte sembrava pure attendere tra lo scettico ed il curioso. Ma prima che la risposta venisse, la contessa replicò con impeto:
— Guardi! Mi ricordo quando ero piccina, io e i miei fratelli. Nostra madre voleva che noi fraternizzassimo coi figli dei contadini, appunto per non abituarci alla superbia e per farci apprezzare le loro qualità se mai ne avessero avute; ma che vuole, tanto è vero che la differenza sta nel sangue, essi arrivavano dopo di noi alla corsa! Essi, portando dei pesi, resistevano meno di noi. E poi erano bugiardi, erano vili, e noi no! Fisicamente e moralmente la loro inferiorità era manifesta. Che educazione, che progresso, che fisime! Frusta ci vuole.
A questo punto guardai Cesare, il domestico che serviva a tavola. Era di Pistoia; un buon ragazzo ed un bel giovane. Pallido, flemmatico, indolente, non si alterava mai per nulla. Questa volta però io non mi sarei meravigliata se avesse rovesciato di botto la zuppiera in grembo alla contessa. Non ne fece nulla. Divenne un poco più pallido e un’ombra cupa oscurò i suoi occhi.
Si può essere più imbecilli! pensavo io tornando a guardare la contessa; ed una antica inquietudine tornando in quel momento a molestarmi stavo per chiederle se ella fosse ben sicura di non avere sangue di palafreniere nelle vene. Ma la donna-cetaceo non aveva finito ancora di agitare per aria la sua manona nel fremito di una scudisciata immaginaria che la donna biciclettista rispose:
— Idee vecchie, idee che hanno fatto il loro tempo. Il mondo cammina, cara signora, ed il progresso ha questo di buono che ci rende tutti eguali.
— Tutti eguali! Io eguale alla mia cuoca? Ma mi faccia il piacere! Non sa che la mia famiglia portava corona fin da quando Leone decimo bandiva una crociata contro i Turchi?
— Non fa caso. Il fatto è troppo lontano per interessarci. Una idea sovrana domina ora il mondo: non più ricchi e non più poveri; non servi e non padroni! Cesare dammi un posapiedi.
— Ma il sangue che noi abbiamo raffinato con quattro secoli di signorilità non dovrà dunque contare nulla?
— Pare.
— E i nostri diritti?
— I diritti appartengono ai poveri. È la loro volta. È giustizia, dopo tutto.
— Ma noi che cosa faremo? — gridò esasperata la contessa.
— Dovremo lavorare. Cesare abbassa quella tenda che il sole mi dà noia. Tutti dobbiamo lavorare perchè tutti siamo eguali. Le par giusto, per esempio, che un’altra donna, una donna fatta a nostra immagine e somiglianza si alzi di buon’ora al mattino, intanto che noi siamo a letto, per spazzolarci i nostri abiti? e intanto che noi andiamo al passeggio ella resti in casa a rifare la nostra camera e che ella mangi in cucina mentre noi ci facciama servire a tavola a suon di campanello?
— Ah! — fece la contessa con una voce bassa cavernosa che rivelava l’eccesso della sorpresa — dunque lei si spazzola da sè, e rifà il suo letto e mangia una fetta di pane abbrustolito seduta sul focolare di cucina?
La signora biciclettista ebbe un sorriso di compatimento, un sorriso che voleva dire «povera donna!» Prese con un moto languido, il portasigarette; mandò Cesare in cerca degli zolfanelli e del portacenere, diede fuoco alla carta di seta che racchiudeva il biondo tabacco e lanciando le prime boccate di fumo al soffitto mormorò in via di concessione:
— Le idee sono le idee; basta seminarle; i posteri le raccoglieranno.
— E mangeranno loro il pane abbrustolito sul focolare della cucina comune! — esclamò la contessa con un raggio improvviso negli occhi che sembrava quasi di intelligenza.
— No: avranno tutti il loro pollo nella pentola.
— Vedi Enrico quarto! ma qualcuno dovrà pure far bollire la pentola.
— D’accordo. Purchè tutti mangino il pollo non v’è nulla di male.
— E le cameriere continueranno a spazzolare gli abiti.
La biciclettista lasciò cadere la sigaretta con un gesto di noia:
— Oh! Dio, naturalmente.
— E allora??
Un breve silenzio seguì l’impetuosa interruzione della contessa. Cesare, col vassoio in mano, si arrestò nel mezzo della sala. Evidentemente egli aspettava una parola rivelatrice, ma lo scettico Gambrinus a cavallo della sua botte lo ammoniva in silenzio sulla immutabilità della natura umana.
— Dobbiamo amarci e aiutarci a vicenda — soggiunse la signora provando a riscaldarsi colle frasi già udite tante volte dai suoi amici e lette su per i giornali — l’egoismo deve finire, deve cadere irremissibilmente davanti all’altruismo che si avanza vittorioso.
Gli occhi sfolgoranti da cetaceo si guardarono attorno e non avendo trovato a quel che pare nessuna prossima minaccia di finimondo si raccolsero in calma relativa mentre la loro proprietaria diceva sorridendo;
— Mi definisca un po’ questo altruismo che da me non riesco a comprendere.
— Non comprende l’altruismo? Ma esso è la religione dell’avvenire.
— Ah!... una nuova.
— Dica la sola, la vera. Io piuttosto non comprendo l’egoismo. Noi dobbiamo godere della gioia degli altri, agire, lavorare per gli altri, vivere per gli altri.
— Corbezzoli! È dunque per gli altri che ella pretende che la stiratrice le insaldi quel colletto come un cartone? Per gli altri che rimanda l’abito cinque, sei, sette volte dalla sarta finchè non le va a pennello? Per gli altri che vuole le bistecche tenere e il latte fresco? Esigo anch’io queste cose, ma almeno non ho la pretesa di vivere per gli altri. Sono sincera. Io, ne’ suoi panni, avrei rimorso a succhiarmi voluttuosamente quel tabacco che rappresenta il sudore di migliaia di coltivatori.
— Queste sono personalità.
— Forse che lei non parlava di persone? Chi sono gli altri e chi siamo noi stessi di grazia se non altrettante persone? Francesco d’Assisi gettando le sue ricchezze ai poveri faceva atto di personalità pur facendo dell’altruismo. Aveva torto ma era sincero.
— Non è possibile sostenere di questi confronti.
— Perchè?
— Perchè i tempi sono cambiati e non è più il caso di gettare le ricchezze ai poveri, bensì di offrire ai poveri il mezzo di procurarsele sollevandoli a noi.
— È arrivato l’ambasciatore... tam tirum lirum lera! — gorgheggiò, come fra sè, la contessa facendo un comico sberleffo. — Io le dico che i tempi possono mutare a loro piacere ma gli uomini non mutano. Carità se ne sono sempre fatte; ora vogliono un nome diverso; le chiamano altruismo, s’accomodino. Faranno meglio, non so, vedremo. Io continuo a dire che le bistecche le mangio per me e non per far piacere al prossimo. Al prossimo dò quello che mi avanza.
La grossa signora puntellandosi sulle braccia si alzò tutta rossa e scalmanata per la disputa. La seconda signora, allacciandosi i guanti, si avviava verso la bicicletta che Cesare aveva staccata dal muro e la teneva pronta senza che dal di lui volto trasparisse l’impressione ricevuta o le sue particolari idee sulla questione sociale.
— Ah! — disse la contessa raggiungendo la biciclettista sulla porta — quanto era migliore viaggiare in carrozza! Cuscini comodi, servitori in serpe e cic ciac i cavalli, hop!
— Noi abbiamo compassione anche dei cavalli — rispose l’altra accomodandosi sul sellino.
— Già, li mettono in serbo per le rivoluzioni future. Quando gli uomini non avranno più nulla a desiderare verrà la loro volta.
— E perchè no?...
La bicicletta partì come un dardo sullo stradale bianco di polvere. La contessa, eccitata ma non sazia, si volse imperiosamente a Cesare. Io li lasciai soli.
Uscendo dall’albergo, dopo aver dato un’ultima occhiata alla bicicletta che stava per scomparire, presi un viottolo, mulinando tra me gli spropositi e le ragioni delle due parti nemiche, deplorando che in questa come in tutte le questioni vi sia l’eterno malinteso che scava l’abisso dove a ben riguardare non esisterebbe che un fossatello da potersi scavalcare con una gamba sola. Ah! l’equilibrio...
La campagna intorno era tranquilla ed aveva quel pallore speciale dell’Appennino Toscano che riesce così nuovo a coloro che sono abituati al verde intenso delle Alpi. La luce piena del merìggio invadeva la valle dove il letto del Reno asciutto e ghiaioso metteva una nota pallida di più. A un tratto sul declivio della collina apparve una chiazza rosea, come una grande rosa che si muovesse delicatamente fra le erbe; ma quella che sembrava una grande rosa non era che una piccola bambina, una bambinetta di quattro anni nota a tutti i villeggianti della Porretta, deliziosa apparizione che mi immobilizzava sempre in un sentimento straordinario di dolcezza. Indivisibile da lei, proprio a guisa di ramo su cui poggiasse il bel fiore, era una vecchiarella tutta curva e tremolante e andavano così tutte e due tenendosi per mano, traballando, insieme, chini gli occhi verso la terra a cui la bimba era tanto vicina ed a cui la vecchia sentiva di avvicinarsi. Dal mattino fin quasi al tramonto le congiunte andavano sulla breve collina, lungo il torrente, a sceglier sassi, a cogliere farfalle; parlandosi in un loro linguaggio primitivo dai vocaboli scarsi pazientemente ripetuti; l’una ignara, l’altra dimentica delle cose del mondo; la piccola mano bianca stretta nella rude mano bruna; così fragili, eppure già l’una ed ancora l’altra capaci di sostenersi a vicenda.
Chi non conosce a Porretta la piccola Adriana e la vecchia Caròla? Alla bimba delicatina avevano ordinato i bagni di sole e quel sole scaldava pure le membra rattrappite della fantesca fedele.
— Forse — mormorai seguendole intensamente collo sguardo — forse l’ultima parola è là.