Commemorazione di Carlo Darwin/Discorso
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DISCORSO DEL Prof. PAOLO MANTEGAZZA
Perchè, Signore e Signori, siamo oggi qui, raccolti tutti in uno stesso pensiero? Perchè mai da più d’un mese in ogni paese del mondo civile un solo nome si mormora dalle labbra compunte al dolore? Perchè mai i fili telegrafici di un piccolo e oscuro villaggio dell’Inghilterra non bastano a ricevere tutti i telegrammi di condoglianza che vi giungono da ogni parte? È morto un uomo, ma, a quanto si afferma, ad ogni batter di polso, ne cade uno nella fossa, e a questo sempiterno funerale, che fa della vita una quasi intermittenza della morte, noi dovremmo esser avvezzi da tempo. Un uomo è morto, ma quest’uomo morto si chiama Carlo Darwin. Egli non era un re, non era un principe, non era neppure un barone: il suo nome non fu scritto col sangue nei solchi ardenti delle battaglie, nè l’onda di un popolo ebbro di libertà o d’ira lo ha sollevato in uno di quei giorni, che cambiano la storia; ma Darwin era un grande pensatore, e tutti noi che viviamo del pensiero e ad esso abbiamo consacrato le ore più innamorate della nostra vita, sentiamo di aver perduto qualcosa colla morte di lui. Questo consenso di rimpianti, questa concordia di dolori mi fa quasi superbo di esser uomo e mi persuade con angosciosa speranza, che se il trionfo del pensiero sopra tutte le altre forze della natura umana è ancora molto lontano da noi, lo vedranno però senza dubbio i figli dei figli nostri. Darwin era da molti e molti anni un faro acceso nel grande oceano dell’ignoto: a lui guardavano i discepoli per avvicinarlo, a lui guardavano gli avversarii per evitarlo; si poteva combattere quell’uomo, si poteva odiarlo, ma tacerlo era impossibile. Egli era entrato nell’ambiente della scienza universale, egli era nel cervello di tutti. Oggi quel faro s’è spento e ci pare che una guida sicura ci manchi, che qualcosa di nostro se ne sia andato lasciando in noi il brivido della morte, che se rispetta la materia, distrugge però tanta parte di forma.
Dunque il pensiero anche in questo secolo di cabale economiche e di fornicazioni politiche ha ancora degli adoratori, dunque anche la scienza ha sacerdoti. Sulla tomba di questo grand’uomo, che è scomparso dalla nostra faccia per sempre, andiamo superbi di questo fatto così onorevole per l’umana natura. Pochi anni or sono un dotto tedesco visitando Darwin nella sua casa campestre di Down se lo vedeva venire incontro appoggiato al braccio di una signora e più ancora ad un bastone che avrebbe potuto essere una stampella e il grande filosofo, mostrandolo al visitatore, diceva: Ecco i miei trofei guadagnati nelle battaglie della scienza! E un uomo così modesto, così malaticcio, da aver passato più che mezza la vita fra il letto e il lettuccio, morendo fa piangere tutto il mondo civile. Questo non fanno che i pochi, che gli eletti, che col loro nome segnano un’èra nuova nella storia della scienza; questa gloria non hanno che i riformatori, che guidano il nostro pensiero per nuove vie, aprendo orizzonti nuovi, mutando indirizzo alla scienza che indovina, alla scienza che osserva, alla scienza che applica.
Carlo Darwin appartiene a questa schiera; egli è il fondatore d’una nuova dinastia nel mondo delle idee, là dove i posti non si guadagnano per eredità, ma per diritti ancora ignoti alla nostra ignoranza. Sì, egli è il primo, è l’unico creatore dell’evoluzionismo; primo malgrado i tanti precursori che gli furono dati dai casuisti della storia; primo malgrado Empedocle, Lucrezio e Giordano Bruno; primo malgrado Lamarck e Geoffroy Saint-Hilaire, primo malgrado Treviranus e Goethe. Se Carlo Darwin ebbe un predecessore, non fu altro che la famiglia umana, nel cui cervello si agitano, oscure e misteriore, quelle gemmule germinative, che con lento lavorìo si plasmano e si fecondano per darci quel miracolo di potenze trasformatrici e di altezze estetiche, che si chiama un grande uomo. Anche Colombo ebbe i suoi precursori; li ebbe il Cristo, li ebbe Galileo: abbiamo tutti un padre e una madre non solo nella famiglia di casa, ma anche in quell’altra grande e maggiore famiglia, che è il tesoro accumulato dal pensiero di tutti. L’invidia umana, le piccinerie del volgo, con lente casuistica e meticolosa cercano di spiegare Darwin con Lamarck, il Cristo con Mosè; ma per me, per tutti, il creatore incomincia dove dagli atomi dispersi si feconda un organismo; dove si prende un pugno di creta e gli si dice: vivi; dove nella massa informe del caos si infonde l’armonia che fa vivere e l’ordine che dice: continua a vivere. Darwin è un creatore; anch’egli dopo venti anni di osservazioni e di meditazione disse nel mondo delle forme vive: sia la luce; ed ora è poco nelle supreme ore della sua agonia serena poteva, guardandosi indietro, compiacersi di sè stesso e dell’opera sua. E Darwin vide che la luce era buona.
E noi tutti, operai modesti, oscuri cultori della scienza, senza fanatismo e senza feticismo, pesando con sereno giudizio le opere di Darwin, possiamo dire: E Dio vide che la luce era buona.
Pochi anni or sono, se la morte ci avesse con immatura crudeltà rapito quell’uomo, il consenso del popolo inglese non gli avrebbe aperto sicuramente le porte dell’Abbazia di Westminster. Egli era ancora un grande eresiarca per quel popolo così ricco di fede e i suoi proseliti erano pochi eretici perseguitati dalla credenza dei più. Darwiniano era sinonimo di ateo, di materialista, quasi quasi di nemico degli uomini e degli Dei. Ho narrato un’altra volta come un generale inglese mi negasse a un tratto la sua amicizia, solo perchè io gli ebbi detto di essere darwinista, benchè avessi aggiunto subito: col benefizio d’inventario. Oggi protestanti e cattolici, sacerdoti della scienza a priori e seguaci della scienza d’osservazione, spiritualisti e vescovi in coro lamentano la morte di Darwin, separano nettamente ogni questione di fede dalla grande teoria dell’evoluzione; per poco non si fa un santo di quell’eresiarca pochi anni or sono maledetto: infine gli si assegna senza dispute e senza contradittori un posto a Westminster accanto a Newton, non lungi da Herschel; e se le ceneri umani potessero ancora palpitare di gioia, l’invalido di Down potrebbe fremere in quella tomba, in quel posto, egli il legislatore delle forme vive messo accanto a due massimi legislatori dei cieli. Dicono che l’uomo sia un animale ragionevole; parmi che qualche volta sia anche giusto. Dopo tanto stridere di ironie per l’uomo scimmia, e pei piccioni di Down, dopo tante calunnie brutali lanciate contro il darwinismo, la giustizia si è resa e il popolo più religioso d’Europa ha messo Darwin accanto a Newton. Consacrazione più solenne, tributo più alto di onoranza non poteva farsi da un popolo più potente ad un uomo più grande. Raccogliamo una severa lezione per tutti gli intolleranti. La scienza non offende nè può offendere la fede: l’una e l’altra hanno missione diversa e zampillano da diverse sorgenti della natura umana. Darwin non fa guerra al Vangelo, nè la verità vera non ha mai soffocato un palpito delle ineffabili e misteriose aspirazioni del cuore umano. La scienza può distruggere l’industria delle simonie, può spegnere i ceri della superstizione, ma non distrugge nè distruggerà mai il bisogno di sperare, il bisogno tutto umano di affacciarsi agli abissi dell’incomprensibile e di inalzarvi come rifugio alpino al temerario viaggiatore, un tempio per sperare, fors’anche per credere. Darwin ha allargato i confini del Dio provvidenziale, del Dio industria, del Dio economista e amministratore e la grande divinità dell’ordine campeggia e vigoreggia in ogni istante della vita del cosmo, in ogni petalo di fiore, in ogni ruggito di fiera, come in ogni baleno di pensiero. Darwin sta al suo posto a Westminster, non solo perchè è accanto ai suoi pari, ma anche e più che mai, perchè è in una chiesa. I naturalisti sono i più fedeli interpreti della Divinità, perchè ce ne fanno conoscere e ammirare la vera grandezza. Essi son sacerdoti del vero Dio, perchè lo vedono da vicino e ci parlano della sua grandezza e della sua onnipotenza.
Il popolo inglese ha dato oggi una grande lezione agli intolleranti del feticismo religioso, come Darwin per mezzo secolo aveva dato a tutti gli studiosi una grande e continua lezione di modestia. Oggi dal banco della scuola si vuol saltare a piè pari sulla cattedra del professore, oggi non vi è giovane imberbe che non abbia nel suo portafogli un’opera di filosofia, una riforma sociale, un volume di elegie. Darwin viaggiò cinque anni per tutto il globo, osservò e meditò per venti anni prima di aprire il tabernacolo del suo grande pensiero: solo negli ultimi anni della sua vita e con molta peritanza applicò l’evoluzionismo anche all’uomo. Aveva tutte le paure della modestia dei grandi, tutte le delicatezze del pudore inglese. Al nostro Delpino che gli aveva mosso serie obiezioni alla pangenesi, rispondeva candidamente: Se non potrò rispondere ai vostri argomenti, sarà un segno che io ho torto; e quando ribatteva le mie critiche all’elezione sessuale non si valse più della mano amica della sua compagna che per lui traduceva dall’italiano i nostri lavori, e per lui faceva da segretario per le corrispondenze, ma scrisse egli solo tutta la lettera. Genio e delicatezza, mente di titano e cuore di donna: davvero che per fare un grand’uomo la natura adopera lo scalpello di Michelangelo e il cesello di Benvenuto.
Le rivoluzioni avvengono nel campo della società come in quello della scienza nella stessa maniera: si covano per anni e per generazioni di uomini nel seno misterioso del tempo e poi ti compariscono innanzi come una sorpresa o come un fragore di terremoto. E ad onta dei cinque anni di viaggi e dei venti anni di meditazione l’Europa rimase attonita dinanzi all’Origine delle specie. Eppure i tempi erano maturi, come dicono i filosofi della storia. Troppe scoperte si erano accumulate nei campi delle scienze naturali, troppo profondamente era penetrato lo scalpello anatomico nella intima compage dei tessuti viventi. I precursori dell’evoluzione si facevano più fitti, Wallace giungeva alle porte del tempio, Hegel avrebbe potuto dire che il darwinismo era nato prima di Darwin. Nei classici musei le specie immote e immutabili sui loro pioli, col sacramentale battesimo latino ai loro piedi, sembravano guardarsi sorridendo e già minacciavano di darsi la mano e far baldoria insieme e dirsi sorelle, malgrado il sacramento battesimale di Linneo e la confermazione più ortodossa ancora del Cuvier. E quanti e quanti naturalisti di buona fede, nel silenzio tranquillo dei loro laboratori e dei loro musei davanti a una pianta o a un animale che non voleva entrare nelle rubriche del Linneo crollavano il capo, mormorando: ma questa non è una specie; e già si notavano nelle opere darwiniste le buone e le cattive specie, le specie certe e le incerte e la confusione delle razze e delle varietà e le definizioni sempre mutate della specie immutabile facevano sentire un forte odore di eresia. I pilastrini dei musei barcollavano più che mai presi da vertigini e mentre tra le mani dei timorati molte specie rimanevano senza battesimo, altre più fortunate ne avevan due, tre, fin anche dieci e venti.
Se fosse possibile ritrarre in due quadri lo stato delle nostre cognizioni naturali ai tempi di Cuvier e quello della morfologia dei viventi, interpretata dal concetto evoluzionista, son sicuro che nessuno al dì d’oggi resisterebbe al fascino prepotente dei contrasti fra il falso e il vero. Nel quadro cuvieriano ammirate in bella simmetria, a un dipresso come nell’arca di Noè, tutte le specie dei viventi messe a catalogo, tutte in fila per benino, le une sopra, le altre sotto, ma nessuna in contatto di genesi o di derivazione coll’altra. Il naturalista non aveva altro còmpito che di fare il catalogo del grande Museo della natura. È vero che i fossili turbavano alquanto la bella simmetria dei cataloghi, ma colla lepida invenzione dei cataclismi geologici ogni sconvolgimento era accompagnato da una creazione nuova e una volta uscito un essere vivo dal proprio stampo, rimaneva eternamente eguale a sè stesso, immobile e immutato per non contraddire all’arca di Noè e ai cataloghi dei naturalisti. Dopo Darwin, le specie si sono staccate dai piedistalli, sono uscite dalle loro rubriche e sono entrate nella mobile corrente della vita. Le specie non sono oggi che un equilibrio temporaneo delle forme vitali e gli accidenti del disordine e le antinomie della patologia si studiano collo stesso metodo e trovano posto nello stesso libro che interpreta i più semplici come i più oscuri problemi della vita. Dopo Darwin i nostri Musei non son più magazzini di chincaglierie, ma serie di esseri che si succedono come anelli della grande catena evolutiva e la paleontologia e la geologia sono divenute due pagine di uno stesso libro, che si succedono l’una all’altra e delle quali la prima è spiegazione della seconda. Il quadro dei viventi prima di Darwin era un giardino del Seicento, dove le cesoie del giardiniere avevano fatto una grottesca simmetria, recidendo e storpiando tronchi: il quadro dei viventi dopo la fede dell’evoluzione è la natura stessa portata nei nostri libri e nel nostro cervello.
Voi sapete tutti qual passo da gigante abbia fatto la geologia, quando al succedersi di rivoluzioni e di cataclismi sostituiva l’azione lenta e incessante delle forze cosmo-telluriche e dell’ambiente che ci circonda: orbene, la stessa riforma avvenne per opera di Darwin nella storia dei viventi: e s’egli non avesse fatto altro che questo, egli meriterebbe già uno dei primissimi posti fra i naturalisti e i filosofi. Alle pelli imbottite dei nostri musei l’anatomia comparata aveva già sostituito le viscere, lo scheletro, alla vernice la scienza moderna aveva sostituito il di dentro delle cose; Darwin ci fece fare un altro passo e alla vernice delle forme sostituì lo studio del di dentro della vita. Egli ci ha dato la fisiologia del moto della vita, come l’anatomia ce ne aveva tracciato lo scheletro esteriore. Il convenzionalismo della scuola, l’infallibilità del dogmatismo scientifico, degne sorelle dell’infallibilità ieratica, ci avevano reso meno curiosi dei nostri fanciulli, che rompono le viscere dei loro balocchi e dei nostri congegni per scoprirne il perchè delle cose. Noi stavamo contenti al quia delle nostre pelli imbottite e dei cataloghi che ce le schieravano in fila.
Oggi nulla ci accontenta e come la febbrile incontentabilità di spazio, di moto, di godimento e di emozioni è la prima molla del viver civile, così nei campi della scienza il tracciare tutte le frontiere del tempo e dello spazio alle cose è lo sprone primo delle conquiste del vero. Oh leggete e rileggete le pagine immortali dell’Origine della specie o del secondo libro della grande trilogia darwiniana, The variations of animals and plants under domestication e ditemi se non vi commuove quel ricco, quello svariato intreccio di perchè e di come, quella sovrabbondanza di fatti particolari e minuti, che sembrerebbero polverizzare la materia, se da questa polverizzazione non escisse appunto spontanea, trasparente, lucidissima l’essenza delle cose. Lo dissi già altra volta: l’ingegno del Darwin non ha la simmetria romana: nelle sue opere non si ha quell’ordine di linee rette e parallele che sono un bisogno, fors’anche una manìa del genio greco-latino. La sua architettura è il disordine sublime, è la ricchezza senza fine del tempio gotico, e la natura è di certo interpretata meglio da questi ingegni che dalle nostre menti troppo simmetriche. Noi apriamo attraverso i campi infiniti della natura grandi strade rette e dappertutto poniamo il termine romano, la pietra miliare. L’ingegno germanico e anglo-sassone odia la forzata mutilazione e le linee rette, e tendendo i suoi laberinti e le sue reti d’analisi sminuzza siffattamente ogni cosa da sovrapporre alla natura in un contatto gigantesco il lavoro dell’analisi. In ogni pagina del Darwin vi è una pagina della natura e l’opera dell’uomo si combacia coll’opera della vita: i suoi capitoli, i suoi paragrafi non sono tagli chirurgici o alessandrini, ma pause del pensatore che si riposa per contemplare e meditare.
L’ingegno del Darwin è uno dei più completi, dei più alti e dei più complessi ch’io abbia veduto, e il contemplare e l’ammirare un grande ingegno e lo sprofondarvisi dentro, quasi si volesse sentirne ogni palpito, riscaldarsi col suo sangue, palparne vive tutte le multiformi energie, è una delle massime voluttà che siano concesse al bipede implume nel suo rapido passaggio sulla terra. Darwin, quasi prima d’esser uomo, è inglese, e il darwinismo doveva nascere nell’Inghilterra, dove la prima domanda che fa un fanciullo, un filosofo, un legislatore, quando getta uno sguardo sopra un oggetto è questa: A cosa serve? La teoria dell’evoluzione è anzitutto utilitaria, e il darwinismo è così imbevuto in tutti i suoi pori, in tutte le sue fibre dell’utile delle cose da farne quasi l’unica forma trasformatrice della natura. È questa gran parte della sua grandezza, ma è anche la parte più debole della sua debolezza. Nè solo in questo l’ingegno del Darwin è inglese: egli è inglese per quella armonica contemperanza di idealità di senso pratico, è inglese per quella saggia economia, che tutto raccoglie, non per farne capitale d’usura o di sterile contemplazione, ma per trasformarlo in capitali nuovi e forze nuove. Darwin è minuto, è paziente, è inesauribile nella raccolta dei fatti, e quando spicca il volo nel cielo dell’idealità, ha cura sollecita di portar seco tanta zavorra di fatti, da rendergli facile la discesa sul terreno della realtà. Darwin è tanto inglese da essere perfino umorista e perfino invasore. Egli è anzi uno dei più grandi invasori nel territorio dei viventi. Tutto ha toccato, tutto frugato, perscrutato, palpato; non gli sfuggirono gli oscuri cicripedi, nè i più oscuri lombrici della terra, non le formiche nè le aquile; penetrò nella corolla profonda delle orchidee e fra i petali delle piante carnivore e lungo le volute delle arrampicanti. È ben degno di appartenere a quella razza irrequieta, instancabile, che invade il globo dal Canadà al Sikkim, dalle Isole Falkland alla Nuova Zelanda.
Darwin del resto è imbevuto dal capo ai piedi di succhi inglesi, come ogni grand’uomo è sempre una sinergia potentissima delle forze della nazione a cui appartiene. Dante è una grande personificazione del genio italiano, come Goethe lo è della Germania, come Voltaire della Francia. Un grand’uomo è il fiore dell’albero nazionale, ed è il profumo di quel fiore, la idealità più alta, più complessa e più fedele del carattere di un popolo, anche quando sembra contrario ad esso e sviluppa le proprie forze per condurre i fratelli e i padri per altre vie.
L’ingegno del Darwin è tanto complesso, è tanto incontentabile, da darci a primo colpo d’occhio le vertigini, con quel suo andare e venire e ritornare e raggirarsi pen entro al laberinto delle cose. La simmetria perfetta gli fa male e lo mette subito in sospetto, quasi dubitasse di trovare l’errore o la frode. In tutt’altro campo il nostro Cavour pensava e sospettava nella stessa maniera. Quando un suo concetto, un suo piano gli sembrava troppo chiaro e gli amici da lui consultati lodavano in coro senza trovare obiezione alcuna, esclamava ab irato: non è nè può essere così: io ho scritto, io ho pensato una corbelleria. Sublimi esitanze, modestia sublime del vero genio, che sè in sè rigira e padrone di un mondo lascia ai posteri il desiderio di conquiste nuove, il tormento di nuove dubbiezze.
Sulla tomba di Darwin non è calma che basti per tessere la storia di lui; oggi io non mi sento capace che di un inno o di un elegia. Mi si permetta soltanto di richiamare davanti ai vostri occhi i titoli d’onore del grande che abbiamo perduto. Il suo sistema si appoggia sopra la base potente di una trilogia, l’Origine della specie, il libro sull’addomesticazione delle piante e degli animali e l’Origine dell’uomo.
Quando Darwin a bordo del Beagle, facendo il giro intorno al mondo, toccava l’Arcipelago di Galapagos situato nell’Oceano Pacifico a 500 miglia dalle coste dell’America meridionale, egli rimaneva stupito nel vedervi uccelli, rettili e piante, che non si trovavano in alcuna altra parte del mondo. Le Isole Galapagos dovevano essere per Darwin la mela di Newton, la lampada di Galileo. Tutti questi esseri vivi avevano molta rassomiglianza con quelli del Continente americano e gli animali e le piante d’ogni isola erano stretti in più vicina parentela fra di loro, benchè specificamente distinti. L’arcipelago coi suoi innumerevoli crateri e i suoi torrenti di lava era un mondo giovane e Darwin si credette testimonio della creazione. Quegli esseri vivi erano i figli dell’America e da isola ad isola erano discesi gli uni dagli altri, modificandosi nel corso delle generazioni. Unità d’origine e di tipo, varietà permanente per separazioni e distanze.
Raccogliendo animali e piante nel vasto continente americano, dal Canadà fino alla Patagonia, il Darwin trovava che indipendentemente dai salti smisurati del cosmo, sulle alte vette delle Cordigliere e nelle profonde valli, le piante e gli animali rassomigliavano assai più fra di essi che non quelli di una sola latitudine nelle varie parti del mondo, dove l’eguale clima e spesso l’eguale terreno avrebbero potuto dare vincoli più stretti di parentela agli esseri vivi. Se sopra un’area così smisurata tutti gli esseri vivi avevano una fisonomia americana, se le forme del Brasile rassomigliavano meglio a quelle del Canadà che a quelle tropicali dell’Asia e dell’Africa, era pure naturale il pensare che in America tutti gli esseri vivi dovessero avere una culla sola, un’origine comune. Ma Darwin andò più innanzi ancora. Confrontando le specie viventi in un paese coi fossili che il paleontologo va scoprendo ogni giorno nelle viscere della terra, trovò fra i vivi e gli estinti una discendenza legittima, una stretta parentela, cosicchè anche i fossili rassomigliano più ai vivi di uno stesso paese che ai fossili di un’altra terra posta sotto lo stesso clima. Così i Gliptodon, altri giganteschi quadrupedi fossili del limo argentino, sono i padri dei microscopici armadilli, che vivono oggi sotto le erbe della pampa. Molti anelli della grande catena son rotti, ma la mano del genio ne ha riuniti gli estremi spezzati e così come il filologo nelle nostre lingue moderne legge le parole dei nostri padri ariani, risuscitando le forme di una lingua spenta; così il geologo va riunendo con filo non interrotto gli esseri vivi dell’oggi coi più antichi padri del mondo preadamitico.
Le forme vive son dunque figlie di altre che vissero prima di esse e sono il resultato del loro adattamento all’ambiente che le circonda. La Eva di tutti gli esseri vivi è un protoplasma semplicissimo, capace di tutte le possibilità morfologiche che lo condurranno ad esser palma, elefante, uomo e che in lotta con amici e nemici, nelle battaglie della vita e per elezione naturale figlierà dalle sue viscere tutto il grande museo di piante e di animali che ci circonda. Ecco, s’io non m’inganno, tracciata, nella sua formola più semplice, la teoria darwiniana; la più felice, la più probabile, la più logica interpretazione del perchè delle cose. All’infuori dell’evoluzionismo non vi è che la parola santa ma indiscutibile della fede, che crede senza pensare, o l’eunuca confessione dell’Ignoramus.
Tutti gli esseri vivi, senza eccezione, tendono a crescere in numero così smisurato, che non basterebbero i continenti, non l’Oceano a portare i nati di una sola specie, dopo un certo numero di generazioni, qualora non vi fossero battaglie sanguinose e morti senza fine. La lotta per l’esistenza diviene una necessaria conseguenza di questa fecondità infinita degli esseri vivi, la battaglia della vita diviene una suprema legge della natura. Tutta la vasta famiglia delle creature viventi è un’eterna guerra: i più forti prevalgono, i deboli periscono e già fin d’ora miriadi di forme sono scomparse dalla faccia della terra. Fra le infinite differenze che presentano gli individui di generazione in generazione, quelle utili alla specie prevalgono e durano, quelle sfavorevoli alla vita cadono e spariscono. È questa conservazione nelle battaglie della vita di quelle varietà che posseggono vantaggi di struttura, di costituzione e di istinti che il Darwin battezzava col nome di natural selection, parola ormai immortale e che segnerà anche ai lontani nipoti una delle grandi pietre miliarie sulla strada maestra della scienza.
Dopo avere per venti anni perscrutata l’opera della natura, il Darwin volgeva l’occhio acuto e infaticato nelle schiere più ristrette e più vicine delle piante e degli animali, che l’uomo modifica a sua posta per utile suo o per diletto, e nella storia degli esseri addomesticati egli ritrovava la conferma dell’evoluzionismo. L’elezione artificiale era un’inconscia e antica applicazione dell’elezione naturale: noi eravamo tutti darwinisti nell’agricoltura e nell’allevamento dei nostri animali domestici, anche molti secoli prima che Darwin fosse nato. I più grandi problemi dell’acclimazione delle piante, degli animali e dell’uomo si raggruppano intorno al darwinismo e son problemi appena sfiorati dalla scienza moderna, che costeranno tante e gloriose fatiche ai nostri figli e nipoti. Di queste ricerche dell’avvenire si trovano mille gemme preziose nel secondo libro del naturalista inglese. Egli abbraccia tutta la natura e i manipoli di fatti e le leggi gli sfuggono di mano, quasi il superbo amplesso non bastasse a tanto. Per quanto minuto e instancabile indagatore di fatti, vi è alcuno più ricco di lui, ed è la natura, di cui è il figlio prediletto. Di quei manipoli perduti faranno tesoro tutti quei pazienti spigolatori, che con diversi nomi chiamansi discepoli di un grande maestro, commentatori, critici, imitatori e che so io.
Io mi vado ripetendo, io mi accorgo che rubo al campo da me coltivato, ma, egregi giovani, la colpa è tutta vostra, avendomi scelto oggi a interprete del vostro dolore e della vostra riverenza per uno dei più alti ingegni dei quali si onori il nostro secolo. Per debito d’ufficio, per simpatia di studi, ho dovuto dalla cattedra, dalle pagine dei miei libri, dai fogli volanti delle riviste parlare e scrivere di Darwin tante e tante volte che oggi non so trovare altra nota che quella del mio dolore, che è almeno grande quanto il vostro.
Nelle opere dell’addomesticazione degli animali e delle piante il Darwin, per la prima volta, apriva al mondo dei pensatori la sua grande teoria della pangenesi, che egli pubblicava con tanta peritanza e che è invece uno dei titoli maggiori della sua gloria. E permettetemi qui che a dimostrare la straordinaria modestia del grand’uomo citi alcune parole ch’egli scriveva a me piccolissimo: Io temo che voi non approviate il capitolo sulla pangenesi, ma ho fiducia che qualcosa di molto analogo a questa teoria sarà un giorno adottato, e questa è l’opinione di parecchi buoni giudici in Inghilterra.
Benchè la natura sia stata nella generazione più feconda di varietà che in ogni altra forma della vita, il Darwin riduce tutte queste forme alla generalissima della pangenesi. Facendo tesoro delle immortali scoperte del Virchow, egli riconosce che ognuno dei mille elementi, che costituiscono un essere vivo, ha una vita indipendente, un modo particolare di nascere, di trasformarsi e di morire, per cui può anche generare un’altra cellula, un altro elemento eguale a sè stesso. E Darwin nell’opera della generazione vede questa grande autonomia degli elementi organici e crede che ognuno di essi generi una gemmula che lo rappresenti e lo riproduca. È un atomo potenziale che nella fecondazione cerca l’atomo fratello e si fonde con lui, riproducendo il padre o la madre. Le gemmule però possono trasmettersi in uno stato dormiente per lunghe generazioni senza svilupparsi. Quando il terreno le asseconda o quando la lotta dell’elemento maschio e dell’elemento femmina porge loro l’occasione dello sviluppo, allora i germi ascosi, latenti, si sviluppano e si fanno vivi, mostrandoci i fatti fin qui inesplicabili dell’atavismo. Dalla cellula che si scinde e genera due cellule, da un frammento di protoplasma, che dividendosi in tanti frammenti, crea altrettanti individui, fino alla genesi più complessa degli animali superiori per la via dei semi, le gemmule non fanno che riprodurre l’elemento che le ha generate. Le cento varietà del generare si raccolgono tutte sotto un unico tipo di riproduzione, che governa tutti gli esseri vivi.
A taluno parve la pangenesi una metafisicheria campata in aria, un logogrifo, un bisticcio; io l’ho sempre giudicata una delle maggiori divinazioni del genio alato del filosofo inglese. In essa è il germe, è la gemmula di nuove e grandi scoperte che saranno possibili, quando la chimica e la fisica ci avranno rivelato il mistero profondo delle affinità elettive degli atomi.
L’ultima opera del Darwin, che completa e incorona la sua grande trilogia dell’evoluzione, è quella dell’origine dell’uomo, dove applica le sue teorie al più complesso organismo del nostro pianeta e si gettano le basi della psicologia comparata positiva. Vorrei che questo libro fosse nelle mani e nel cervello di quanti studiano le scienze naturali: in nessun altro potrete trovare meno frasi e più fatti, meno declamazione e maggiore potenza di osservazione. Pare che l’autore occulti sempre la sua individualità per far parlare da sola la natura, pare che in ogni pagina stieno scritte le parole dantesche: t’ho messo innanzi, ormai per te ti ciba. È davanti a quest’opera che si rimane ad ogni tratto non so se più insuperbiti della potenza del pensiero umano o più umiliati della propria pochezza. Dinanzi a quel monumento aere perennius non si ha più il coraggio d’imprecare alla vita, perchè è troppo breve: e si rimane attoniti e colle ginocchia della mente inchine dinanzi ad un tempio pensato ed inalzato da un uomo solo in poco meno di mezzo secolo di osservazioni e di meditazioni. È fra quelle pagine immortali che si prova il brivido sacro delle foreste druidiche e dei templi gotici. Benedetto il genio che ci dà queste alte emozioni e ci fa capire come le parole di santità e di idealità non saranno mai cancellate dal dizionario degli uomini.
Nella teoria dell’evoluzionismo non si è esaurito il cervello di Darwin: anche i suoi lavori speciali sulla geologia americana, sulla genesi delle isole corallifere, sulle piante arrampicanti e sulle carnivore, il suo ultimo studio sui lombrici come generatori della terra coltivabile, sono monografie di primo ordine e ognuna di esse segna una scoperta di fatti nuovi, una rivelazione di nuove leggi. La storia del suo viaggio intorno al mondo è un modello nel suo genere e ci insegna come ad interessarci non occorrono i fuochi fatui delle frasi, le iperboli della rettorica o i lenocinii dello stile. Tutte le opere di Darwin, dal più oscuro opuscolo all’opus maximum, sono tutte improntate allo stesso marchio: grandezza e semplicità, genio e naturalezza.
Parlare di Darwin in un’ora sola parmi più che leggerezza, una profanazione, ma perdoniamoci l’involontario peccato, pensando che siamo qui raccolti per innalzare il nostro grido di rimpianto, non già un monumento di critica e di storia. Sulle tombe ancora aperte si piange e non è che più tardi, che si tenta di consacrare nel marmo le lagrime del dolore. Qui sia concesso al cuore il primo posto.
Non dimentichiamo però un ultimo tributo di gloria del grande inglese, la sua opera sull’espressione. I grandi anatomici e fisiologi, che l’avevan preceduto, avevano studiato un solo lato del problema della mimica o avevano esaminato l’espressione in rapporto coll’arte e coll’estetica. Egli invece, colla sua mente larga e comprensiva tracciava le leggi generali, che governano l’espressione nel mondo animale. Il suo libro è uno dei più splendidi monumenti innalzati dal suo genio e senza esagerare si può dire che la mimica, come ramo speciale della biologia comparata, si è affermata come una scienza nuova colla sua opera uscita alla luce, or sono appunto dieci anni.
Il Darwin ha studiato la mimica delle principali emozioni negli animali, nei bambini, nell’uomo adulto, e indirizzando un ricco interrogatorio ai viaggiatori, ai missionari, a tutti i suoi corrispondenti sparsi per le cinque parti del mondo, ha raccolto un numero straordinario di fatti nuovi, che ha sottoposti poi tutti alla lente dell’evoluzionismo, per rintracciare i rapporti, i perchè del prima e del poi. Si può dissentire in alcuni particolari, si possono respingere parecchie delle sue spiegazioni troppo affrettate o troppo temerarie, ma si deve pur sempre ammirare il sereno orizzonte, che ci vediamo aperto dinanzi, dopo la pubblicazione del suo libro meraviglioso. In un modesto mio volume pubblicato ora è un anno, e che io sentiva il bisogno di dedicare a Darwin, io diceva: poco più di due secoli separano l’opera di Gio. Battista della Porta da quella di Darwin; eppure quale abisso li disgiunge per il metodo che li indirizza. Par di leggere due libri scritti in diverse lingue! Lì tutto divinazione, tutta cabala e il povero pensiero scientifico galleggia appena in un mare di affermazioni arrischiate, di coincidenze fortuite. Qui poche affermazioni e molti dubbi; ma quanta sicurezza di metodo, quale vastità di orizzonti per l’avvenire. Là abbiamo un mondo fantastico, che non si abbraccia, perchè è fatto tutto di nebbia e di fantasmi, qui invece poggiamo il piede sul sodo terreno della natura e la strada per la quale ci addentriamo è la vera. Si potrà andare avanti per secoli, ma non occorrerà tornare addietro e mutar strada.
Come l’arbusto che muore lascia nelle viscere della terra la radice che ne riprodurrà le forme, come la foglia cadendo lascia la gemma che la rifarà nella ventura primavera; così il darwinismo dovrà svolgersi e tramutarsi per lasciare il posto a nuove teoriche più alte e più complesse. Fedeli seguaci del grande inglese, ci sentiamo evoluzionisti anche per giudicar lui, creatore e pontefice massimo dell’evoluzione. In lui, in noi stessi, nella storia del pensiero, nelle viscere dell’umanità sentiamo l’inesorabile picchio di quel martello del prima e del poi, che segna la strada al lavoro e al progresso. Il darwinismo non sarà l’ultima parola della scienza, ma è la parola dell’oggi, di quell’oggi che ad ogni battito del nostro polso va a divenire un domani. La grande teorica è ancora giovane e subisce e subirà per molto tempo ancora una influenza di allargamento e di diffusione. Dai campi della morfologia animale e vegetale il darwinismo si è andato allargando come alito di brezza sull’onda di un lago immoto, nei dominii della psicologia, della filosofia, della zoologia, della politica. E questo alito, dappertutto dove ha toccato, ha fecondato qualche cosa, ha evocato qualche creatura nuova dalla terra dei nascituri. Come il sole d’aprile, che riscaldando le radici, accarezzando le gemme, fa sbocciare foglie, fiori e frutti e serpeggiando per i mille meandri della natura chiama i viventi al grande banchetto della creazione; così l’evoluzionismo ha fecondato il pensiero, dovunque ha trovato un germe vitale, e spogliando la scienza antica dalla buccia tarlata del dogmatismo ha ringiovanito i vecchi sistemi e ha fatto nascere i non nati. Leggendo le opere moderne prese nei campi più disparati del pensiero ci pare di sentire un profumo di primavera, palpitarvi dentro il fremito di una vita nuova, sana e poderosa. E il sole che ha fatto questo miracolo è quello dinanzi a cui ci inchiniamo oggi riverenti, è Carlo Darwin.
Insieme a questo allargarsi del darwinismo, avviene e avverrà un lavorio lento e continuo di depurazione e di affinamento. Il grande naturalista ha creduto colla sua magica chiave di aprire tutte le porte dei misteri della natura, ma questa ha ancora mille e mille tabernacoli chiusi, che aspettano nuove e diverse chiavi. La vita è troppo molteplice e svariata, per poter essere illuminata da una sola luce, per quanto viva e potente essa sia. Vi sono gli astri che vogliono il telescopio, vi sono le cellule che vogliono il microscopio e vi sono le molecole che aspettano un terzo istrumento, che non è ancora trovato. No, il darwinismo non spiega tutto, e l’utile non è spesso che un circolo vizioso che sè in sè rigira; l’elezione sessuale è un sogno, che non resiste alla critica spassionata; no, i milioni di secoli non bastano a mutare un protoplasma in uomo, mentre la natura in un batracio muta in poche settimane un pesce in un polmonato, in pochi giorni una larva carnivora in un insetto che sugge i fiori. Se Darwin avesse spiegato tutti i perchè della natura, non sarebbe più un uomo, egli sarebbe il Dio personale dei deisti, sarebbe un creatore dinanzi a cui non potremmo che rimanere in ginocchio e colla fronte inchina all’adorazione. La morfologia dell’evoluzionismo aspetta un nuovo Darwin della chimica, che col dimostrare la possibilità di poche e determinate combinazioni riempia le lacune, che l’Haeckel, talvolta più romanziere che naturalista, riempiva coi mostri della fantasia. Così come nella chimica non è possibile che un solfato o un bisolfato e fra essi non vi sono combinazioni intermedie, così il Darwin chimico dell’avvenire dimostrerà come tra l’antropomorfo nostro avo e l’uomo non siano possibili nuove forme intermedie e come le specie nascano, non solo per elezione naturale o artificiale, ma per neogenesi.
Se la distruzione dei deboli ci accora, se la scomparsa immatura di tanti nati alla vita ci addolora, se nella contemplazione della vita interpretata da Darwin ci par di sentire la bufera cosmica, che ci spazza via dai sentieri della vita come foglie avvizzite dal freddo del novembre; vediamo nell’evoluzionismo una luce di sole che non tramonta che per illuminare altri mondi e altri vivi. Noi morremo non solo come individui, ma anche come specie, ma morendo sentiremo nelle viscere agitarsi l’immortalità della natura, che muta forma, ma non si distrugge e nelle ceneri della morte vedremo sempre muoversi la scintilla di quel pensiero, che non posa mai. Se contemplando l’agonia dell’uomo che muore, si agghiaccia il nostro cuore dinanzi all’occhio amato che si fissa immobile per sempre, la lagrima del nostro occhio che piange riaccende la fiaccola di una nuova vita.
Sull’albero immortale della vita un ramo potente si è schiantato, ma nuove gemme lo rifaranno più robusto e più bello. Darwin è morto, ma la luce che egli ha acceso sulle vette del pensiero, brillerà eterna ad illuminare le buie vie della nostra ignoranza, a rischiarare quegli orizzonti lontani che saluteranno i figli dei figli nostri.