Clelia/LXIII
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CAPITOLO LXIII.
IL RACCONTO.
Noi lasceremo i nostri amici occupati a consolare l’afflitta Irene — per la perdita del fratello — che sinceramente amava.
Ultimo rampollo dello splendido suo casato — il principe ne troncava colla sua morte — la prosapia — e questa idea, sono certo, non mancava di martellare il cervello della nostra bella matrona — la quale sebbene non repugnasse da un’alleanza plebea — come abbiam veduto — ci teneva al titolo onorevole della famiglia paterna.
Alla immensa fortuna — che la morte del fratello lasciava in sua balìa — non pensò punto — essendo troppo generosa di carattere — da anteporre l’interesse alla vita del suo caro. — Poi i beni di casa T... sul territòrio Romano, erano stati confiscati da quelle perle di servi di Dio — i cui beni non sono di questo mondo.
Ritornati dal funerale — Attilio e Muzio, si erano consultati col solitario — sul modo di comunicare alla sorella l’avvenimento fatale — ed egli chiamato Orazio e la sposa nella propria stanza — aveva data loro la ingrata e dolorosa notizia. —
Gasparo — di tutti il più addolorato, dopo Irene — avea col racquisto del luogotenente — trovato refrigerio al suo dolore — e si sentiva mosso dalla smania di udire le avventure di lui — che credeva perduto per sempre.
Ecco dunque i due ex-banditi — riuniti a stretto colloquio nell’Albergo Vittoria nella stanza di Gasparo. — Dopo un mondo d’interrogazioni e di risposte — per lo più a monosillabi — non essendo l’oratoria, lo studio prediletto dei briganti — gente più manesca, che ciarlona — il luogotenente così cominciò:
«Dopo che voi mi diceste, mio caro capitano — che eravate annoiato della vita brigantesca — e disposto di ritornare privato — dal che vi sconsigliai — se ben ricordate — io continuai le solite scorrerie — senza però — mai allontanarmi dai saggi vostri precetti. — Spogliare i potenti e sollevare i miseri. — I nostri compagni, formati alla vostra scuola, pochi motivi mi diedero di reprimerli; quando qualcheduno però mancava — io lo castigavo senza misericordia — e così si visse colla grazia di Dio per vari anni. —
«L’affetto per la donna — fu sempre lo scoglio del brigante — e ben lo sapete voi — vecchio corsaro.»
Gasparo — a quegli accenti agrodolci — affilava colle dita i suoi mustacchi color di neve — ricordando senza dubbio più d’un’avventura galante — nella carriera sua pericolosa — mentre l’altro ripigliava: «Voi ricordate Nanna, quella fanciulla — per cui tante persecuzioni ebbi da’ suoi parenti. — Non vi fate a credere — che, quell’adorabile creatura mi tradisse. — No! l’anima sua, era, e fu pura — come quella d’un angiolo! E perdonate se mi asciugo una lagrima — pensando alla donna che tanto amai.» — Ed il ruvido capo dei masnadieri si metteva il fazzoletto agli occhi. —
«Essa è adunque morta» — sclamò Gasparo con affetto.
«Morta! Morta!» — ripigliava il compagno — e i due amici stettero un pezzo in silenzio.
Alla fine Marzio continuò: «Un giorno la mia Nanna, un po’ indisposta s’era fermata a passare la notte in casa Marcello — presso la povera Camilla — impazzita — come avrai saputo — grazie all’infame cardinale S. — Io — quel dì mi dovetti allontanare colla banda per un’operazione importante. — Nella notte la casa fu assaltata e portato via il mio bene in Roma. —
«Puoi immaginare la mia disperazione — puoi immaginare quante ricerche facessi per conoscere il nascondiglio della Nanna. — Finalmente dai nostri amici di Roma — seppi trovarsi la fanciulla nel convento di san Francesco — ove l’avean condannata a servire le suore — e a non vedere mai più la luce. —
«La mia donna, al servizio delle suore! — destinata a servire quella turba di giovani donne ingannate — e di rantolose vecchie volpi! Ve la darò io — dissi tra me — una serva di quella tempra — e per Dio! — questa volta il diavolo si porta via il vostro convento e quante vecchie pettegole racchiude.
«La notte, che tenne dietro al giorno in cui conobbi la dimora della Nanna entrai in Roma solo: — solo, perchè mi sembrava vergognosa codardia farmi accompagnare in un’impresa ove si trattava di me solo. —
«Presi meco un fascio grandissimo di frasche secche, comprato in piazza Navona — lo depositai in un’osteria, ed aspettai che si facesse tardi. — Verso le undici, prima che si chiudesse l’osteria — presi il mio fascio — e via verso S. Francesco. — Chi può impedire a un povero diavolo di portarsi un fascio di legna a casa? — Poi, la nostra Roma ha questo di buono — poche persone passeggian le vie durante la notte per paura dei ladri — che il liberale governo dei preti — lascia liberi quanto vogliono — purchè non si mescolino in politica.
«Giunto al portone di san Francesco — posai il mio fascio — preparai — pronto ad accenderlo — un mazzo di zolfanelli — calcai le frasche contro il portone — e gettai lo sguardo alle due estremità della strada — per attendere il momento opportuno.
«Era evidente, che bruciando il portone restava la inferriata, la quale mi avrebbe lasciato con tanto di naso — e nulla di compiuto. — Bisognava fare del chiasso — far accorrere gente di dentro e di fuori — pertanto dopo aver accomodato ogni cosa — traversai la piazzetta — e mi nascosi nel vano di una porta — saldo ed immobile quale una cariatide — aspettando che gente venisse — foss’anco una pattuglia di birri — per me faceva lo stesso. — Nè ebbi ad aspettar molto — che dopo dieci minuti — mi giunse all’orecchio precisamente il suono de’ passi misurati d’una pattuglia. — Allora, colla velocità che tu sai. — »
E qui Gasparo interrompendo: «Corpo di di Dio! se la conosco, sclamò. — Ricordo ancora quel tal Monsignore — che, sulla strada di Civitavecchia, avendoci scorti — retrocedeva fuggendo a gran galoppo verso Roma — ed in men ch’io nol dico — tu eri al muso de’ cavalli — e fermavi la carrozza.»
«E che presa fu quella, comandante mio! — ci fu da scialacquare per molto tempo colla povertà cristiana di quel discendente dagli apostoli! — ma torniamo al racconto. Quando fui certo che la pattuglia veniva innanzi, corsi al fascio, lo accesi — e rapido tornai al mio nascondiglio. —
«In pochi minuti, una fiamma d’inferno divampava dinanzi al portone del convento — e lo stesso portone poco dopo infiammandosi — mostrava uno spiraglio di fuoco — simile al cratere di un vulcano. —
«E i birri? — Dovunque — la più trista canaglia del mondo — in nessuna parte arrivano alle tristizie di quei di Roma — i birri dico — codardi per natura — e lenti per la vita infingarda che menano — invece di correre sul sito a smorzare il fuoco — si misero a squarciagola a far schiamazzo — per svegliare il vicinato — ed al fuoco non si appressarono — se non quando buon numero di vicini, d’ogni parte accorrenti, giungeva sulla scena d’azione.» —
«Tocca ora a me, pensai — e mi precipitai nel vortice di quel tramestio. — Le monache potevan stare allegre che un bel liberatore ce lo avevano alla porta — e potevano star allegri anche i birri, che avevano acquistato in me un famoso compagno.
«Le cose meglio non potevano riuscire. — Al clamore di quei di fuori — le monache non tardano a destarsi — spalancando l’inferriata — giungono anche esse alla riscossa — con secchie piene d’acqua — e bugliuoli e catini — e quanti recipienti davan loro alla mano — le poverette! — Dopo aver fatto mostra di smorzar anch’io dalla parte di fuori — sempre fisso però il mio occhio di lince verso il di dentro — vedendo la partita ben impegnata — mi slanciai nell’interno al soccorso delle suore — ed una salva di acclamazioni accompagnò l’atto mio salvatore.» —
«Appena dentro, girai lo sguardo sulla turba delle femmine ivi riunite — ed alla più vecchia — che mi sembrò essere la badessa — «favorisca» — dissi, e in pari tempo la presi per il braccio sinistro, in modo da farle comprendere che il favore di seguirmi lo avrei ottenuto un po’ anche colla forza delle mie braccia. — Incontrai più resistenza da quel vecchio cataletto — ch’io non avrei creduto. — Si contorse, s’impuntò, e non volle moversi che trascinata — resistendo con tutte le sue forze — ma inutilmente: — poi si pose a gridare — onde fui obbligato a levarla nelle braccia — e turarle la bocca con un fazzoletto. —
«Così mi allontanai dalla folla — e giunto davanti alla porta di una cella — che trovai aperta — mi misi dentro col mio fardello. — Il lume era acceso — il letto caldo — deposi la vecchia sul letto — e chiusi la porta a chiave. —
«Era la vecchia attonita — ma non impaurita. — Non ricordo d’aver veduto mai un demonio di tanto coraggio.» — «Ov’è Nanna?» «le chiesi, mentre mi guardava trasognata, con un certo piglio da scuoterla per benino. — Nessuna risposta.» — «Ov’è Nanna?» «tornai a dire — un po’ più alto di prima. — Nessuna risposta. — Ah! vi farò trovar io la lingua, brutta strega» — sclamai infuriato tirando fuori dalla cintura questo palmo di lama — e facendolo luccicare ai suoi occhi. — Eppure niente! —
«Sangue della madonna! — interruppe Gasparo — sono tutte così le badesse — tutte energumene. — Quando alla difesa di Roma nel 1849 la mia compagnia doveva passare nel Convento del Sacro Cuore — per occupare le mura di S. Pancrazio — ci fecero stare delle ore alla porta senza volerci aprire — e la badessa cui era stato presentato l’ordine scritto del Governo — lo fece risolutamente in pezzi — e solo, quando si cominciava a buttar giù il portone colle mannaje — si persuase ad accordarci l’ingresso1.
«E così fece questa» — ripigliava Marzio. — Io non burlavo, lo puoi ben credere — volevo la mia Nanna — e cento vite di vecchie — non mi avrebbero certamente impedito di portar l’impresa a buon fine.
«— Attortigliati i suoi grigi capelli alla mia sinistra — col pugnale nella destra — cominciai a tastarle il collo — non già colla punta del ferro — per timore mi vi scivolasse — ma con uno spillo della sua cuffia. — Allora m’accorsi che fino al martirio non voleva arrivare la santa donna — giacchè cominciò a sciogliere la lingua, gridandomi lamentevolmente un: per amore di Dio! — La mia Nanna — o vi mando all’inferno con tutti i diavoli! — risposto. — Per amore di Dio lasciatemi — ripeteva lei ed io lasciai andare quel capo protervo. —
«Dopo aver respirato fortemente per assicurarsi che viveva ancora — passatasi la mano sulla fronte.» — «Chiedete voi conto d’una giovane della campagna Romana — di buona famiglia — che fu collocata or son quindici giorni in questo Convento?» Credo sia dessa — risposi. — Allora io vi condurrò da lei — ma a patto che non facciate scandali in questa casa del Signore. —
«Altro oggetto non ho — fuorchè portar via la mia donna — le risposi.
«Essendosi alquanto ricomposta — e discesa dal letto — mi disse: — andiamo. — La seguitai per un pezzo — e giunti ad un’entrata oscura — c’innoltrammo in un corridojo — scendemmo varie scale — ed al chiarore di una candela che avevo portato meco — scoprimmo una porta di ferro — sbarrata da un catenaccio. — Povera Nanna! dicevo tra me stesso — che delitto avrà mai commesso quella sciagurata fanciulla — da essere fitta in questa bolgia d’inferno?
«Giunti alla porta ferrata — la vecchia mise fuori una chiave — la introdusse nel catenaccio — aprì — e mi fece segno di tirare la porta — essendo troppo pesante per lei. — Io feci quanto mi venne richiesto — senza però perder di vista la mia guida — la cui compagnia m’era troppo necessaria. — Così aprendo la porta — misi prima la vecchia dentro — ed io dietro. — Appena entrato — una giovine donna — scapigliata — mi saltò al collo — e vi s’avvinghiò disperatamente.... Oh! Marzio: essa esclamò — e le lagrime della mia Nanna innondavano il mio volto. —
«Sono troppo corsaro — da non prendere le mie precauzioni in tempo d’urgenza. — Fuori di me dalla contentezza — per la redenzione della mia fanciulla — non mancavo però di adocchiare la megera — che senza il mio occhio fulminante — non avrebbe mancato di svignarsela. — «Passata la prima espansione d’aff etto — tenendo la mia cara per mano — richiusi la porta — e chiesi a Nanna — se esisteva un altro uscio in quella prigione. Essa rispose di no — ma la badessa che avea intesa la mia domanda — c’è, disse., un altro uscio — e per questo vi converrà uscire per non incontrare la comitiva delle suore che saranno in questo momento sulle mie traccie. —
«Qui una nuova scena ed una nuova fanciulla venne ad interrompere il discorso della badessa. — Io avevo veduto veramente muoversi qualche cosa nell’angolo più oscuro del carcere — ma preoccupato com’ero., non v’aveva badato. — Quando a un tratto una fanciulla dell’età in circa della mia Nanna si avvicinò a me, con voce commossa: — Oh! voi non mi lascerete sola in questo carcere, caro signore — io seguirò la mia Nanna sino alla morte.
«E la Nanna a me: Sì, Marzio! per carità non lasciamo questa infelice amica mia in questo inferno. — Essa era destinata da quella vecchia maga — a mia compagna — per farmi la spia — ed all’opposto è stata per me un angiolo di consolazione. — Era incaricata di farmi parlare — sapere di voi — de’ vostri compagni — d’ogni cosa — e poi rivelare tutto alla badessa. —
«E così vanno le cose, pensavo fra me stesso — in questi laboratori d’ipocrisia e di menzogna! —
«Era incaricata di spiarmi — di minacciarmi — di tormentarmi — in caso io rifiutassi di palesare i vostri nascondigli — le vostre riunioni abituali — i vostri disegni — ed invece — essa mi disse tutto — mi consolò — mi protesse — ed assicurò che morrebbe — piuttosto che farmi male.
«Essa poi jeri — mi salvò puranco dalle disoneste brame di un infame prelato — che introdottosi in questo carcere colla connivenza — senza dubbio — di questa vecchia strega — venne a promettermi mari e monti — se condiscendevo alle sue voglie malvagie. — Mi salvò precipitandosi nel carcere — e strillando come un’ossessa. —
«Invano le promisero la libertà — se giungeva a sedurmi — per conto della badessa e del prelato — non ne hanno potuto cavar nulla. — Di giorno ci destinavano ai più vili uffizi del chiostro — richiudendoci di notte in questa spelonca. —
«Il pianto innondava ancora il bel volto della mia diletta — a queste ultime parole... ed io vi assicuro Capitano che mi corse per istinto la mano sul ferro — e divenni sitibondo del sangue della megera. — Non so come mi trattenni — ero furibondo — avrei stritolato le ossa di quella schifosa creatura — come una foglia d’autunno — e nol feci — e fu bene — perchè senz’essa avrei avuto immense difficoltà — a rivedere la luce del cielo. —
Ov’è la seconda porta di cui avete parlato? — dissi alla vecchia — e dove conduce?
«Conduce fuori del convento, e ve la mostrerò — se scostate il letto di ferro che giace in quel canto. — Scostai il letto — ben pesante — e nulla vidi. —
«Provate a levare i mattoni — che si vedono commessi con materiale non secco. — Dato mano ad una spranga di ferro del letto — cominciai a smuovere il pavimento — staccarne i mattoni e metterli da parte. Alla fine — un anello conficcato nel legno — mi diede indizio di una porta orizzontale da sollevarsi — e con mio stupore — scopersi una nuova scalinata che conduceva a basso. —
«Qui bisogna ordinare la marcia — pensai tra me — e spinger la vecchia in capofila. — Ingiunsi alle mie giovani compagne di seguire in retroguardia — e dando il lume alla badessa — senza cerimonia le dissi: Avanti!
«Questa è la scala di contrabbando — pensavo io — e quanti di quei neri e luridi scorpioni — a sottane — saranno venuti a sfamare le loro libidini in questi ginecei! — E le povere famiglie che credevano d’inviare le loro figliuole in questi asili di purezza per educarle!
«Ma pensavo pure: oggi non hanno più bisogno di entrare furtivamente nei sotterranei — oggi quegli scellerati hanno più facile l’ingresso e — la sfacciataggine — per giungere, fino alle loro vittime. —
- ↑ Istorico.