Che cosa è l'arte?/XV
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Capitolo XV.
L’arte buona e l’arte cattiva.
L’arte è, insieme colla parola, uno degli stromenti dell’unione degli uomini e perciò del progresso, ovverosia dell’avanzare del genere umano verso la felicità. La parola concede agli uomini delle nuove generazioni di conoscere tuttociò che per mezzo dell’esperienza e della riflessione hanno imparato le generazioni precedenti, e i più sapienti tra i contemporanei; l’arte concede agli uomini delle nuove generazioni di provare tutti i sentimenti che hanno provato le generazioni anteriori, come pure i migliori dei contemporanei. E a quella guisa che procede l’evoluzione delle cognizioni, per la quale delle cognizioni più reali e più utili si sostituiscono sempre ad altre meno reali e meno utili, del pari procede l’evoluzione dei sentimenti per mezzo dell’arte. Ai sentimenti inferiori, meno buoni e meno utili per la felicità dell’uomo, si sostituiscono senza posa dei sentimenti migliori, più utili a questa felicità. Tale è la funzione dell’arte. In conseguenza l’arte, rispetto al suo contenuto, è tanto migliore, quanto meglio adempie questa funzione, ed è meno buona, se meno bene vi soddisfa.
Ora la stima dei sentimenti, cioè la distinzione tra quelli che sono buoni da quelli meno buoni considerati rispetto alla felicità dell’uomo, codesta stima, ripeto, si fonda sulla coscienza religiosa d’un’età.
In tutte le età storiche, e in tutte le società esiste un concetto superiore del significato della vita, proprio di ciascuna età; ed è esso appunto che determina l’ideale della felicità verso cui tendono quell’epoca e quella società. Questo concetto costituisce la coscienza religiosa. E tale coscienza si trova sempre espressa chiaramente da alcuni uomini eletti, mentre il resto dei loro contemporanei la sente con forza maggiore o minore. Talvolta ci pare che questa coscienza manchi in certe società; ma realmente non è già che essa manchi, siamo noi che non vogliamo vederla, sovratutto perchè non va d’accordo col nostro modo di vivere.
In una società la coscienza religiosa è come la corrente d’un fiume. Se il fiume scorre gli è perchè c’è l’avviamento della corrente. E se la società vive gli è che e’ è una coscienza religiosa la quale determina la corrente che seguono, più o meno a loro insaputa, gli uomini di questa società.
Pertanto in ogni società c’è sempre stata e ci sarà sempre una coscienza religiosa. Ed è in conformità di questa coscienza religiosa che si sono sempre valutati i sentimenti espressi dall’arte. È solo sul fondamento di questa coscienza religiosa del tempo loro che gli uomini hanno potuto distinguere, nella varietà infinita del dominio dell’arte, i soggetti capaci di produrre dei sentimenti conformi all’ideale religioso del loro tempo. E l’arte che esprimesse tali sentimenti fu sempre grandemente stimata; mentre quella che traduceva dei sentimenti sgorganti dalla coscienza religiosa di epoche anteriori, dei sentimenti logori e vieti, fu sempre sdegnata e abbandonata. E quanto a tutta quell’arte che esprimeva la varietà infinita degli altri sentimenti d’ogni specie, quella non era ammessa e incoraggiata se non in quanto i sentimenti che essa esprimeva non fossero contrari alla coscienza religiosa. Così per esempio presso i Greci si distingueva, s’approvava e s’incoraggiava l’arte che esprimeva i sentimenti della bellezza, della forza, della virilità (Esiodo, Omero, Fidia), mentre si condannava e si sprezzava l’arte che traduceva dei sentimenti di sensualità grossolana, d’abbiezione, e di tristezza. Presso gli Ebrei si ammetteva e s’incoraggiava l’arte che esprimeva dei sentimenti di sommissione verso il Dio degli Ebrei, mentre si condannava e si disprezzava l’arte che esprimeva dei sentimenti d’idolatria; e tutto il resto dell’arte, racconti, canti, ornamenti delle case, vasellame, vesti, purchè non cozzasse colla coscienza religiosa, non era nè condannato nè incoraggiato. Così l’arte, sempre e dappertutto, era stimata secondo il suo contenuto; e così dovrebbe sempre essere stimata, poichè questo modo di considerar l’arte defluisce dall’essenza stessa della natura umana, e questa essenza è sempre invariabile.
Non ignoro che secondo un’opinione ai nostri tempi diffusa, la religione è un pregiudizio di cui l’umanità s’è finalmente liberata; e da ciò risulterebbe che nel tempo nostro non c’è coscienza religiosa comune a tutti gli uomini, la quale quindi possa servir di base a una valutazione dell’arte. E so pure che questa opinione è ritenuta quella delle classi più colte della nostra società. Degli uomini, che non volendo riconoscere il vero senso del Cristianesimo, inventano ogni sorta di dottrine filosofiche ed estetiche per nascondere ai propri occhi l’irragionevolezza e la bassezza della loro vita, tali uomini non possono avere altra opinione. Sinceramente o no essi confondono l’idea d’un culto religioso con quella d’una coscienza religiosa; e respingendo il culto, s’imaginano di respingere colla medesima mossa la coscienza religiosa. Ma tutti questi assalti contro la religione, e questi tentativi di stabilire una filosofia contraria alla coscienza religiosa del nostro tempo, tuttociò prova abbastanza chiaramente che questa coscienza esiste, e che essa accusa la vita degli uomini che l’attaccano, e la contraddice.
Se nell’umanità c’è un progresso, cioè un cammino per cui s’avanza, dev’esserci necessariamente qualche cosa che designi agli uomini la direzione da seguire in questo cammino. Ora questo è sempre stato il compito delle religioni. Tutta la storia ci mostra che il progresso dell’umanità è sempre avvenuto sotto la guida d’una religione. E poichè il progresso non s’arresta, poichè in conseguenza deve aver luogo anche nel nostro tempo, se ne conchiude che anche il nostro tempo ha una religione propria. E se la nostra età, come tutte le altre, ha la sua religione, egli è sul fondamento di questa religione che deve essere stimata l’arte nostra, e debbono essere stimate e incoraggiate quelle sole opere d’arte che sgorgano dalla religione del nostro tempo mentre tutte le opere contrarie a questa religione devono essere condannate, e tutto il resto dell’arte dev’essere trattato con indifferenza.
Ora, la coscienza religiosa del nostro tempo in termini generali, consiste nel riconoscere che la nostra felicità materiale e spirituale, individuale e collettiva, momentanea e permanente, risiede nella fraternità di tutti gli uomini, nella nostra unione per una vita comune. Questa coscienza non solo si trova affermata sotto le forme più diverse, dagli uomini del nostro tempo, ma è dessa che serve di filo conduttore a tutto il lavoro dell’umanità, lavoro che ha per oggetto da una parte la soppressione di tutte le barriere fisiche e morali, che s’oppongono all’unione degli uomini, e dall’altra l’assodamento di principii comuni a tutti gli uomini che possano unirli tutti in una stessa fraternità universale. Egli è pertanto sul fondamento di questa coscienza religiosa che dobbiamo valutare tutte le manifestazioni della nostra vita, e tra queste, l’arte nostra; distinguendo tra tutto il resto nei prodotti di quest’arte quelli che esprimono dei sentimenti in accordo con questa coscienza religiosa, e respingendo e condannando tutti quelli che sono contrarii a questa coscienza.
L’errore principale che commisero le classi superiori della società al tempo del così detto Rinascimento e che noi continuiamo a commettere dopo d’allora, non risiede tanto nell’aver l’uomo cessato di pregiare il senso dell’arte religiosa, quanto piuttosto nell’avere stabilito al posto dell’arte religiosa scomparsa un’arte indifferente che non ha per fine che il semplice divertimento e non merita punto d’essere tanto stimata e incoraggiata.
Uno dei Padri della Chiesa diceva che la peggior disgrazia per gli uomini non è quella di non conoscere Dio ma di aver messo al posto di Dio ciò che non è Dio. Per l’arte siamo nello stesso caso. La peggior disgrazia delle classi superiori del nostro tempo non è il mancare d’un’arte religiosa, ma che al posto elevato dove non meritava d’essere collocata che questa sola arte, sola importante e degna d’essere incoraggiata, hanno innalzato un’arte indifferente, o anche più di sovente funesta, che obbedisce al fine di divertire alcuni uomini, ed è per ciò stesso contraria al principio cristiano dell’unione universale, che forma il fondo della coscienza religiosa del nostro tempo.
Senza dubbio, l’arte che soddisferebbe alle aspirazioni religiose del nostro tempo non potrebbe aver nulla di comune colle qualità d’arte delle età passate; ma questa differenza non toglie che l’ideale dell’arte religiosa del nostro tempo sia perfettamente chiaro e definito per chiunque riflette e non s’allontana di proposito dalla verità. Nelle età anteriori, quando la coscienza religiosa non univa ancora che un gruppo solo d’uomini — i cittadini ebrei, ateniesi, o romani — i sentimenti espressi dall’arte di quei tempi scaturivano dal desiderio di potenza, di grandezza, di gloria propria di ciascuno di quei gruppi, e l’arte poteva anche assumere come eroi degli uomini che adoperavano per il bene del loro gruppo la violenza o l’astuzia (Ulisse, Ercole, e in generale gli eroi antichi). Al contrario la coscienza religiosa del nostro tempo non ammette dei gruppi separati tra gli uomini, ma esige l’unione di tutti gli uomini senza eccezione, e sopra tutte le altre virtù colloca l’amor fraterno dell’umanità intiera; perciò i sentimenti che deve esprimere l’arte del nostro tempo non solo non possono coincidere con quelli delle arti anteriori, ma si trovano per forza in opposizione con quelli.
E se finora un’arte cristiana, ma veramente cristiana, non s’è mai potuta stabilire, ciò dipende per l’appunto da questo: che il concetto religioso cristiano non è stato uno di quei piccoli passi avanti, quali ne fa di continuo il genere umano, ma bensì una rivoluzione enorme, destinata a modificare da cima a fondo, presto o tardi, il modo di vivere degli uomini e i loro sentimenti. Il concetto cristiano ha dato una direzione differente e nuova a tutti i sentimenti dell’umanità; quindi doveva pure di necessità modificare totalmente la materia e il significato dell’arte. Ai Greci fu possibile trar partito dall’arte dei Persiani, e ai Romani da quella dei Greci, come pure agli Ebrei da quella degli Egiziani, essendo identica la base dei loro ideali. Infatti l’ideale dei Persiani era la grandezza e la prosperità dei Persiani; quello dei Greci la grandezza e la prosperità dei Greci. Così una stessa arte si poteva trasportare in un nuovo ambiente e adattarsi ad altre nazioni. Ma l’ideale cristiano al contrario ha modificato, anzi rovesciato tutti gli altri di modo che come si dice nel Vangelo: “Ciò che era grande nel cospetto degli uomini, è diventato piccolo nel cospetto di Dio.„ Quest’ideale non fu più riposto nella potenza, come era quello degli Egiziani, e nemmeno nella ricchezza, come quello dei Fenici, o nella bellezza, come quello dei Greci, ma nell’umiltà, nella rassegnazione, nell’amore. L’eroe, oramai, non fu più il ricco, ma Lazzaro il mendicante. Maria l’Egiziaca parve degna d’essere ammirata non all’epoca della sua bellezza, ma in quella del suo pentimento. Non si celebrò come virtù l’ammassare ricchezze, ma il rinunciare ad esse. E l’oggetto supremo dell’arte non fu più la glorificazione della riuscita, ma la rappresentazione d’un’anima umana, così riboccante d’amore che rendeva possibile al martire di compiangere e d’amare i suoi persecutori.
E così si spiega perchè il mondo cristiano duri tanta fatica a svincolarsi dall’arte pagana a cui s’è avvezzo. Il contenuto dell’arte religiosa cristiana è per gli uomini cosa tanto nuova, tanto differente dal contenuto dell’arte anteriore, che essi provano di leggeri l’ impressione che codest’arte cristiana sia la negazione dell’arte, e s’aggrappano disperatamente al loro antico ideale artistico. Ma d’altro lato codesto concetto critico, oramai non derivando più dalla nostra coscienza religiosa, ha perduto per noi ogni significato, talchè, per amore o per forza, siamo costretti a staccarcene.
L’essenza della coscienza cristiana sta in ciò che ogni uomo riconosce la sua discendenza divina, e come corollario di questa discendenza l’unione di tutti gli uomini con Dio e tra di loro, secondochè è scritto nel Vangelo (S. Giov., XVII, 21), e ne risulta che la sola vera materia dell’arte cristiana debbono essere tutti i sentimenti atti a effettuare l’unione degli uomini con Dio e tra di loro.
Queste parole l’unione degli uomini con Dio e tra di loro, per quanto possano sembrare oscure a menti offuscate da preconcetti, hanno un senso perfettamente chiaro. Significano che l’unione cristiana, contrariamente alla unione parziale e esclusiva di alcuni uomini, unisce tra di loro tutti gli uomini senza eccezione. Ora è proprietà essenziale dell’arte, di ogni arte, quella d’unire gli uomini tra loro.
Ogni arte ha per effetto che gli uomini che ricevono il sentimento trasmesso dall’artista si trovano per questo fatto uniti, prima coll’artista stesso, e poi con tutti gli altri uomini che ricevono la medesima impressione. Ma l’arte non cristiana unendo tra di loro alcuni uomini, per ciò appunto isola codesti uomini dal resto dell’umanità, di modo che questa unione parziale è spesso causa d’allontanamento rispetto ad altri uomini. L’arte cristiana al contrario è quella che unisce tutti gli uomini senza eccezione. E può ottenere questo fine in due modi: o evocando in tutti gli uomini la coscienza della loro parentela con Dio e tra di loro; oppure anche evocando in tutti gli uomini uno stesso sentimento, per semplice che sia, purchè non sia contrario al Cristianesimo e possa estendersi a tutti gli uomini senza eccezioni. Solo questi due ordini di sentimenti possono formare al nostro tempo la materia dell’arte buona, quanto al contenuto.
Pertanto oggigiorno ci possono essere due specie d’arte cristiana: 1.° l’arte che esprime dei sentimenti derivati dal nostro concetto religioso, cioè dal concetto della nostra parentela con Dio e cogli altri uomini; 2.° l’arte che esprime dei sentimenti accessibili a tutti gli uomini del mondo intero. La prima di queste due forme è quella dell’arte religiosa nel senso stretto del vocabolo: la seconda quella dell’arte universale.
L’arte religiosa poi si può dividere in due specie: un’arte superiore e un’arte inferiore. L’arte religiosa superiore è quella che esprime direttamente e immediatamente dei sentimenti derivati dall’amor di Dio e dall’amor del prossimo; l’arte religiosa inferiore è quella che esprime dei sentimenti di malcontento, di delusione, di disprezzo per tutto ciò che è contrario all’amor di Dio e del prossimo.
E l’arte universale alla sua volta si può dividere in arte superiore accessibile a tutti gli uomini sempre e dappertutto, e in arte inferiore accessibile solamente a tutti gli uomini d’una certa nazione e d’una certa epoca.
La prima delle due grandi forme dell’arte, quella dell’arte religiosa, superiore o inferiore, si manifesta sopratutto nelle lettere, e talvolta pure nella pittura e nella scultura; la seconda forma, quella dell’arte universale, esprimente sentimenti accessibili a tutti, può concretarsi nelle lettere, nella pittura, nella scultura, nella danza, nell’architettura, ma particolarmente nella musica.
Che se ora mi chiedeste di designare nell’arte moderna dei modelli di ciascuna di queste forme dell’arte, e io primo luogo dei modelli dell’arte religiosa, sia superiore sia inferiore, indicherò di preferenza tra i contemporanei Vittore Hugo coi suoi Miserables e Pauvres gens; indicherò ancora tutti i romanzi e tutte le novelle di Carlo Dickens, le Due Città, le Campane del Natale, ecc.; indicherò la Capanna dello zio Tom, e le opere del Dostojevsky, sovratutto la sua Casa dei morti, e Adam Bede di Giorgio Eliot.
Nella pittura contemporanea, strano a dirsi, esistono appena opere d’arte di questa fatta, che rendano il sentimento cristiano dell’amor di Dio e del prossimo; o quelle che se ne trovano, appartengono in genere a pittori mediocri. Ci sono bensì in gran quantità dei quadri di scene del Vangelo; ma non sono che rappresentazioni storiche, ricostituite con più meno di particolari; nessuna esprime, nè potrebbe esprimere, il sentimento religioso che manca ai loro autori. C’è pure un buon dato di quadri che rendono i sentimenti personali di certi pittori. Ma dei quadri che esaltino la rinunzia a sè stessi e la carità cristiana non ne conosco. È molto che di quando in quando si trovi nell’opera di qualche pittore secondario, un quadro che esprima sentimenti di bontà e di compassione. Altri quadri, d’un genere prossimo, ci rappresentano con simpatia e rispetto la vita dei lavoratori. Così per esempio l’Angelus del Millet, il suo Homme à la houe; tali ancora certi dipinti di Jules Breton, del Lhermitte, del Defregger, ecc. Potrei pure citare qualche quadro appartenente fino a un certo segno all’arte religiosa inferiore, vale a dire eccitante in noi l’odio per ciò che è contrario all’amor di Dio e del prossimo; per esempio il Tribunale del pittore Gay. Ma anche questi quadri sono rarissimi. La cura della tecnica e della bellezza il più delle volte offusca nei pittori il sentimento. Per esempio il celebre quadro del Gèróme, Pollice verso, non esprime punto l’orrore del soggetto che rappresenta, ma piuttosto il piacere provato dall’artista nel dipingere un bello spettacolo.
Ma stenterei ancora di più a designare nell’arte contemporanea dei modelli della seconda forma dell’arte, quella che esprime del sentimenti accessibili a tutti gli uomini, o anche solo a un popolo intiero. Si trovano bene delle opere che, per la natura degli argomenti, potrebbero essere classificate in questa categoria: per esempio il Don Chisciotte, le commedie di Molière, il Pickwick Club del Dickens, i racconti di Gogol, di Puschkin, alcuni del Maupassant, ed anche i romanzi di Dumas padre; ma tutte queste opere esprimono dei sentimenti così individuali, e lasciano tanto posto alle particolarità dei tempi e dei luoghi, e sopratutto hanno un fondo così povero, che non sono accessibili se non agli uomini d’un’epoca molto ristretta, e non possono sostenere il confronto coi capolavori dell’arte universale d’una volta.
Prendete, per esempio, la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, Dei, fratelli di Giuseppe che lo vendono a mercatanti per gelosia del favore che egli gode presso il padre; la moglie di Putiphar che vuol sedurre Giuseppe; questi che perdona i fratelli e il resto: eccovi dei sentimenti accessibili al contadino russo, al chinese, all’africano, al bambino e al vegliardo, al letterato e all’illetterato; e tutto ciò è scritto con tanta sobrietà, senza particolari inutili, che potete trasportare il racconto in qualunque altro ambiente senza che perda nulla della sua chiarezza e del suo patetico. Come sono diversi i sentimenti di Don Chisciotte, o degli eroi di Molière, benchè Molière sia l’artista più universale, e perciò il più grande dell’arte moderna! E quanto sono ancora più diversi i sentimenti di Pickwic o degli eroi di Gogol! Essi sono d’uno stampo così speciale, che per dar loro tutto il risalto, gli autori dovettero sopraccaricarli di particolari di tempo e di luogo. E questa sovrabbondanza di particolari li rende inaccessibili a tutti coloro che vivono in un ambiente diverso da quello descritto dall’autore.
L’autore della storia di Giuseppe non ha creduto necessario descriverci minutamente, come si farebbe ora, la veste insanguinata di Giuseppe, o il vestire di Giacobbe e la casa che egli abitava, o l’acconciatura della moglie di Putiphar. I sentimenti espressi in questo racconto sono così forti, che tutti i particolari di quel genere sembrerebbero superflui e nocerebbero alla loro espressione. L’autore non ha conservato che i tratti indispensabili, come per esempio quando ci dice che Giuseppe, trovando i suoi fratelli, andò in una camera vicina per piangere. Ed è in virtù di quest’assenza di particolari inutili che il racconto è accessibile a tutti gli uomini, che commuove gli uomini di tutte le nazioni, di tutte le età, di tutte le condizioni, che è giunto sino a noi attraverso ai secoli e sopravviverà a noi delle migliaia d’anni. Provatevi al contrario a spogliare dei particolari accessorii i migliori romanzi del nostro tempo e vedrete quello che ne resterà!
Insomma nella letteratura moderna non è quasi possibile trovare qualche opera che soddisfi pienamente alle condizioni dell’universalità. E le poche opere che, per il loro contenuto, potrebbero soddisfare a questa condizione, per lo più sono guaste da quello che si chiama il realismo, e che si potrebbe piuttosto chiamare il provincialismo dell’arte.
Lo stesso avviene nella musica e per le stesse ragioni. In seguito all’impoverimento del fondo, cioè dei sentimenti, le melodie dei musicisti moderni presentano un vuoto desolante. Per rinforzare l’impressione di siffatte melodie così vuote, i musicisti s’ingegnano di sopraccaricarle con un mondo d’armonie e di modulazioni complicate, che sono intelligibili solo a una piccola cerchia d’iniziati, a una certa scuola musicale. La melodia, ogni melodia, è libera e può essere intesa da tutti; ma quando si trova vincolata con una certa armonia, non è più accessibile che agli uomini famigliarizzati con questa armonia; essa diventa estranea non solo agli uomini delle altre nazioni, ma anche a tutti quelli fra i compaesani dell’autore che non sono avvezzi come lui a certe forme dello svolgimento musicale.
All’infuori delle marcie e delle danze, che esprimono dei sentimenti inferiori, ma veramente comuni alla massa degli uomini, il numero delle opere rispondenti alla nostra definizione dell’arte universale è grandemente ristretto. Citerò, per esempio, la celebre Aria di Bach, il Notturno in mi bemolle maggiore di Chopin, e una decina di passi scelti nelle opere di Haydn, di Mozart, di Weber, di Beethoven, e di Chopin.1
Anche nella pittura si offre il medesimo fenomeno, e al pari dei letterati e dei musicisti, i pittori suppliscono alla povertà del sentimento colla profusione degli accessorii, restringendo così il significato delle loro opere. Tuttavia è molto maggiore nella pittura che nelle altre arti il numero delle opere che soddisfanno alle condizioni dell’universalità, cioè che esprimono dei sentimenti comuni a tutti gli uomini. Ritratti, paesaggi, pittura di genere, potrei addurre una quantità d’opere di pittori moderni, e anche contemporanei, che esprimono dei sentimenti tali che tutti gli uomini sono in grado di capirli.
Riassumendo, non ci sono che due sorta d’arte cristiana, cioè d’arte che oggi si debba considerare come buona; e tutto il resto, tutte le opere che non entrano in queste due categorie, devono essere considerate come arte cattiva che non solo non merita d’essere incoraggiata, ma merita al contrario d’essere condannata e disprezzata, avendo per effetto non già di unire, ma di separare gli uomini. Nelle lettere questo è il caso dei drammi, dei romanzi, delle poesie che esprimono dei sentimenti esclusivi, proprii alla sola classe dei ricchi e degli oziosi, dei sentimenti d’onore aristocratico, di pessimismo, di corruzione e di pervertimento dell’anima risultante dall’amore sessuale. In pittura si dovrebbero tener per cattive tutte le opere che rappresentano i piaceri e i divertimenti della vita ricca e oziosa, e anche tutte le opere simboliste, nelle quali il significato del simbolo non è accessibile che a un piccolo numero di persone, e sovrattutto le opere rappresentanti dei soggetti voluttuosi, tutte quelle nudità scandalose che oggidì riempiono i musei e le esposizioni. E alla stessa categoria d’opere cattive e condannabili appartiene tutta la musica del nostro tempo, musica che non esprime se non dei sentimenti esclusivi, e non è accessibile che ad uomini di gusto depravato. Tutta la nostra musica d’opera e di camera, cominciando da Beethoven, la musica di Schumann, di Berlioz, di Liszt, di Wagner, tutta intesa a esprimere dei sentimenti che non possono capire se non quelli che coltivarono in sè stessi una sensibilità nervosa di genere morboso, tutta questa musica, salvo rare eccezioni, partecipa dell’arte che si deve considerare come cattiva.
— Come!, si griderà, la nona sinfonia entra nella categoria dell’arte cattiva?
— Certamente! risponderò io. Tutto ciò che ho scritto e che s’è finito di leggere, l’ho scritto solo per giungere a stabilire un criterio chiaro e ragionevole, che ci concedesse di giudicare il valore delle opere d’arte. E ora questo criterio mi prova nel modo più lampante che la nona sinfonia del Beethoven non è una buona opera d’arte. D’altro lato intendo che ciò paia strano e sorprendente ad uomini allevati nell’adorazione di certe opere e dei loro autori. Ma non dovrei io perciò inchinarmi alla verità, quale me l’indica la mia ragione?
La nona sinfonia del Beethoven è riputata una delle più grandi opere d’arte. Per rendermi conto del come stia la cosa, mi propongo prima di tutto il seguente quesito: quest’opera esprime essa un sentimento religioso d’ordine superiore? E rispondo subito con una denegazione, perchè in nessun caso la musica saprebbe esprimere dei sentimenti simili. Mi domando di nuovo: quest’opera se non può appartenere alla categoria superiore dell’arte religiosa, possiede almeno la seconda qualità dell’arte vera del nostro tempo, cioè quella d’unire tutti gli uomini in un medesimo sentimento? E anche questa volta non posso rispondere che negativamente; perchè in primo luogo non vedo che i sentimenti espressi da questa sinfonia possano in alcuna guisa unire gli uomini che non siano stati specialmente educati e preparati a subire quell’ipnotizzazione artificiale; e poi non giungo a rappresentarmi una folla d’uomini normalmente costituiti che possa capire qualche cosa in quest’opera enorme e complicata, salvo dei brevi passi annegati in un oceano d’incomprensibilità. E così, per amore o per forza, debbo conchiudere che questo lavoro appartiene a ciò che è per me l’arte cattiva. Per un caso singolare, la poesia dello Schiller introdotta nell’ultima parte della sinfonia, enuncia, se non chiaramente, almeno espressamente questo pensiero: che il sentimento (Schiller veramente non parla che del sentimento della gioia) unisce tutti gli uomini e genera in essi l’amore. Ma oltrechè questi versi non sono cantati che alla fine della sinfonia, la musica della sinfonia intiera non corrisponde affatto al pensiero espresso dallo Schiller, poichè è una musica affatto particolarista, che non contenta tutti gli uomini, ma solo alcuni uomini cui essa contribuisce così a isolare dal resto dell’umanità.
Tale è, a mio giudizio, il modo in cui si deve procedere per sapere se un’opera che è creduta opera d’arte è veramente un’opera d’arte oppure ne è la semplice contraffazione; e per sapere in seguito se un’opera d’arte vera è buona o cattiva, quanto al suo contenuto, cioè merita d’essere incoraggiata, o non merita che d’essere disprezzata. Ed è solo procedendo così che avremo la possibilità di discernere, per entro la massa delle pretese opere d’arte del nostro tempo, le poche opere che costituiscono realmente per l’anima un alimento reale, importante, necessario, mentre tutto il resto non è che arte inutile o nociva, o anche una semplice contraffazione dell’arte. È solo procedendo così che saremo in grado di evitare le conseguenze perniciose dell’arte cattiva, e di godere di quegli effetti benefici, indispensabili per la nostra vita spirituale, che risultano dall’arte vera e buona e che costituiscono il suo fine.
Note
- ↑ Adducendo questi titoli delle opere d’arte che ritengo le migliori tra le moderne, sono lontano dal pretendere di dare un giudizio definitivo di queste opere; poichè non solo non ho l’esperienza occorrente per valutare tutte le produzioni artistiche, ma per giunta appartengo io stesso a quella specie d’uomini che ebbero per tempo depravato il gusto da una cattiva educazione. Quindi è possibilissimo che colle mie vecchie abitudini connaturate con me io m’inganni su parecchi punti, attribuendo un valore artistico superiore ad impressioni famigliari a me sino dall’infanzia. Ma se enumero così certe opere di diverse categorie, lo faccio solo per ispiegar meglio il mio pensiero, e per dimostrar meglio come ora io intenda la perfezione nell’arte. E debbo aggiungere ancora che schiero nella classe dell’arte cattiva tutte le mie proprie opere artistiche, eccettuato il racconto Dio vede la Verità col quale volli fare un’opera d’arte religiosa, e quell’altra mia narrazione Nel Caucaso, che mi sembra appartenere alla seconda delle categorie che ritengo accettabili.