Castel Gavone/XIV
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CAPITOLO XIV.
Dove si vede che la notte non è sempre fatta per dormire.
Che era egli avvenuto?
Per chiarire aggiustatamente la cosa, ci bisognerà saltare indietro un’ora ed un miglio, o giù di lì; non volendo io (e probabilmente neanco i lettori) far cammino a ritroso, fino alla tenda di messer Pietro Fregoso a’ suoi abboccamenti, da prima col Sangonetto, indi con Giacomo Pico.
Intorno ai quali, basterà il dire che la Gilda, guidata dal filo della sua gelosia, aveva indovinato il loro disegno. Il Bardineto, per vendicarsi delle ripulse di madonna Nicolosina, vendeva ai genovesi il castello. Messer Pietro Fregoso, da buon capitano, profittava d’ogni occasione che gli venisse profferta; e questa del Pico, che gli agevolava di tanto il conquisto della terra assediata, doveva parergli la man di Dio, senza più.
Il castel Gavone, murato in alto, come ho già detto, a cavaliere del Borgo, su d’un contrafforte della roccia di Pertica, era un validissimo arnese che ai nemici non poteva neppur girare per la fantasia di pigliare d’assalto, almeno, fino a tanto non fossero padroni del Borgo e liberi di voltargli contro tutto lo sforzo delle loro soldatesche e dei loro ingegni di guerra. Anche dopo esser venuti a stringer l’assedio del Finaro dalla parte dell’Appennino, dovevano essi contentarsi di vedere da lungi quella mole solitaria e superba, poichè la roccia di Pertica, che si rizzava alle sue spalle, era inaccessibile ad un esercito; e quanto poi allo inerpicarsi sul greppo del castello medesimo, per dare a questo una brava scalata, le necessità quotidiane dell’assedio intorno alla città sottoposta, non ne concedevano loro il tempo, nè il modo.
E ciò senza mettere in conto che un assalto a quelle mura di granito, contro quelle torri di pietre sfaccettate a punta di diamante, non sarebbe servito a nulla. Soltanto una sorpresa notturna avrebbe approdato; ma questa richiedeva intelligenze segrete, amici, o a dirla più veramente, traditori nel castello.
Ora, da questo lato, il marchese Galeotto dormiva tranquillo i suoi sonni. E se non era che Santino da Riva, prigioniero dei finarini in castel Gavone, avesse fiutato nel Sangonetto una schiuma di ribaldo, se non era che Giacomo Pico, meditando del continuo vendetta, avesse dato facile ascolto alle suggestioni del sozio, e tutti poi avessero pigliato a pretesto della loro perfidia il malcontento di parecchi cittadini del Borgo, a cui pesava la lunghezza dell’assedio, chi sa? il marchese Galeotto avrebbe potuto ancor dire per mesi parecchi del suo dominio, ciò che disse Enea della sua patria a Didone:
Troiaque nunc stares, Priamique arx alta maneres!
Ma pur troppo il castel Gavone, che non doveva avere un Virgilio a cantare la sua misera fine, ebbe in quella vece il suo Sinone, come Troia; anzi peggio di Troia, poichè esso ebbe un Sinone domestico, non forastiero, a tradirlo. Vorrei qui proseguire il parallelo, confrontando l’Elena del Finaro a quell’altra dell’antichità; ma oltre a non essere Virgilio, siccome ho già detto, e come tutti sapevano, prima della mia confessione, non sono neanche Plutarco (e ci corre!); però, con quella discrezione, che dovrebb’essere la dote dei poveri ingegni, mi tiro in disparte e lascio operare a lor posta i miei personaggi.
Or dunque avvenne che l’accordo dei traditori con messer Pietro Fregoso fosse compiuto la mattina del 5 febbraio, cioè a dire quando Giacomo Pico si diede prigioniero, in pegno di sicurezza, ai nemici. Il capitano generale credette allora che si potesse tentare l’impresa; e Giovanni di Trezzo accettò di condurla.
Il Picchiasodo voleva pur dire qualcosa della fuga del Maso, che lo metteva in sospetto. Ma già, il dado era gittato, e pel solo dubbio che al castello fossero avvisati della trama, non si poteva mica rimandarne l’esito a più tarda occasione. Del resto, ogni indugio non avrebbe fatto altro che peggiorare le sorti dell’impresa. E poi, e poi, se il Maso aveva potuto cogliere a volo qualche indizio e andarlo a rifischiare al castello, la colpa non era tutta di lui, Anselmo Campora, che, cedendo a un moto compassionevole della sua ruvida ma schietta indole soldatesca, aveva pigliato a proteggere quel mariuolo del Maso? La conseguenza di questo ragionamento si fu che il Picchiasodo non rifiatò de’ suoi dubbi ad alcuno, ma che egli promise a sè stesso di partecipare ai pericoli di quella notturna sorpresa.
Ora, siccome il nostro bravo Campora solea mettere in tutte le cose sue poco intervallo tra il pensare ed il fare, a mala pena ebbe pigliata questa risoluzione, uscì dalla sua baracca per andarne a chieder licenza a messer Pietro, padron suo riverito.
S’aspettava qualche po’ di contrasto; ma, con sua gran meraviglia, non ci fu nulla.
— Bravo! — gli rispose il capitano generale. — Stavo appunto per mandarti a cercare e chiederti se volevi farmi compagnia.
— Che? come? — farfugliò il Picchiasodo, inarcando le ciglia. — Voi, magnifico messere?
— Sì, io. Che ci trovi di strano?
— Eh, mi sembra che ce ne sia la sua parte. Gli è un colpo ardito, quello che si tenta, con questi furfanti di tre cotte. E se ci andasse a male? Se quei di lassù stessero in guardia? Se fossero stati avvisati?
— Baie! Chi vuoi tu che li abbia avvisati? E fosse pur vero, che vuoi tu che s’aspettino proprio stanotte da noi? E poi, vedi, Anselmo; chi non risica... Lo conosci, il proverbio?
— Non rosica; lo capisco; — soggiunse il Picchiasodo, chinando la fronte.
— Orbene, — proseguì messer Pietro, — ce n’è anche un altro che fa al caso nostro. Dal farle tardi Cristo ti guardi! Ora, questa s’ha da far subito, o mai. Genovese aguzzo, piglialo caldo. —
A queste parole il Picchiasodo non potè ritenersi dal ridere.
— Scusate, messer Pietro; — diss’egli, con piglio di rispettosa dimestichezza; — siete tutto proverbi, stassera.
— Sì mio vecchio compare; perchè il cuore mi promette bene di questo negozio; perchè sono in vena d’allegria. Ah, credi tu che, dopo un anno di sopraccapi, di molestie d’ogni fatta, io non debba veder di buon occhio questa congiuntura propizia? E poichè la si profferisce a noi, e noi la cogliamo, non dovrei venirci io in persona, all’impresa, per ispingerla avanti, se c’è modo di venirne a capo, per rimetterla in sesto, se si fa un buco nell’acqua?
— È vero ciò che dite; — rispose il Picchiasodo; — ma dopo tutto, il vostro risico...
— Che! — sclamò messer Pietro, scuotendo alteramente la testa. — Ci ho la mia stella. Non ti rammenti di Gavi? Eppure, se non me l’hai cantato e ricantato le mille volte: «messer Pierino, badate, noi ci faremo impiccare come tanti assassini di strada!» Il che non toglieva, — soggiunse messer Pietro ridendo, — che in ogni occasione tu fossi il primo a seguirmi e negli scontri picchiassi più sodo degli altri, come non tolse che io fossi restituito alla patria, reintegrato in tutti gli onori della mia casa e fatto capitano generale della repubblica. Statti dunque di buon animo, Anselmo, mio vecchio compagno; il ferro che mi ha da colpire non è ancora entrato in magona. —
A intendere per suo verso l’allusione di messer Pietro Fregoso, bisognerà ricordare che egli, cinque anni addietro, essendo la sua fazione sbandeggiata da Genova ed eletto doge Raffaele Adorno, era stato dichiarato ribelle contro la repubblica. E allora, ridottosi nella terra di Gavi, la quale aveva dianzi ottenuta dal duca Filippo Maria Visconti, messer Pierino (come lo chiamavano ancora, a cagione della sua giovinezza) radunò partigiani, corse il vicinato a sua posta, recando alla repubblica quante più molestie potè. Monsignor Giustiniani, che non lo ebbe in troppo buon concetto, narra di lui negli Annali che «essendo di gran spirito e bisognoso di molte cose, quasi che si mise alla strada e faceva de’ mali assai. Tra i quali, detenne cento venti some di mercanzia di gran valuta, che mulattieri portavano in Francia; e fra l’altre cose vi erano alquante arme per la persona del Re. Del qual fatto il duce Raffaello si risentì assai e ne scrisse lettera a Sua Maestà».
La qual cosa, m’affretto a dirlo, non tolse che fosse un compìto cavalliere, e che, il 3 di febbraio del 1447, tornata la fazione Fregosa al governo della repubblica nella persona di Giano, messer Pietro fosse restituito alla patria e fatto capitano generale della città, indi deputato all’impresa del Finaro, e da ultimo eletto doge a sua volta.
Ma non ci dilunghiamo dal nostro argomento. La notte è calata, notte buia e fredda, siccome si è detto, e gravida di tempesta. Giovanni di Trezzo e i suoi trecento fanti escono silenziosi dal battifolle di Pertica, sfilano leggieri a guisa di ombre davanti a quel pozzo, in cui, la mattina di quel medesimo giorno, aveva pigliato un bagno freddo il povero Falamonica. Spartiti in dieci bandiere, ognuna delle quali constava di trenta uomini, cioè a dire dieci balestre, dieci picche e dieci pavesi, i soldati di Don Giovanni di Trezzo (la dominazione aragonese nel reame di Napoli aveva già sparso l’uso del titolo di Don nella maggior parte dei condottieri italiani) si avviarono per l’erta, seguendo il sentiero indicato loro da Giacomo Pico e da Tommaso Sangonetto. Il quale, a dir vero, non ci andava di buone gambe; ma oramai, volere o volare, bisognava uscirne con manco disdoro e non esser nemmeno degli ultimi sulle mura, poichè il Bardineto gli aveva promesso la sua parte di preda! Tommaso Sangonetto se ne sentiva già correre l’acquolina alla bocca.
Il vento, che scendeva impetuoso dalle gole dei monti, cogliendo di fianco i notturni viandanti, non consentiva loro di correre così spediti come avrebbe desiderato messer Pietro; il quale venia dietro alle schiere, col Campora a lato, e tutto chiuso nel suo mantello, per non dar nell’occhio ai soldati, che dovevano vederlo soltanto ove ciò fosse stato mestieri. Per altro, se il vento rallentava il corso della gente, toglieva altresì che si potesse dall’alto udire il rumore dei passi e lo strepito delle armature.
Le prime ordinanze giunsero per tal guisa sotto alla beltresca che comandava il sentiero, deludendo la vigilanza del soldato di guardia, il quale fu colto nel suo aereo covo, prima che avesse potuto dare ai lontani compagni il grido di sveglia.
Povero Maso! Imperocchè gli era lui, proprio lui, piantato là, come Olimpia sullo scoglio, dal suo vecchio principale. Mastro Bernardo, tutto all’incarico che gli aveva commesso la sua bella nipote, nonchè andarlo a rilevare, non si era più ricordato di lui.
— Povero a me! — disse il Maso in cor suo.
E crebbe la sua giusta paura, allorquando, dietro a quella lunga processione di ombre che gli sfilava da vicino, gli parve di udire la voce del Campora, che sollecitava i più tardi.
— Son fritto! — soggiunse egli, a mo’ di conchiusione, mentre due di quei manigoldi lo veniano legando per bene, come già avevano fatto tre giorni addietro il Tanaglino e il Vernazza.
La masnada frattanto si accostava con passo guardingo alle mura. Nessun rumore, nessun filo di luce, davano indizio di vigilanza nel castello. Don Giovanni di Trezzo incominciava a meravigliarsi della fortuna, che gli faceva guadagnare così agevolmente un premio di trecento scudi d’oro del sole, a lui promesso dal capitano generale se avesse condotta a buon fine l’impresa.
Il castel Gavone, lo rammenteranno i lettori, era munito di fosso da due lati soltanto, cioè da fronte e da tergo, dove perciò era stagliata ad arte la cresta del monte; laddove i fianchi, perchè fondati a scarpa sul masso o abbastanza forti di lor natura, non avevano alcuna di simiglianti difese.
Ad uno di questi fianchi, quello che guarda a levante, i soldati genovesi accostarono le scale. Giacomo Pico fu il primo ad appoggiarne una contro il davanzale di una finestra che metteva al secondo pianerottolo dello scalone interno.
— Che fai? — gli domandò il Sangonetto all’orecchio. — La finestra è chiusa, e a romperla daremo la sveglia.
— No; — rispose l’amico; — lascia fare. La notte scorsa ho tagliato una lista di piombo nella intelaiatura dei vetri. —
Poscia, voltandosi verso Giovanni di Trezzo, che gli stava sempre alle costole, soggiunse:
— Voi, messere, dovreste mandare una parte dei vostri uomini alle spalle del castello, là, dietro la torre della Polvere. Io stesso, appena entrato, andrò ad aprir loro la postierla.
— Sì, sì, non dubitate, compare! — gli rispose Giovanni di Trezzo. — Io salirò con voi e v’accompagnerò io stesso alla porta. Ma prima di tutto, aspettate; vo’ fare un po’ di rumore.
— Perchè?
— Il perchè va lo dico subito, A Venezia, dove ho servito qualche anno, ci ho imparato una gran massima, che credo l’abbiano trovata in Grecia, nella tomba dei sette Sapienti. «Da chi mi fido mi guardi Iddio; da chi non mi fido mi guarderò io.» Ora, vedete, messer Pico; io non vo’ dar molestie a nostro Signore, e non mi fido mai di nessuno. —
Così dicendo, l’astuto condottiero col pomo della spada venia battendo sui muri del castello. Nessun rumore di dentro accennò che il suono dell’arme fosse stato udito dagli abitatori del luogo. Del resto, a quell’ora, null’altro si sarebbe potuto udire che il mugghio continuo del vento nelle gole e il baturlo del tuono sulle montagne vicine.
— Sta bene; ed ora insegnatemi la strada; — disse Giovanni di Trezzo.
Il Bardineto ascese prontamente la scala; Giovanni, presa la spada tra i denti, gli venne alle calcagna.
Frattanto un’altra scala era rizzata poco lunge da Tommaso Sangonetto. I suoi capi poggiavano sul davanzale di una finestra, che Giacomo Pico doveva aprirgli, a mala pena entrato nel castello.
L’ascensione fu compiuta senza ostacoli. Dietro al Bardineto e a Giovanni di Trezzo s’erano inerpicati quattordici soldati. Poco stante si udì un lieve scricchiolio. Giacomo Pico aveva potuto, mercè la sua precauzione della notte antecedente, togliere una lastra di vetro dai margini di piombo e giungere colla mano al paletto. L’imposta girò lenta sui cardini, e il Bardineto e Giovanni di Trezzo, afferrando il davanzale, sparivano prontamente nel vano. I quattordici soldati che li seguivano su per la scala, ad uno ad uno, lesti come scoiattoli, guizzarono dentro.
Il medesimo avvenne dei loro compagni che erano sull’altra scala, poichè il Bardineto ebbe aperta la finestra all’amico. E tutto questo in brevissimo spazio di tempo, senza strepito, o con pochissimo, che il vento non lasciò giungere fino alla sala di guardia; la quale era sulla fronte del castello, tra la saracinesca e il ponte levatoio, secondo il costume d’allora.
Messer Pietro mandò allora una parte degli uomini rasente il muro, fin dietro alla torre della polvere, in agguato alla postierla che doveva esser loro aperta da Giacomo Pico.
Ogni cosa procedette a seconda. Ma se non si aveva ad udire lo strepito di fuori, ben si ebbe ad udirlo quando fu dentro le mura e pe’ corridoi del castello. E fu appunto il saltar degli uomini dal davanzale della finestra sul pianerottolo e il loro spandersi su e giù per le scale, che diè nell’orecchio alle due donne su in alto.
Lo strano rumore fu udito altresì in una camera appartata del primo piano, dov’era il più ragguardevole abitatore del castello e il più interessato in quella bisogna, poichè il colpo degli assalitori notturni era rivolto contro di lui.
Il marchese Galeotto si era da forse un’ora ridotto nelle sue stanze, per prendere un po’ di riposo da tante fatiche e sopraccapi del giorno. Madonna Bannina, la fida compagna della sua giovinezza, ancora travagliata dalla sua ferita, dormiva accanto a lui d’un sonno leggiero, come soglion le donne e gl’infermi. In una cameretta poco lunge da essi, riposava lo scudiero del marchese e suo consanguineo, Antonio Porro, giovine robusto e valente, che molto amava Galeotto e in cui questi a ragione riponeva ogni fede.
Era triste in quell’ora, il marchese Galeotto, e i neri presentimenti, di cui aveva pur dianzi toccato madonna Nicolosina alla Gilda, gli giravano per la fantasia, disviandogli il sonno. Sopra tutto, e con una pertinacia di cui non poteva farsi ragione, gli tornavano in mente le parole della vecchia di Savona, Giacomo traditore? Giacomo, il suo antico scudiero, cresciuto al suo fianco, il suo compagno d’armi, il suo salvatore, tradirlo? e perchè? Come poi l’avviso salutare doveva egli venirgli così da lontano? Certo, taluno a cui sapea male di quella sua fede in un semplice vassallo, non osando assalirlo da vicino e di fronte, aveva soffiata quella calunnia negli orecchi alla vecchia pazza; ed ella, pur di parere illuminata da uno spirito, era corsa a recargli la malaugurata novella. E in mal punto, davvero; poichè Giacomo Pico, l’uomo contro cui si muovevano così nefandi sospetti, quel medesimo giorno, in servizio del suo signore, combattendo da valoroso, era caduto nelle insidie nemiche.
Questo diceva la fede, dall’animo di Galeotto. Eppure, bisbigliava il dubbio, eppure....
In quel mentre gli venne udito un insolito rumore, come d’uomini che cautamente, ma senza, poter spegnere affatto il suono dei passi e il tintinnio delle armi, battessero de’ piedi sull’impiantito d’un corridoio lontano.
Si rizzò tosto fuor delle coltri e stette coll’orecchio teso in ascolto. Quello strepito continuava, anzi venia sempre crescendo; laonde egli fu pronto a balzare da letto, per correre alla volta dell’uscio.
Madonna Bannina si svegliò in soprassalto.
— Che è? — dimandò ella sbigottita, vedendo in quell’ansia il marito.
— Bannina mia, siamo traditi! — gridò egli, con voce tremante dallo sdegno.
E uscito dalle sue stanze, s’imbattè in Antonio Porro, il quale, non avendo ancora potuto pigliar sonno, stava al pari di lui in ascolto sull’uscio della sua camera.
Antonio vide il marchese, e i loro occhi si ricambiarono i comuni sospetti.
— Il nemico? — chiese Galeotto sommessamente ad Antonio.
— Chetatevi, mio signore! Vado a vedere.
— No, no! Ti faresti ammazzare senza alcun frutto. Non senti? Son già nella gran sala. —
Antonio, che già era persuaso della inutilità dell’andare, e soltanto si era profferto per divozione al marchese, si affrettò a sbarrare la porta.
— Fuggite, dunque, messere! fuggite! — diceva egli frattanto.
— Fuggire! e come? e lascierò i miei.... la mia casa?
— Provvedete alla salvezza vostra, Galeotto! — disse madonna Bannina, che lo aveva seguito. — Voi libero, niente è perduto. Accogliete il consiglio di Antonio e la mia preghiera. —
Il marchese non sapeva risolversi. Darla vinta del tutto ai traditori gli cuoceva; cadere in balìa dei genovesi gli parea troppo grande vergogna. E in tal contrasto esitava.
— Orsù, egli non c’è tempo da perdere; — disse Antonio Porro. — Madonna, vi prego, annodate le lenzuola del letto, il copertoio, quanto vi capita alle mani. Io faccio la via. —
E si volse alla finestra dell’anticamera di Galeotto, nella quale si erano in quel trambusto ridotti. Una inferriata diritta ne chiudeva il vano. Antonio Porro afferrò le spranghe e le scosse con tutto il vigore de’ suoi polsi d’acciaio. Traballarono quelle; ma Antonio, dalla resistenza che avevano fatta, giudicò che troppi scrolli sarebbero bisognati a schiantarle, e in quelle strette ogni istante era prezioso, per la salvezza del suo signore.
Perciò, mentre Galeotto lo venia guardando ansioso, e madonna Bannina colla sollecitudine dell’affetto e dalla paura stava annodando i pannilini della sua camera a foggia di corda, Antonio Porro si trasse indietro alcuni passi, raccolse le membra, strinse le pugna sul petto, e veloce, impetuoso, come un braccio di catapulta, si scagliò contro l’inferriata con tutto l’urto delle sue spalle poderose.
Le sbarre percosse si piegarono in fuori, segno che parecchi dei capi si erano smossi dai loro alveoli di piombo. Un nuovo urto, non meno poderoso del primo, svelse a dirittura una parte dell’inferriata dal suo stipite di pietra.
Intanto nelle mura del castello il frastuono cresceva. I soldati di guardia, udito il rumore degl’invadenti nemici, erano accorsi a difesa, e per le scale, pe’ corridoi, dovunque gli uni negli altri s’imbattevano, era una pugna cieca e feroce.
Antonio legò saldamente un capo delle lenzuola ad un tronco di sbarra, che era rimasto infitto nel davanzale, e senza far motto indicò la via di salvezza al padrone.
— Mio buon Antonio! — esclamò il marchese, con piglio amorevole.
— Andate, messere, andate!
— Raccomando alle tue cure la mia povera moglie! — soggiunse Galeotto, colle lagrime agli occhi.
E stretta al seno la fedele compagna della sua vita, a baciatala in fronte, si spiccò dalla camera, per raccomandarsi a quel fragile sostegno, che dovea porlo in salvo a’ piè delle mura.
— Corro al Borgo! — diss’egli, nell’atto di scavalcar la finestra.
— No, messere, non lo fate! — gridò Antonio Porro. — Chi vi assicura che il Borgo non sia già caduto in potere dei nemici? Prendete la via dei monti; correte a San Giacomo.
— Addio dunque, Bannina! — ripigliò Galeotto. — Ma no, a rivederci, tra breve, in Millesimo, se mi sarà dato di giungere fin là. A te il capitano dei genovesi concederà prontamente il riscatto, che non vorrà infellonire contro una donna. —
Ciò detto, si aggrappò alla fune e si commise nel vuoto.
La discesa fu agevole e sicura fino a due terzi dello spazio che gli bisognava percorrere. Ma giunto a poca distanza da terra, o perchè uno di que’ pannilini non fosse saldamente annodato, o perchè la bontà del tessuto non soccorresse, la fune si ruppe, e il marchese Galeotto percosse delle membra sui sassi, lacerandosi le piante, il petto e le braccia, con cui aveva tentato di schermirsi nel buio.
Madonna Bannina, che si era fatta al davanzale per cogliere l’ultimo saluto del fuggente, udì in quella vece il tonfo ed un gemito.
— Vergine santa! egli si è ferito! — gridò la nobil donna raccapricciando. — Antonio, per carità, soccorretelo; andate con lui. Io già non ho mestieri di nulla; — soggiunse, come per indurlo più facilmente a quel passo. — I nemici verranno; che importa oramai? Sono una povera vecchia e non ho niente a temere per me. Andate, Antonio, vi supplico; egli ha bisogno d’aiuto.
Il giovine, che l’aveva intesa alle prime, s’inchinò senza dir verbo, e d’un salto fu sul davanzale. Poco stante, facendo gran forza di braccia, si calò fino all’ultimo lembo del suo aereo sostegno.
— Messere, — dimandò egli a bassa voce, — ove siete?
— Son qua, buon Antonio. Hai voluto scendere anche tu? Pon’ mente; s’è strappata la fune.
— Lo so. A che altezza da terra?
— Cinque, o sei braccia, mi pare. Ma bada a te; non ti gittar troppo in fuori, che potresti ruzzolare dai greppi.
— Non dubitate; conosco il terreno. —
E pigliando le sue misure così a occhio e croce, l’animoso scudiere spiccò il salto dalla parte opposta a quella donde aveva udito la voce del suo signore.
Agile e forte com’era, fu a terra senza farsi alcun male, e corse tosto in aiuto del marchese.
— Orbene? — gridò ansiosa madonna Bannina dal davanzale.
— State di buon animo, madonna. Qualche scalfittura, a cagione degli sterpi, e nient’altro.
— Ah, sia lodato il Signore! Andate dunque. Essi giungono. —
E toltasi dalla finestra, la nobil donna corse nella sua camera, dove stette in attesa.
Frattanto i nemici, giunti all’appartamento del marchese, tempestavano l’uscio di colpi. A breve andare le imposte volarono in pezzi, fu rotta la sbarra che ci avea posta a ritegno lo scudiero, e Giovanni di Trezzo fu il primo a dar dentro, colla spada sguainata. Dietro a lui una frotta di uomini, le cui facce iraconde e le armi erano sinistramente illuminate dalla torbida fiamma di alcune torce a pugno, intrise di pece.
Giunto che fu nella camera, e veduta la marchesana del Carretto, che si alzava con piglio austero dal suo seggiolone per muovergli incontro, Giovanni di Trezzo si fermò sui due piedi, tolse la spada nella mano manca sotto l’impugnatura, e, mentre inchinava la fronte, stese la mano in atto di cortese saluto.
La marchesa rispose con un cenno del capo.
— Che chiedete, messere? — diss’ella poscia, con accento tranquillo.
— Potete argomentarlo, illustre signora; — rispose Giovanni di Trezzo. — Chiediamo del magnifico marchese Galeotto del Carretto, già signore del Finaro.
— Egli lo è sempre per diritto ereditario de’ suoi maggiori; — replicò ella nobilmente.
— Non piatirò di titoli con voi. Son uomo di spada, non già di toga. So che il castello Gavone per opera mia appartiene ora alla repubblica genovese, e cerco il marchese Galeotto per condurlo prigione, com’egli terrebbe me, se la fortuna delle armi non mi avesse assistito. Del resto, non temete, madonna; siam cavalieri e ai prigioni e alle dame non sarà torto un capello.
— Vi credo, e commetto alla vostra lealtà di soldato tante povere donne che sono in vostra balìa. Il marchese Galeotto non è nel castello; statevi pago, messere, di aver prigione sua moglie. —
Giovanni di Trezzo, che sapea far queste cose per bene, s’inchinò profondamente e non aggiunse parola. Per altro, egli non poteva capacitarsi di non aver trovato il marchese nelle sue stanze. Lo scompiglio che si vedeva per la camera, gli dava sospetto bensì d’una fuga; ma da dove poteva esser fuggito il nemico?
Uno de’ suoi soldati, tornando dall’anticamera, gli disse dell’inferriata rotta e delle lenzuola ancora sospese al davanzale.
— Ah, ah! — sclamò egli, — Il merlo è volato via. Ma la gabbia è nostra; questo è l’essenziale. —
E pensava, così dicendo, ai trecento scudi d’oro del sole che gli fruttava l’impresa.
Un alto fragore di combattenti, dall’altra parte dei castello, venne in quel punto a rompergli il filo dello sue meditazioni e a distoglierlo altresì dal pensiero di mandar gente sull’orme del fuggitivo.
Che c’era egli di nuovo? Laggiù si picchiavano di santa ragione. Ma d’onde erano sbucati i nemici? San San Giorgio e Carretto! San Giorgio e Fregoso! Eran questa le grida che cozzavano insieme, come le mazze e le spade, facendo un chiasso indiavolato.
— Vi pigli un canchero! — brontolò Giovanni di Trezzo. — Il premio sarebbe ancora in sospeso?... —
E lasciata la marchesana del Carretto in custodia a due uomini, corse colla sua gente dall’altra parte del castello, donde gli era giunto all’orecchio il fragor della pugna.