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Giovanni di Trezzo. — Chiediamo del magnifico marchese Galeotto del Carretto, già signore del Finaro.
— Egli lo è sempre per diritto ereditario de’ suoi maggiori; — replicò ella nobilmente.
— Non piatirò di titoli con voi. Son uomo di spada, non già di toga. So che il castello Gavone per opera mia appartiene ora alla repubblica genovese, e cerco il marchese Galeotto per condurlo prigione, com’egli terrebbe me, se la fortuna delle armi non mi avesse assistito. Del resto, non temete, madonna; siam cavalieri e ai prigioni e alle dame non sarà torto un capello.
— Vi credo, e commetto alla vostra lealtà di soldato tante povere donne che sono in vostra balìa. Il marchese Galeotto non è nel castello; statevi pago, messere, di aver prigione sua moglie. —
Giovanni di Trezzo, che sapea far queste cose per bene, s’inchinò profondamente e non aggiunse parola. Per altro, egli non poteva capacitarsi di non aver trovato il marchese nelle sue stanze. Lo scompiglio che si vedeva per la camera, gli dava sospetto bensì d’una fuga; ma da dove poteva esser fuggito il nemico?
Uno de’ suoi soldati, tornando dall’anticamera, gli disse dell’inferriata rotta e delle lenzuola ancora sospese al davanzale.
— Ah, ah! — sclamò egli, — Il merlo è volato via. Ma la gabbia è nostra; questo è l’essenziale. —
E pensava, così dicendo, ai trecento scudi d’oro del sole che gli fruttava l’impresa.
Un alto fragore di combattenti, dall’altra parte dei castello, venne in quel punto a rompergli il filo dello sue meditazioni e a distoglierlo altresì dal pensiero di mandar gente sull’orme del fuggitivo.