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— Son fritto! — soggiunse egli, a mo’ di conchiusione, mentre due di quei manigoldi lo veniano legando per bene, come già avevano fatto tre giorni addietro il Tanaglino e il Vernazza.
La masnada frattanto si accostava con passo guardingo alle mura. Nessun rumore, nessun filo di luce, davano indizio di vigilanza nel castello. Don Giovanni di Trezzo incominciava a meravigliarsi della fortuna, che gli faceva guadagnare così agevolmente un premio di trecento scudi d’oro del sole, a lui promesso dal capitano generale se avesse condotta a buon fine l’impresa.
Il castel Gavone, lo rammenteranno i lettori, era munito di fosso da due lati soltanto, cioè da fronte e da tergo, dove perciò era stagliata ad arte la cresta del monte; laddove i fianchi, perchè fondati a scarpa sul masso o abbastanza forti di lor natura, non avevano alcuna di simiglianti difese.
Ad uno di questi fianchi, quello che guarda a levante, i soldati genovesi accostarono le scale. Giacomo Pico fu il primo ad appoggiarne una contro il davanzale di una finestra che metteva al secondo pianerottolo dello scalone interno.
— Che fai? — gli domandò il Sangonetto all’orecchio. — La finestra è chiusa, e a romperla daremo la sveglia.
— No; — rispose l’amico; — lascia fare. La notte scorsa ho tagliato una lista di piombo nella intelaiatura dei vetri. —
Poscia, voltandosi verso Giovanni di Trezzo, che gli stava sempre alle costole, soggiunse:
— Voi, messere, dovreste mandare una parte dei