Pagina:Barrili - Castel Gavone.djvu/277


— 266 —

(come lo chiamavano ancora, a cagione della sua giovinezza) radunò partigiani, corse il vicinato a sua posta, recando alla repubblica quante più molestie potè. Monsignor Giustiniani, che non lo ebbe in troppo buon concetto, narra di lui negli Annali che «essendo di gran spirito e bisognoso di molte cose, quasi che si mise alla strada e faceva de’ mali assai. Tra i quali, detenne cento venti some di mercanzia di gran valuta, che mulattieri portavano in Francia; e fra l’altre cose vi erano alquante arme per la persona del Re. Del qual fatto il duce Raffaello si risentì assai e ne scrisse lettera a Sua Maestà».

La qual cosa, m’affretto a dirlo, non tolse che fosse un compìto cavalliere, e che, il 3 di febbraio del 1447, tornata la fazione Fregosa al governo della repubblica nella persona di Giano, messer Pietro fosse restituito alla patria e fatto capitano generale della città, indi deputato all’impresa del Finaro, e da ultimo eletto doge a sua volta.

Ma non ci dilunghiamo dal nostro argomento. La notte è calata, notte buia e fredda, siccome si è detto, e gravida di tempesta. Giovanni di Trezzo e i suoi trecento fanti escono silenziosi dal battifolle di Pertica, sfilano leggieri a guisa di ombre davanti a quel pozzo, in cui, la mattina di quel medesimo giorno, aveva pigliato un bagno freddo il povero Falamonica. Spartiti in dieci bandiere, ognuna delle quali constava di trenta uomini, cioè a dire dieci balestre, dieci picche e dieci pavesi, i soldati di Don Giovanni di Trezzo (la dominazione aragonese nel reame di Napoli aveva già sparso l’uso del titolo di Don nella maggior parte dei condottieri italiani) si avviarono per