Castel Gavone/XIII
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CAPITOLO XIII.
Del giro che fece un segreto prima di uscire ad utile
di qualcheduno.
L’ho detto; il Maso correva, volava come il dio Mercurio portalettere, o come Iride, messaggiera d’Olimpo. Se egli pare soverchio ardimento rassomigliarlo agli Dei, fo un passo indietro e lo imbranco tra gli eroi, rassomigliandolo ad Ettore, quando scappò davanti all’ira di Achille e prese più volte a tondo la misura di Troia. E se neppur questo vi torna, lo paragonerò... Ma, Dio buono, che grattacapi mi piglio? e che bisogno c’è egli di paragonarlo a qualcuno? Scappava, e basta.
Così dandola a gambe, giunse alle viste dell’erta su cui torreggiava il castello. Per altro, n’era ancora lontano un bel tratto, e gli bisognava passare sotto il tiro dello beltresche, e delle bicocche, guardiole di legno, rizzate su pali, donde le scolte avanzate velettavano il nemico.
Il suo apparire sull’erta fu prontamente notato, e un verettone, scagliato da mano maestra venne a fischiargli all’orecchio. Se in quel punto e’ non avesse dovuto cansarsi da un sasso che attraversava il sentiero e perciò non si fosse tirato da banda, povero Maso! il suo segreto era morto con lui.
— Canchero! — esclamò egli, fermandosi tosto e guardando la beltresca più vicina, donde gli era venuto l’avviso.
E siccome la sua esclamazione ionadattica non gli sarebbe servita a nulla col soldato in vedetta, che probabilmente incoccava un secondo verrettone, il nostro Maso si affrettò ad alzar le mani e a raccomandarsi coi gesti, gridando con quanto fiato aveva in corpo: — San Giorgio e Carretto! Carretto e San Giorgio! Ohè, Finarino, così ricevi gli amici? —
Il soldato lo udì, e per fermo lo riconobbe eziandio, poichè fu sollecito a scendere la sua scaletta a piuoli.
Intanto il Maso si avvicinava di buon passo alla beltresca.
— Amici, perdio! — seguitava a gridare. — Sono il paggio di messer Antonello da Montefalco, scampato or ora dalle ugne dei genovesi.
— Sì, ti ho riconosciuto, buona lana! Vien qua e ringrazia il cielo che la mia mano non ha più venticinque anni.
— Ah, siete voi, mastro Bernardo? Vedete un po’ il tiro che avete risicato di fare! La m’è passata a una spanna dall’orecchio. Altro che venticinque anni! Per fortuna io m’ero gittato da una banda; se no, addio roba mia!
— Ma sì, ma sì, la mano mi serve ancora; — disse mastro Bernardo ridendo, — Credevo di averti fallato per colpa mia, e tu mi consoli, adesso. Vien qua, abbraccia il tuo vecchio principale, e raccontami, come hai potuto cavartela dalle granfie di quei figli di cani?
— Eh, potaste chiamarli cani addirittura, senza tanti rigiri! — notò il Maso, che voleva sempre dire la sua. — Tanto, non ci sentono, e l’ultimo di loro, con cui ho avuto a discorrere è troppo occupato a ber vino celeste. —
Qui il Maso, più brevemente che gli venne fatto, raccontò al suo vecchio principale il perchè e il percome della sua fuga dal battifolle di Pertica, cercando di ricordarsi tutte le frasi, chiare ed oscure, del Sangonetto, nel suo segreto abboccamento col Campora.
Allorquando udì della caduta di Giacomo Pico in balìa de’ nemici, mastro Bernardo, che la vedeva in cotesto come il suo antico ragazzo d’osteria, perdette proprio il lume degli occhi.
— Ah, l’avrei giurato! — gridò, serrando rabbiosamente le pugna. — Io l’ho conosciuto da bel principio, quel villano rifatto! Serpicina riscaldata, per amor di Dio, in seno ai nostri signori! Ed ecco ora com’ei li rimerita!
— Oh, per questo, non dubitate; — disse il Maso a lui di rimando. — E potrebbe darsi ancora che il Bardineto avesse fatto male i suoi conti. Io me ne vo difilato da messere Antonello e gli spiffero ogni cosa.
Mastro Bernardo rimase un tratto sovra pensiero.
— No, no, — rispose egli poscia, — non lo fare! Chi è, dopo tutto, questo messere Antonello? Un buon capitano, dicono; ma che altre imprese ha egli fatto finora? Un giorno, te ne ricordi? se non ci mettevano mano le nostre donne, e’ si faceva pigliar prigioniero insieme col cugino del nostro marchese, col magnifico Spinetta del Carretto. Quell’uomo non mi quadra, affediddio, non mi quadra! Viene dall’esercito genovese, ch’egli ha abbandonato per una differenza di pochi fiorini; e chi ti dice ora?... No, no, ragazzo mio; fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Già, vedi, se qui tradiscono i finarini, saranno più saldi i forastieri?
— Ma... e come fareste voi? — disse il Maso perplesso.
— Io? Me ne andrei diritto diritto a parlare col marchese. Capisco, tu non ci hai dimestichezza. Ma a questo c’è rimedio; ci vado io. Anzi, vedi, ci corro. To’ la balestra; piglia il mio posto alla vedetta; in due salti son là, e se occorrono altri ragguagli, il marchese ti farà chiamare. —
Il Maso fu scavalcato, così, alla sprovvista, e non s’addiede del tiro che allorquando fu in terra. Borbottò un poco, sicuramente, poichè l’atto gli parve mancino; ma in fondo in fondo, non si poteva negare che nei sospetti di mastro Bernardo ci fosse una parte di vero, e si chetò, da quel ragazzo dabbene ch’egli era. Al postutto, i suoi sopraccapi per quel giorno li aveva avuti, e mentre egli ci guadagnava un’ora di riposo, il suo vecchio principale, andando al castello, non poteva mica tacere la fonte delle sue preziose notizie.
Perciò non disse altro, e, presa l’arma dalle mani di mastro Bernardo, e datogli senza troppo corruccio il buon giorno, s’inerpicò sulla beltresca.
Mastro Bernardo, dal canto suo, grave nel portamento come ogni uomo che ci abbia le grandi cose in testa, s’avviò verso il castello.
Vi giunse, distribuendo in giro un saluto di protezione alle scolte, e commise la sua gravità sul ponte levatoio che cavalcava il fosso, in cospetto di due barbacani, muniti di feritoie, che proteggevano la porta, sfondata nel muro di fronte, in mezzo a due delle quattro torri che già i lettori conoscono. Varcata la soglia e l’androne, dove gli parve che i suoi passi rimbombassero meglio di prima, entrò sotto la saracinesca, altra porta piombante che difendeva l’ingresso del castello, e finalmente pose il piede nelle scale, salutato da tutti i soldati di guardia, che lo conoscevano come un vecchio camerata, ma che dovevano (così gli bisbigliava la sua ambizione) vedere in lui un pezzo più grosso del solito.
Se lo avessero fermato, chiedendogli dove andava, oh come ci avrebbe avuto gusto a sfolgorarli con quattro parole: «porto gravi notizie al marchese!» Ma nossignori, quella zotica soldatesca non capiva una maledetta; lo vedeva passare accigliato e chiuso come una cornacchia di campanile, e non si attendeva di dargli l’assaggio.
Privo di quella consolazione, mastro Bernardo volle procacciarsene un’altra, andando a far pompa delle sue gravi notizie colla nipote. La cosa era del resto naturalissima, imperocchè, senza mettere in conto i riguardi dovuti alla Gilda, per cui intercessione aveva allogato la sua famigliola fra i servi del castello, il nostro messaggiero pensava di farsi introdurre dalla nipote presso il marchese Galeotto, col quale, come v’immaginate, non ci aveva tutta quella dimestichezza che aveva lasciato intendere al Maso.
Applaudendosi in cuor suo di quella profonda pensata, mastro Bernardo salì prontamente le scale, e scambio di fermarsi alla gran sala, in cui tenea corte e riceveva i suoi visitatori il marchese, proseguì fino al piano superiore, dove, poco lunge dalle stanze di madonna Nicolosina, era la cameretta della Gilda.
La bella nipote di mastra Bernardo appariva grandemente mutata da quella vispa e rosea fanciulla che i lettori hanno conosciuta nei primi capitoli di questo racconto. Una pallidezza estrema regnava su quel volto, i cui grati contorni s’erano fatti più severi e ricisi, come di statua; gli occhi scintillavano di luce più viva sotto l’arco delle ciglia, ma si vedevano altresì più infossati nelle orbite, se non per avventura dal piangere, certo da un’assidua cura che fosse venuta struggendo quella sua giovinezza beata. Era bella sempre; forse più di prima, per molti; ma non più come prima, e s’indovinava al solo vederla che il dolore era passato sul fronte della povera Gilda. Così l’ostro nemico, scaldato sulle arene dei deserti africani, brucia i teneri germogli delle piante, alidisce le splendide corolle dei fiori.
Quali fossero da parecchio tempo i pensieri di Gilda, il savio lettore ha già inteso. Si aggiunga a tante cagioni di tristezza, che ella aveva avuto pur dianzi la nuova della prigionia di Giacomo Pico.
— Anche tu, — le disse mastro Bernardo, vedendola in quello stato, — anche tu, mia povera ragazza, ti struggi di questi malanni che sono piombati su casa nostra? Brutti giorni, figliuola! E anch’io dovevo vederli a conforto della vecchiaia!
— Che farci, buon zio? Ci vorrà pazienza. Iddio è misericordioso, e quando avremo patito abbastanza...
— Eh, mi pare che il tempo sarebbe venuto! Ma via, non mormoriamo; forse son io l’umile strumento di cui la Provvidenza si serve per metter fine alle sue prove. —
La Gilda guardò meravigliata suo zio, per sincerarsi a’ suoi atti se parlasse da senno, o non avesse per avventura dato il cervello a pigione. L’aria d’importanza ond’era impresso il volto di mastro Bernardo, faceva somigliare il bravo ostiere soldato ad uno del suoi tacchini, ingrassati pel Natale, quando gli faceano la ruota sull’aia.
— Sai? — proseguì mastro Bernardo, rispondendo ad una domanda che Gilda gli avea fatta cogli occhi. — C’è del nuovo. Notizie gravi! Non tremare. Uomo avvisato, mezzo salvato; ed io vengo a salvare il magnifico signor marchese. Ho pensato di parlarne prima con te, perchè sei una buona figliuola ed hai fatto del bene alla mia Rosa, tua povera zia, e a quattro ragazzi, che la guerra fa rimanere senza l’aiuto del padre.
— Ho fatto il debito mio; — disse brevemente la Gilda. — Ma parlate, per carità; che c’è egli di così grave, e qual è questo avviso di salvezza che portate al castello?
— Chetati, e te le dico in poche parole. Bada; ti parrà strano, come lo parrà al nostro magnifico signore. E se non fosse ch’io l’ho di buon luogo... Ma via, non vo’ tenerti sulla corda. Il Pico tradisce; il Sangonetto tradisce; tutti tradiscono qui.
— Che dite voi mai? — gridò la Gilda, non badando che al nome del Bardineto. — Giacomo?... Giacomo Pico un traditore? Ma lo pensate voi? E potete voi aggiustar fede a chi gli vuol male? No, non può essere altrimenti; — soggiunse ella, notando un atto di diniego dello zio; — solo un nemico suo ha potuto calunniarlo in tal guisa. Ma dite, ditelo voi, come potrebb’essere un traditore l’uomo che appunto stamane, combattendo da valoroso, è stato colto in una imboscata dai genovesi?
— Sì, si, l’imboscata! — ripetè mastro Bernardo scrollando il capo e battendo le labbra. — Parliamone, dell’imboscata! Anche il Sangonetto, il suo grande amico, è prigioniero dei genovesi da tre giorni, ed io ne so quanto occorre, della loro prigionia. —
Qui, stretto, incalzato dalle domande di sua nipote, mastro Bernardo, che non domandava altro, si fece a raccontarle tutto, per filo e per segno, quello che aveva risaputo dal Maso; come il Sangonetto, datosi spontaneamente prigione al battifolle di Pertica, si fosse abboccato col Campora, proponendogli un colpo che dovea porre il Finaro in balìa degli assediati; come dapprima il Campora e poscia il capitano generale dell’esercito genovese volessero assicurarsi della sincerità dell’offerta avendo prigioniero anche il capo della congiura; come difatti il Pico cadesse due giorni dopo in una imboscata, a cui era andato incontro con pochissimi uomini, certo per levarsi ogni obbligo di resistenza; come tra i patti richiesti dal Pico ci fosse la morte di un tale, di cui non s’era potuto intendere il nome, e il capitano generale non avesse voluto saperne, proponendo in quella vece che il Pico se ne potesse spacciare con un duello, dopo la presa della terra assediata. Ora qual colpo si meditasse, e qual fosse il nemico di cui si patteggiava l’uccisione, bisognava cercare; quanto al disegno e ai patti fermati e alla imminenza del pericolo, non ci cascava più dubbio.
A cosiffatte notizie, che lasciamo immaginare ai lettori come le tornassero dolorose, la Gilda non seppe più che rispondere. I commenti che v’aggiungeva lo zio, commenti crudeli che le andavano come tante pugnalate al cuore, rischiaravano a’ suoi occhi un triste vero che da lunga pezza ella sospettava, e che, paurosa o magnanima, non aveva voluto vedere, accagionando del dubbio la sua gelosia irrequieta. Giacomo Pico aveva sguainato la spada contro il Fregoso, credendo di averla a dire col conte di Osasco. Il fatto e l’errore erano ricordati in buon punto da mastro Bernardo. Il marito di Nicolosina del Carretto era dunque il nemico di cui si chiedeva la morte. E la rabbia contro un fortunato rivale, e il rancore contro una superba che lo avea dispregiato, erano dunque le cagioni del tradimento di Giacomo?
Questo pensava la Gilda, e lo sdegno le traluceva dagli occhi, le usciva in rotte parole dal labbro. Mastro Bernardo, che pure l’aveva a morte col Bardineto, non intendeva perchè la sua cara nipote ci si riscaldasse poi tanto.
— Orvia, chètati, figliuola; non mi far pentire di averti detto ogni cosa. Sono un chiacchierone; ma già, chi l’ha nell’ossa, lo porta alla fossa. Avrei dovuto andarmene difilato dal magnifico nostro marchese, ed eccomi invece a dar molestia a te, che poverina, non ci hai nulla a vedere.
— No, no, zio! avete fatto benissimo; — gridò la Gilda sollecita. — Dal padrone ci vado io. Sapete? egli è quest’oggi di pessimo umore, e potrebbe farvi una brutta accoglienza.
— Dici da senno? — chiese mastro Bernardo, con piglio scontento. — Mi pare che chi porta notizie utili....
— Ma cattive come queste! — interruppe la Gilda. — Credete a me, zio, vi accoglie male; non andate. Io sono di casa e con me non c’è pericolo che si metta in collera.
— Ma io... — si provò a dire mastro Bernardo, sperando di rimettersi in sella, — io posso dir cose che una donna, una ragazza senza esperienza, non potrà mai mettere in chiaro come si bisogna. Io poi ci ho le notizie di prima mano e tu...
— Mi fate pensare ad un altro pericolo; — interruppe la nipote. — Che dirà dei fatti vostri il marchese, quando gli porterete voi le notizie date da un altro? Il Maso le ha in prima mano, non voi. E se il marchese vi chiedesse perchè non avete lasciato andare da lui il Maso in persona, che cosa potreste rispondergli?
— Ma.... — balbettò il povero ostiere. — Lì per lì non saprei.... Ci penserò.
— No, bisognerebbe averci pensato. Vedrò io, farò io. Voi farete una cosa più utile, di cui vi si darà lode e ricompensa domani.
— Che cosa? Parla, dilla su, poichè vuoi fare a tuo modo; — soggiunse rassegnato lo zio.
— Ecco; stanotte, con quanti uomini potete, trovatevi sotto il castello. Ci potrebb’essere bisogno di voi, e, mi capite? l’esserci venuto spontaneamente vi tornerà a grandissimo onore.
— Che cosa prevedi già tu, nella tua testolina? Credi che ardiranno salire al castello?
— Non credo niente, non prevedo niente. Venite, e basta. Domani saprete ogni cosa.
— E sia; prenderò meco tutti gli amici che troverò. Quanti abbiamo ad essere?
— Che so io? Venti, trenta, sessanta. Più numerosi sarete, tanto meglio per tutti.
— Oh, per questo, se non vuoi altro, ti porto tutta la compagnia di santa Caterina, il cui caporale è Antonio Cappa, mio buonissimo amico e compare.
— Sta bene, venite e tenetevi pronti alla chiamata, qui sotto, nella macchia delle roveri.
— Perchè da questa banda e non dall’altra? — domandò mastro Bernardo, che voleva scoprir terreno.
— Perchè.... perchè.... volete saper troppo.
— Ma, non so niente, mi pare.
— Meglio per voi. Andate, buon zio, e fate com’io v’ho detto. Il magnifico nostro signore e tutta la famiglia vi sapranno grado di tutto, non dubitate.
— Basta, mi fido di te. Hai una certa testolina, che, sto per dire, se comandassi io, ti metterei subito al posto di messere Antonello da Montefalco. Ora, addio; vo a salutare la Rosa....
— No, no, la vedrete domani. Andate, è già tardi, e se avete da cercare gli amici, non ci sarà tempo da perdere. Ma badate, giudizio, e non una parola ad alcuno!
— Che! nemmen per sogno. Tu mi conosci, nipotina. Sono un po’ chiacchierone, l’ho detto, ma nelle cose di meno importanza. Qui poi, acqua in bocca!
— Sì, dunque, andate. Io corro dal padrone. —
Con queste parole fu congedato mastro Bernardo, che uscì poco stante dal castello, scavalcato a sua volta dalla Gilda, com’egli avea scavalcato il Maso, e senza capire una maledetta dei disegni della sua bella nipote.
La quale, poichè fu partito lo zio, non si mosse altrimenti dalla sua camera. Muta, immobile, attonita, come chi, per malvagità di possenti e implacati nemici, o per cieco volere del caso, si veda di balzo gettato nel fondo di ogni miseria e sappia pur troppo che ogni scampo gli è chiuso, la misera donna rimase là, contro la finestra della sua camera, a cui s’era affacciata per veder scendere lo zio giù dai tortuosi sentieri del castello. Rimase là, coi gomiti appoggiati sul davanzale di pietra, il volto nelle palme, gli occhi torbidi e fisi di rincontro a sè, sulla roccia dell’Aurera, salutata allora dagli ultimi raggi pallidi d’un sole di febbraio, non curando il freddo rovaio che già cominciava a soffiare dalle gole di Rialto, addensando in aria negri e minacciosi drappelli di nuvole.
Niente guardava la Gilda, di niente si avvedeva, niente sentiva da fuori; le forze tutte dell’anima sua s’erano concentrate in un pensiero, l’infamia di Giacomo Pico. Imperocchè, ella avea pure inteso il disegno di lui, per mezzo ai pochi cenni recati da suo zio. Il colpo che si tentava era di dare il castello in mano ai nemici, d’impadronirsi di madonna Nicolosina, di uccidere il Cascherano. Quest’ultima parte del disegno di Giacomo Pico doveva andargli fallita, poichè il conte di Osasco, quel giorno medesimo era disceso nel Borgo, per custodire co’ suoi uomini la porta di san Biagio; ma questa assenza non tornava forse a vantaggio del Bardineto, caso mai gli venisse fatto di penetrare nel castello in compagnia dei nemici?
Vitupero! Ed ella lo amava, quel traditore! E s’era data a lui, col più sublime sagrifizio dalla sua alterezza, nel più generoso oblìo d’una offesa recente! Ah, come s’era egli mostrato degno di quel magnanimo affetto! E non era piuttosto meritevole di mille morti? Non si doveva punirlo, avvisando i difensori del castello e cogliendolo al laccio che egli stesso avea teso?
Sì, questo era il meglio; ma questo potea fare ogni altra donna, non Gilda. Avrebbe ella venduto in tal guisa l’uomo a cui la legava il più soave, o il più doloroso, ma certamente il più intimo dei vincoli? Imperocchè, forse, tra breve ella non avrebbe potuto nasconder più oltre lo stato suo. Egli, ancora il giorno addietro, la aveva promesso, giurato, di condurla seco, a guerra finita. E poichè il tempo stringeva, e l’assedio accennava a durare un bel pezzo, la congiura di Giacomo non poteva essere un modo da lui immaginato per farla finita d’un colpo?
Queste erano vane speranze, illusioni, chimere; lo sentiva anche lei. Ma allora, qual vendetta efficace e condegna a tanta viltà sarebbe mai stata quella di avvisare il marchese? Essa, essa, dovea vendicarsi, non altri; essa, in quella casa, e per quella casa giunta a tale di miseria o di vergogna oramai!
Tra queste incertezze, tra queste contraddizioni d’uno spirito abbattuto, giunse rapidamente la notte. Le scolte si ricambiarono per la prima volta il grido di vigilanza dalle loro beltresche, e quelle grida si udivano al castello fioche e interrotte, come che di voci lontane, tanto le soverchiava la furia del vento. Era una notte minacciosa; il mare mugghiava al lido, il tuono rumoreggiava nella gole dei monti.
Madonna Nicolosina, all’ora consueta delle altre sere, si ritirò nelle sue stanze. La Gilda, come portava l’ufficio, era andata a servirla nel suo spogliatoio, ma più rigida e più taciturna a gran pezza che le altre volte non fosse stata colla sua giovin signora.
Il broncio dell’ancella (quasi sarebbe inutile di dirlo) era cominciato dalla scoperta di una rivale, triste scoperta che ella avea fatta nella torre dell’Alfiere. Madonna Nicolosina, dal canto suo, vedendola così piena di cruccio, era stata in contegno, nè aveva cercato occasione di rompere il ghiaccio. Anche trovata da lei a colloquio col Bardineto, madonna Nicolosina si sentiva innocente e non voleva scendere alle prove colla sua cameriera. Così erano rimaste ambedue coll’amaro, l’una servendo a puntino, l’altra comandando con garbo, ambedue fredde e guardinghe.
Tale la Gilda all’aspetto; ma il cuore avea gonfio di sospiri e di lagrime. E s’era fatta innanzi, con un tal poco di sostenutezza, a vestir la padrona. Ma quando fu al punto di toglierle la sopravveste, la sua anima candida non seppe più contenersi, e la poveretta diede in uno scoppio di pianto.
— Madonna! — gridò tra i singhiozzi che le facean nodo alla gola, — Madonna, ve ne prego, concedetemi una grazia!
— Che cosa? — domandò Nicolosina, voltandosi stupefatta a guardare l’ancella.
— Non dormite in questa camera! — proseguì con accento supplichevole la Gilda.
— Perchè?
— Perchè... — (e qui la povera ancella si trovò molto impacciata) — perchè temo non vi colga alcun male.. perchè io ve ne scongiuro... infine, perchè vi amo. —
Madonna Nicolosina stette un tratto a guardarla in silenzio.
— Gilda, — la disse poscia con piglio grave, ma impresso di dolce malinconia, — è questa la prima volta, da lunga pezza, che non mi parlate così. Io vi ho perdonato ogni cosa, perchè vi ho creduta infelice.
— Oh, grandemente, signora, senza fine infelice! —
E cadde, stemprandosi in lagrime, ai piedi della sua giovine signora.
— Suvvia, buona Gilda, parlate; che volete da me? — disse madonna Nicolosina, rialzandola affettuosamente tra le sue braccia.
— Fatemi questa grazia, signora; non me la negate! — soggiunse l’ancella. — Non dormite qui; ritiratevi per questa notte nella camera della vostra povera Gilda. Ho un triste presentimento...
— Ah! — sclamò Nicolosina. — Come mio padre!
— Che dite voi mai? — gridò la Gilda atterrita.
— Sì, così pure mi parlava stassera il mio povero padre. Una vecchia donna è venuta a bella posta da Savona per dirgli che l’uomo, in cui egli si affida di più, si disponeva a tradirlo.
— Ed egli?
— Ed egli ha risposto che la sua fede non si scema per le ciancie delle donnicciuole; che ella, se sapeva alcun che di più certo intorno alla infedeltà di Giacomo Pico...
— Ah! — interruppe la Gilda. — Di Giacomo Pico ella disse? Egli fu dunque scoperto?
— Scoperto! — esclamò Nicolosina. — È egli dunque un traditore? Che ne sapete voi, Gilda? Parlate; ve lo comando. —
L’ancella si pentì di aver troppo parlato.
— Signora, perdonatemi! — ripigliò, giungendo le palme. — Ho io detto scoperto? Volevo domandare se si sospetta per avventura di lui. Sono una povera fanciulla; non so parlare a modo. Abbiate compassione, madonna. Io non ho che un presentimento di sventura; forse un’ubbìa di donnicciuola, come quella che mi avete detta poc’anzi. Ma ve ne supplico, mia dolce signora, non ridete de’ miei timori; dormite questa notte nella mia camera... È un luogo più sicuro, e nessuno penserà ad andare là entro.
— C’è dunque qualcuno che può pensare a venir qua? — replicò madonna Nicolosina con accento di collera. — Ogni vostra parola vi tradisce; e sta bene. È forse nella vostra confusione un avvertimento del cielo. Mio padre non ha creduto alla vecchia di Savona; eppure, anche giudicandola pazza, non ha saputo vincere un senso di dubbio e di sgomento. Lasciatemi, Gilda; io vado da lui e dalla mia povera madre...
— Signora mia!
— Lasciatemi, vi dico! Già troppo male avete fatto a parlar così tardi. —
Così dicendo, respinse la Gilda che le si era aggrappata alle vesti, e andò verso l’uscio.
Ma, appunto in quel mentre, si udì nella sala del piano inferiore uno strepito, come di armi percosse. Madonna Nicolosina ristette, coll’orecchio teso e cogli occhi sbarrati dallo spavento. Non v’era più dubbio; ignoti assalitori aveano scalate le mura del castello, si spandeano per le sale.
La Gilda raccolse tutte le virtù dell’anima sua in uno sforzo supremo.
— Ah, non v’è più tempo, madonna! Nella mia camera, vi prego, ritiratevi nella mia camera. E badate, ci sono i nostri finarini appiattati nella macchia dei roveri. Chiamateli tosto... ho preparato le lenzuola annodate... Ma andate, per la salute vostra, andate! —
Spinta dall’ancella, madonna Nicolosina uscì dalle sue stanze, corse a rifugio nella camera di Gilda.
E Gilda, poichè l’ebbe veduta sparire per quella fuga di sale, si ritrasse nella camera della sua signora, dove rimase, ansante e spaventata, in ascolto.