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Ora, siccome il nostro bravo Campora solea mettere in tutte le cose sue poco intervallo tra il pensare ed il fare, a mala pena ebbe pigliata questa risoluzione, uscì dalla sua baracca per andarne a chieder licenza a messer Pietro, padron suo riverito.
S’aspettava qualche po’ di contrasto; ma, con sua gran meraviglia, non ci fu nulla.
— Bravo! — gli rispose il capitano generale. — Stavo appunto per mandarti a cercare e chiederti se volevi farmi compagnia.
— Che? come? — farfugliò il Picchiasodo, inarcando le ciglia. — Voi, magnifico messere?
— Sì, io. Che ci trovi di strano?
— Eh, mi sembra che ce ne sia la sua parte. Gli è un colpo ardito, quello che si tenta, con questi furfanti di tre cotte. E se ci andasse a male? Se quei di lassù stessero in guardia? Se fossero stati avvisati?
— Baie! Chi vuoi tu che li abbia avvisati? E fosse pur vero, che vuoi tu che s’aspettino proprio stanotte da noi? E poi, vedi, Anselmo; chi non risica... Lo conosci, il proverbio?
— Non rosica; lo capisco; — soggiunse il Picchiasodo, chinando la fronte.
— Orbene, — proseguì messer Pietro, — ce n’è anche un altro che fa al caso nostro. Dal farle tardi Cristo ti guardi! Ora, questa s’ha da far subito, o mai. Genovese aguzzo, piglialo caldo. —
A queste parole il Picchiasodo non potè ritenersi dal ridere.
— Scusate, messer Pietro; — diss’egli, con piglio di rispettosa dimestichezza; — siete tutto proverbi, stassera.