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loro soldatesche e dei loro ingegni di guerra. Anche dopo esser venuti a stringer l’assedio del Finaro dalla parte dell’Appennino, dovevano essi contentarsi di vedere da lungi quella mole solitaria e superba, poichè la roccia di Pertica, che si rizzava alle sue spalle, era inaccessibile ad un esercito; e quanto poi allo inerpicarsi sul greppo del castello medesimo, per dare a questo una brava scalata, le necessità quotidiane dell’assedio intorno alla città sottoposta, non ne concedevano loro il tempo, nè il modo.

E ciò senza mettere in conto che un assalto a quelle mura di granito, contro quelle torri di pietre sfaccettate a punta di diamante, non sarebbe servito a nulla. Soltanto una sorpresa notturna avrebbe approdato; ma questa richiedeva intelligenze segrete, amici, o a dirla più veramente, traditori nel castello.

Ora, da questo lato, il marchese Galeotto dormiva tranquillo i suoi sonni. E se non era che Santino da Riva, prigioniero dei finarini in castel Gavone, avesse fiutato nel Sangonetto una schiuma di ribaldo, se non era che Giacomo Pico, meditando del continuo vendetta, avesse dato facile ascolto alle suggestioni del sozio, e tutti poi avessero pigliato a pretesto della loro perfidia il malcontento di parecchi cittadini del Borgo, a cui pesava la lunghezza dell’assedio, chi sa? il marchese Galeotto avrebbe potuto ancor dire per mesi parecchi del suo dominio, ciò che disse Enea della sua patria a Didone:

Troiaque nunc stares, Priamique arx alta maneres!

Ma pur troppo il castel Gavone, che non doveva avere un Virgilio a cantare la sua misera fine, ebbe