Castel Gavone/X
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CAPITOLO X.
Nel quale si parrà l’accortezza del narratore,
per annoiare il meno possibile i suoi benigni lettori.
Così nell’arte della guerra come nell’arte della scherma, botta vuole risposta e le finte non giovano più, se non a patto di precedere il colpo. Ora la risposta di messer Pietro Fregoso al tiro di messer Galeotto su Noli fu per l’appunto di stringere viemaggiormente l’assedio del Borgo. Condotto l’esercito più sotto le mura che non avesse fatto dapprima, il capitano genovese die’ fiato a tutte le artiglierie del suo campo, e per dieciotto dì e per altrettante notti fu un trarre indiavolato di bombarde, falconi, ed altri consimili ordegni. Basti il dire che, in quello spazio di tempo, trecento novanta palle di bombarda furono gittate nella terra assediata, il che torna a una razione di forse ventidue sassi da cinquecento libbre ogni dì, senza mettere in conto le palle minori, cioè a dire quelle dei falconi, delle colubrine, cerbottane, ribadocchini, e via discorrendo.
Fu, come i lettori di leggieri argomentano, una grande rovina per le case del Borgo. Per contro, non n’ebbero molto strazio le vite. Morì una povera vecchia, còlta da uno di que’ sassi in sua casa; morirono due altre donne, sorde e mute dalla nascita, le quali stavano lavando i loro pannilini nel torrente di Calice, alle spalle del Borgo, e non poterono udire l’avvertimento della campana posta sulla torre di Bichignollo. Era questa la torre più alta della città e vi stava di continuo un guardiano, con obbligo di dare un rintocco, ogni qual volta nel campo nemico gli venisse veduto il lampo d’una scarica. In tal guisa si custodivano gli abitanti della terra, e ad ogni avviso del guardiano correvano a riparo sotto il portone più vicino. Senonchè, questa guardia era efficace di giorno, che si potevano allora tener d’occhio le artiglierie nemiche e i loro mutamenti di luogo; laddove di notte il povero custode non ci avea mica gli occhi del gatto, e gli avveniva che la più parte dei colpi, per non aver egli veduto il lampo, fosse annunciata dal rombo, cioè, quando non c’era più tempo a cansarsi.
Un gran rischio lo corse una sera messer Barnaba Adorno. Sedeva egli a cena nel palazzo assegnato a lui e alla sua famiglia dalla ospitale liberalità del marchese Galeotto, allorquando la campana di Bichignollo diede un rintocco.
— Bene! — esclamò ridendo il giovine Paolo Adorno, nipote di Barnaba, in quella che stava per recarsi il bicchiere alle labbra. — Ecco una giuggiola per le frutte. A chi toccherà essa? —
Aveva egli a mala pena finito di parlare, che un frullo veloce si udì per l’aria e subito dopo un fortissimo schianto. La colonnetta di marmo che partiva la finestra si ruppe, mandando i frantumi e le scheggie per tutta la camera, e in men che non si dice piombò sulla tavola un regalo di Anselmo Campora, fracassando il vasellame e mandando ogni cosa sossopra.
Parecchi dei commensali balzarono in piedi dallo spavento, e taluno di essi con qualche ammaccatura per giunta.
— State, messeri, in nome di Dio! — gridò Barnaba Adorno. — La giuggiola di Paolo è toccata alla nostra mensa; ma altro di peggio non può fare oramai. —
— Raccattiamo almeno qualcosa! — disse Paolo, chinandosi a terra, dov’erano sparpagliati tra i cocci gli avanzi della cena interrotta. — Ecco giusto uno spicchio di pollo, che non me lo mandano più a male i Fregosi, che il malanno li colga!
— Amen, cominciando da Giano! — soggiunse lo zio.
E la cosa finì in ridere, senz’altro danno per la nobile brigata che quello di avere abbreviata la cena.
Intanto, più durava l’assedio, e più grande era il guasto, non solamente nel Borgo, ma eziandio nelle campagne circostanti. I soldati del Fregoso, segnatamente i non genovesi (che i genovesi furono sempre buoni massai, e la roba altrui, quando si studiavano di averla, trattavano già come fosse la loro) i soldati, dico, rompevano, tagliavano, mettevano in pezzi, davano lo spianto a ogni cosa. Se mastro Bernardo avesse potuto dare una sbirciata all’Altino, altro che botti sfondate! Avrebbe visto il suo pergolato in terra, gli anguillari divelti e il suo bel fico brigiotto, onore dell’orto, quel maestoso fico dond’egli spiccava ogni anno cinquecento dozzine di fichi prelibati, polputi e maiuscoli, pietosi a vedere per la buccia screpolata e per la lagrima all’occhio, quel nobilissimo fico andato in iscavezzoni, sotto i colpi bestiali d’una soldatesca, la quale non prevedeva di dover essere ancora in que’ luoghi alla stagione dei frutti.
Poveri a noi! griderà qualche lettore spaventato; siamo a mala pena in febbraio e dobbiamo ingoiarci tutti gli altri mesi per infino a settembre? Sissignori; ma badate, gli è come a sorbire un uovo fresco; l’autore è discreto e va per le spiccie; sicchè, non temete ch’egli intenda abusare della vostra pazienza, come fece Catilina coi Romani, se dobbiam credere a quella lingua tabàna di Marco Tullio dal Cece.
Per venir difilati alla storia, si dirà che in quel mezzo fu di ritorno al Finaro il bel conte di Osasco. Aveva egli veduto in Asti il balìvo di Trasnay e conduceva al marchese Galeotto i nuovi soccorsi di Francia che erano dugento lancie, sotto il comando di sere Gaulois, e colla giunta di due maravigliosi cavalieri di ventura, Ludovico Masson e Gianni Fontaine, di soprannome l’Abate.
Questi soldati forastieri fecero di belle imprese al Finaro e risollevarono alquanto gli spiriti abbattuti della difesa. Non si veniva già a capo di rompere il nemico, ma con audaci sortite lo si travagliava di continuo ne’ suoi ridotti e segnatamente si tornava molesti a que’ capitani, venuti in condotta nell’esercito genovese, i quali erano avvezzi alle guerre senza troppo spargimento di sangue. Feroci in battaglia erano a que’ tempi i francesi, e ciò forse perchè inaspriti in quella giostra spietata, che da tanti anni avevano sostenuta in casa loro, contro l’armi invaditrici d’Inghilterra. Laonde, mentre i condottieri italiani si contentavano di balzare d’arcioni il nemico, ponendogli taglia se era persona d’alto affare, o d’alcun grado nella milizia, e levandogli in quella vece l’armatura e rimandandolo in farsetto se soldato semplice, o di povera apparenza, i francesi per contro usavano, ov’egli fosse caduto sotto il loro urto, di calarsi a terra e di finirlo con un colpo di misericordia sotto l’allacciatura dell’elmo.
In quel torno un Andrea Romanengo, che militava nelle file genovesi, per esser egli ghibellino siccome erano i Carretti, piantò le insegne de’ suoi concittadini, e, andato a’ servigi del marchese Galeotto, incignò il suo passaggio al nemico guidando contro il campo genovese cinquanta animosi soldati, e fu ad un pelo d’impadronirsi delle bombarde postate sull’altura di Monticello; la quale impresa nessun altri avrebbe potuto tentare fuor lui, che ben conosceva le vie coperte, i tragetti, la forza delle guardie e tutti gli usi del campo.
Messer Pietro Fregoso gli mandò a dire, per uno de’ prigioni fatti in quello scontro e resi secondo il costume in cambio di altrettanti genovesi, che badasse a custodir bene la sua persona o volesse dare frattanto gli estremi conforti alla sua gola; imperocchè egli si prometteva di farlo impiccare al trave dell’ultima torre che rimanesse in piedi al Finaro.
Molti altri bei fatti d’arme intervennero, che per amore di brevità, e perchè sottosopra tutti compagni, tralascio di raccontare. Bene raccontano le cronache finarine della proposta fatta da Giovanni, fratello del marchese Galeotto, di combattere egli solo contro un campione di Genova e così por fine alla guerra; proposta che il Fregoso non accettò, come quella che mettea conto solamente al nemico, inferiore di tanto per numero e stremato di forze. Raccontano inoltre della disfida che mandò Giacomo, figliuolo di Oddonino del Carretto, a Nicolò e ad Antonio Fregoso; rifiutata la quale, con un pugno di cavalieri fece una scorreria fin sotto le mura di Castelfranco. Narrano di una zuffa che avvenne sopra l’ospedale di San Biagio, proprio daccanto alle mura del Borgo, delle prodezze che vi operò Giovanni Sanseverino e di quelle d’un cavalier francese che sostenne da solo l’impeto di cinque nemici; uno ne uccise, gli altri ferì, ed egli poi appiedato ebbe tronche le gambe da un colpo di colubrina. Aggiungono che i genovesi, nel fare un’altra bastita, dovettero per un giorno intiero far fronte ai ripetuti assalti della gente assediata, e in quella occasione Gianni Fontaine, detto l’Abate, ebbe il fratello malamente ferito e sepolto ancor vivo dai genovesi; la qual cosa proverebbe invero una fretta soverchia e niente affatto lodevole, ma altresì la buona intenzione dei genovesi e il costume che avevano di rendere gli estremi onori ai caduti.
Raccontano.... Insomma, io non mi fermerò a pigliar nota di tutto. Metterò in sodo che si pugnò lungamente e valorosamente da ambe le parti; cosa che torna ad onore del buon nome italiano, dappoichè finarini e genovesi, monferrini, lombardi, napoletani e quant’altri combattevano, alleati, o assoldati, nei due campi del Finaro e di Genova, erano tutti figliuoli d’una medesima patria.
E l’assedio intanto durava; nè ciò solamente per la singolare asprezza dei luoghi e per la inaudita tenacità della difesa, ma eziandio per la instabilità degli uomini nell’esercito genovese. Ho già detto come si usasse allora far gente e come il nerbo dell’esercito posto sotto il comando di Pietro Fregoso si componesse di forze comandate, tutte con poca e varia durata di servizio; di guisa che, spirato il termine fino a cui una data compagnia era obbligata a rimanere sotto le insegne, questa si ritirava dal campo, foss’anco alla vigilia d’una pugna. Anche i mercenarii, finita la loro condotta, e dove i patti nuovi non fossero più larghi dei vecchi, od altrimenti accettevoli ai condottieri, spulezzavano tosto; e talfiata anco passavano con arme e bagagli alla parte contraria, se questa aveva trovato il verso d’intendersi con esso loro e di offrire una paga più alta. Il sentimento dell’onore per que’tempi era tale, e comandati e condotti non si tenevano obbligati ad averne più in là del giorno assegnato.
A proposito di giorni, uno finalmente ne venne, e fu quello di San Gregorio, ai 12 di marzo, che i genovesi levarono il campo. Già da due dì il fuoco delle bombarde si era di molto allentato; di che gli assediati aveano dato merito al tempo piovoso, che non tornava propizio alla lunga e malagevole operazione della carica. Ora, la mattina del 12, uscito il Sanseverino colle sue lancie francesi fuor dalla porta di san Biagio per far correrìa lunghesso il torrente, ebbe a meravigliar forte di non ricever molestia dai balestrieri nemici, che solevano stare in agguato alle falde di Monticello.
Incontanente spiccò un uomo dalla cavalcata, perchè desse avviso di quella novità al marchese Galeotto. Il quale fa pronto ad uscire con grossa mano di fanti per tastare il terreno all’intorno, incominciando dalle bastite dell’Argentara e del poggio di Maria. S’inoltrarono guardinghi fino agli steccati, già per lo addietro così fieramente contesi, e del nemico non ebbero indizio; le bastite erano abbandonate. Salirono ai greppi di Monticello e niente trovarono; ridiscesero al piano, e la valle apparve deserta. I genovesi nella notte avevano levato l’assedio.
Messer Galeotto, che pizzicava di lettere, pensò allora alla fuga dei Greci da Troia e sospettò d’una insidia. Ma dov’era egli il cavallo di legno, od altro che ne tenesse le veci?
Per aver traccia dei genovesi, fu mestieri a Galeotto di giungere fino alla Marina, donde si vedevano ormeggiate a poca distanza dal lido le galere nemiche, e sotto a Castelfranco, dove la rocca incominciò a piover sassi e il battifolle di san Fruttuoso a vomitar fuoco sulle prime schiere dei finarini. Il nemico era andato a far testa colà, come sul principio dalla guerra; Galeotto non volle saperne altro e tirò indietro la sua gente, pensando che messer Pietro Fregoso non tenesse fermo laggiù che per coprire la sua ritirata. I ricordi greci occupavano quel giorno la mente di Galeotto, che si sovvenne allora di Temistocle e dei suo detto memorabile: a nemico che fugge, ponte d’oro.
Checchè ne fosse del partito preso dai genovesi, il fatto era che i capi dell’esercito stavano appunto allora a consiglio presso il capitano generale messer Pietro Fregoso, nella chiesa di Nostra Donna in Val Pia, per avvisare il da farsi. E pare che la deliberazione fosse appunto di lasciare l’impresa, poichè nella notte seguente le artiglierie erano chetamente levate dai battifolli di San Fruttuoso e di Vignadonna, e una grande fiammata annunziò ai finarini che quelle bastite di Val Pia, e l’altra più forte e più vasta del poggio di Castiglione, erano condannate a perire, essendo l’esercito genovese già in salvo sulla via delle Magne.
Il marchese Galeotto si applaudì di aver seguitato il consiglio di Temistocle e dimenticò i suoi primi sospetti intorno al cavallo di Troia. Sì certamente, quella era la riprova del fatto; i suoi nemici giurati, sebbene a malincuore (e questo egli se lo immaginava e lo intendeva benissimo), aveano pur dovuto ritirarsi dal campo, stupiti dalla tenacità del suo animo e della validità delle suo difese. E non ragionava poi male; senonchè, mostrava di conoscer poco messer Pietro Fregoso, uomo, come suol dirsi, tutto d’un pezzo, il quale avrebbe più facilmente perduto un braccio, una gamba, od altra parte della persona, che deposto un disegno della sua testa.
Invero, entro le mura del Finaro e proprio nella corte dei signori del Carretto, c’era taluno che intorno ai consigli di messer Pietro poteva saperla più lunga che non il marchese Galeotto. Ma quest’uno ci aveva le sue brave ragioni per non dirne nulla al marchese e non turbare l’allegrezza recata nel castel Gavone da un primo giorno di sole.
Quel lieto giorno il marchese Galeotto lo celebrò da par suo, col matrimonio di madonna Nicolosina, Le nozze, durando l’assedio, avrebbero dovuto farsi, malgrado l’animoso proposito della giovinetta, nella piccola chiesa di san Giorgio, che era nel recinto di castel Gavone, e per fermo sarebbero riuscite dimesse e malinconiche oltre ogni dire, senz’altra musica che quella eterna e fastidiosa di Anselmo Campora. Furono fatte in quella vece allegre e sontuose nella chiesa di san Biagio, non più esposta ai colpi delle artiglierie genovesi, dinanzi a tutta la corte ed al popolo, per doppia cagione festante.
Giacomo Pico era tranquillo e sereno all’aspetto; tanto sereno (senza ilarità, s’intende, che sarebbe parsa soverchia, epperò simulata) che madonna Nicolosina, dimenticato volentieri il doloroso colloquio avuto con lui nella torre dell’Alfiere, gli si dimostrò cortese ed umana come per lo passato. Egli per altro, se non isfuggiva, neanco cercava le occasioni di vedersi trattare a quel modo da lei. Anche il conte di Osasco, siccome interviene a tutti i felici, che non vedono mai più in là d’una spanna, era entrato in grande amore per Giacomo Pico e lo avea tolto a confidente delle sue allegrezze. Carlo d’Osasco era giovine e doveva ancor molto imparare a sue spese. A testimonianza del suo candore basti dir questo soltanto, che egli con quel nuovo amico s’era aperto della sua più grande ventura, cioè del primo incontro avuto con madonna Nicolosina, a mala pena arrivato al castello. Donde il Bardineto avea tolto argomento ai dolorosi raffronti che tutti indovinano, crogiolandosi sempre più nella sua rabbia nascosta e fortificandosi ne’ suoi disegni di vendetta.
In apparenza adunque Giacomo Pico si era meritata la stima di tutti. Della fede che si riponeva in lui come soldato, neppur sarebbe mestieri discorrere. Valoroso sempre, si era nelle ultime fazioni dimostrato valorosissimo tra tutti i più famosi campioni del Finaro, e Galeotto avea detto un giorno alla presenza di tutta la sua corte che, se avesse avuto intorno a sè dodici uomini della prodezza di Giacomo Pico, non avrebbe dubitato di ragguagliare sè stesso a Carlomagno, tanto il buon esempio di dodici paladini avrebbe innalzato lui a sostenere quel gran paragone. I cavalieri francesi erano a dirittura innamorati di Messire Picot de Bardinette. In parecchi scontri aveva cavalcato con esso loro, e, per la nobil presenza in arcioni, come per la sua furia nel dar dentro ai nemici, s’era lasciati indietro i migliori. Da essi poi aveva imparato a non dar quartiere, e ammazzava i caduti, che gli era un gusto a vederlo. Gianni Fontaine, detto l’Abate, un giorno che Giacomo si era tratto ad onor suo da un manipolo di genovesi che gli si erano serrati ai fianchi e minacciavano di farlo a pezzi, lo battezzò (se il verbo è consentito in questa occasione) col nome di Picot le Diable. Donde gli altri cavalieri cavarono per conseguenza esser verissimo il proverbio che Dio li fa e poi li accompagna, veu qu’un Abbé estoit au mieulx avecque un Diable.
Il Cascherano, colla sua modesta prodezza, non raccomandata agli esaltamenti di amici chiassoni, che nel collega magnificavano in fin de’ conti sè stessi, il Cascherano, dico, era facilmente eclissato da questa gloria del Bardineto. Non si tornava da un affrontamento al castello, che non si levasse a cielo il valore, o qualche impresa singolare di Giacomo Pico. E lui umile, schivo, anzi scontroso senz’altro, a tirarsi in disparte, e, quanto più spesso poteva, a nascondersi. Modestia, forse? I lettori conoscono il Bardineto per un ambizioso di tre cotte, che volentieri rammentava le sue prodezze e i suoi alti servigi alla gente. Eglino han dunque da credere che in questa ritrosia del Bardineto ci entrasse un avanzo d’amarezza, o un bieco disegno formato in mente pur dianzi, o tutt’e due le cose in un punto.
De’ suoi amori colla Gilda nessuno avea fumo. La poveretta sfioriva ad occhi veggenti, e madonna Nicolosina argomentava che ne fosse cagione la sua fiamma nascosta o sventurata per Giacomo; ma perchè non sapeva come aiutarla in cotesto, o neanco poteva entrargliene a fine di conforto amorevole, perchè da un pezzo l’ancella stava un po’ grossa con lei quanto il grado e l’ufficio suo consentivano, la bella e pietosa Nicolosina non si era animata a dir nulla.
Il fatto si era che la Gilda, non pure serbava rancore contro la sua signora per aver dato un giorno negli occhi al suo Giacomo, ma sentiva altresì vergogna e rimorso della propria caduta e non si vedeva abbastanza amata da lui, che voleva tener coperto di un velo sì fitto ciò ch’ella avrebbe volentieri mostrato alla luce del sole. Il che, per altro, va inteso con discrezione; imperocchè, se a lei, la più parte del giorno, quando non era vicina al suo Giacomo, pareva di non essere amata in quella guisa che pure avrebbe voluto e che sentiva di meritare, in altr’ora i segreti colloqui, i giuramenti e gli ardori di Giacomo, aveano potere di ridarle la speranza e la vita. Questa è debolezza insieme e virtù della donna, tanto migliore e più scusabile di noi, capricciosi e violenti rapitori della sua pace, quando non siamo a dirittura brutali. E il Bardineto soleva riconfortare la vittima, dicendo, che, a mala pena finita la guerra e pagato il suo debito di vassallo al marchese, avrebbe chiesto commiato da esso lui e la donna amata lo avrebbe seguito in altra terra, probabilmente in Francia, ove di certo si sarebbe mutata la sua sorte. Il Sanseverino e gli altri cavalieri francesi, lo avevano anzi stimolato a quel viaggio, facendogli sicuro il favore e una lauta provvigione del re.
Le nozze di madonna Nicolosina furono splendide per isfoggio della corte e per lieto concorso di popolo. Quanti fiori e fronde aveano cansato negli orti e nei campi il cieco furore dell’esercito nemico, tanti furono spiccati quel dì per mettere le fiorite in tutte le vie donde aveva a passare la bellissima coppia. Veramente fu un giorno di sole, pari a quelli che rinnovano l’aspetto della natura, dopo parecchi altri di pioggia.
Ma i giorni si seguono e pur troppo non si rassomigliano l’un l’altro. Il marchese Galeotto a cui le allegrezze domestiche non facevano uscir di mente le cure più gravi de’ suoi minacciati dominii, aveva mandato esploratori in gran numero e per diversi sentieri, che codiassero il nemico e gli dessero lume delle sue intenzioni, se veramente erano di desistenza, com’egli credeva. Ora, il giorno dopo la festa, alcuni di quei messaggieri gli aveano rapportato che l’esercito genovese, scambio di proseguir cammino su Noli e Spotorno, per rifarsi al campo di Vado o sciogliersi colà dove si era formato, piegava su in alto per Magnone e per Vezzi, castello murato sulle falde dell’Appennino, e signoreggiato da un Ansaldo Cicala, cavalier genovese; donde, inoltrandosi per quegli alpestri sentieri, s’era sparso fino al monte Porrino, di rincontro alla villata di Rialto.
Cotesto fu un sopraccapo non lieve per Galeotto; tanto più che i nemici accennavano, col taglio e la riquadratura degli alberi, a voler fare una bastita e metter campo lassù, certo per comandare i passi dell’Appennino. E in questo giudizio lo confermarono i ragguagli del giorno dopo, secondo i quali una parte dell’esercito nemico scendeva speditamente su Gorra e Gottafrigia, proprio alla vista del castello Gavone.
Qui prego il lettore a ricordarsi della ipsilonne, accennata nel primo capitolo di questa povera storia. Ci siamo? La Marina del Finaro e il breve corso del Pora sono il piede e la gamba di quella inutilissima tra le lettere dell’alfabeto. Il Calice e l’Aquila, affluenti e genitori del Pora, sono le due braccia che si prolungano in strette convalli verso le falde appennine, chiudendo nella inforcatura il Borgo, la vetta soprastante di castel Gavone e la roccia di Pertica, che lo comanda, ma a che è inaccessibile dalla parte di tramontana. Lungo la valle del Calice, che è il braccio occidentale, s’inerpica la strada che mette in Piemonte, contornando il dorso del Settepani alla torre di Melogno. Lungo la valle dell’Aquila, che è il braccio orientale, risale un’altra via che mette in Monferrato, tagliando l’Appennino sotto il monte di San Giacomo. Il castello di Vezzi è a levante di questa via.
E adesso il lettore benevolo intenderà, spero, come l’esercito genovese, lasciando il castello di Vezzi e varcando l’Aquila alle sue scaturigini, potesse andar su Rialto, paesello di montagna presso alle sorgenti del Calice, e lasciando la sponda orientale di questo, colle villate di Carbuta e di Calice, che sono alle spalle di Pertica, scendesse per le Vene e San Pantaleo a cercare la strada battuta, che mette a Gorra o Gottafrigia, proprio alla vista di Pertica e del castello Gavone. Al nome di Dio, ci siamo finalmente arrivati!
Detto il come, diciamo anche il perchè. Messer Pietro Fregoso aveva potuto scorgere, durante l’assedio del Borgo dalla parte del mare, che il marchese Galeotto, sebbene abbandonato dal grosso del suo parentado, riceveva pur sempre dalla parte dei monti aiuto d’uomini e di vettovaglie. Per tal modo, in fortissimo luogo com’era e combattuto cogli scarsi ingegni di quel tempo, il suo nemico poteva durarla, non che per mesi, per anni. Diffatti, anche distrutto il Borgo dalle artiglierie genovesi, a Galeotto rimaneva il castello su in alto, donde avrebbe tuttavia comandato i passi, per cui gli veniano gli aiuti. Di là, dunque, di là bisognava andare ad offenderlo.
Cotesto gli era detto eziandio da una lettera cieca che un prigioniero restituito aveva trovato nella tasca del suo farsetto, con tanto di soprascritta al capitan generale. «A che vi ostinate di fronte? Pigliate il vostro nemico alle spalle. La pianura davanti al Borgo dà libero campo alla cavalleria, ed ogni avvisaglia, essendo voi così sotto alle mura, mette a repentaglio le vostre bombarde, come di recente è avvenuto. Inoltre, badate. Il duca d’Orleans ha comandato al balìvo di Trasnay, suo governatore in Asti, di venire in aiuto al Finaro. Il vostro Tommaso di Bagnasco a stento lo rattiene in Ceva, mentre Spinetta del Carretto fa fuoco e fiamme perchè s’accosti a Garessio, dove al marchese Galeotto riesca più agevole tirarlo a’ suoi fini.»
Piaceva il consiglio a messer Pietro, chè anzi da parecchio tempo lo venia vagheggiando tra sè. Ma prezioso sopra tutto gli parve l’avviso dell’ignoto corrispondente.
Avrebbe voluto andar subito a vedere co’ suoi occhi il terreno. Ma anche il campo richiedeva la sua vigilanza; però gli convenne studiare il modo di spartire gli uffizi. E poichè Anselmo Campora era, come suol dirsi, il suo occhio destro, mandò lui a specolare lassù, se c’era verso di condurvi l’esercito.
Da questa savia risoluzione di messer Pietro ne avvenne che, mentre sotto le mura del Borgo si continuava a badaluccare, i contrafforti tutti dell’Appennino, sui confini settentrionali del marchesato, erano diligentemente osservati da quel furbo compare del Picchiasodo, la cui avvedutezza e le naturali inclinazioni corografiche sono oramai note ai lettori. E a mala pena fu di ritorno costui, messer Pietro ordinò la partenza.
Il colpo ebbe quell’esito che s’è detto più sopra e gli assediati non ne sospettarono punto. Mercè quel trapasso, il Finaro veniva ad esser più chiuso che dapprima non fosse. Il mare, si sa, apparteneva ai genovesi per ragion di possesso. Teneano per Genova, il Borghetto, a ponente, e Noli, la fortissima Noli, a levante. Restavano gli sbocchi dell’Appennino, e questi oramai, col suo stratagemma di ritirata, occupava l’esercito.
Tardi si avvide Galeotto dell’inganno, ma non volle altrimenti si dicesse avergli ciò fatto perdere il tempo, e fresco ancora di quelle sue domestiche allegrezze guidò il fiore de’ suoi a sloggiare il nemico da Gorra. E cotesto gli venne fatto di colta, poichè i genovesi non erano ancora in numero bastante lassù, nè avevano avuto modo di rafforzarvisi, con una delle solite bastite. È per altro da dirsi che non patissero troppo di quella perdita, poichè dagli abbandonati gioghi di Gorra e di Gottafrigia dilagavano facilmente a Giustenice, luogo assai più occidentale di Gorra, da essi posseduto ab antico e recentemente da essi accennato come appiglio di guerra nelle loro ambascierie al Finaro.
Accorse a difendere la rocca di Giustenice l’animoso Giovanni, fratello di Galeotto, con centocinquanta finarini. Erano seco lui, Giacomo, figliuol di Oddonino, e l’Antonio, che abbiamo già veduto rendere Castelfranco. I lettori superstiziosi avranno per malaugurio a Giustenice la presenza di questo cavaliere sventurato. Difatti, poco resse il luogo agli assalti, e dopo tre giorni di combattimenti continui, in uno de’ quali morì d’un colpo di balestra Beltramino da Riva, condottiero di lancie nell’esercito dei genovesi, questi penetrarono nella terra, e per una via coperta, che la repubblica aveva fatta ne’ primi tempi del suo dominio colà, si avvicinarono tanto al castello, da atterrarne impunemente il primo muro di cinta. Ne trovarono per altro un secondo, di più recente costruzione, più saldo e più acconcio a difendere; laonde messer Pietro, per non aversi a trattenere di soverchio davanti a quella bicocca, comandò di far inoltrare un paio di bombarde.
E qui si fece onore, come potete immaginarvi, il nostro Picchiasodo. Uno solo de’ suoi colpi, mandando in rovina un pezzo di volta, uccise nel castello quattordici uomini e parecchi altri ne ferì sconciamente.
Intanto messer Pietro, avuta sotto le mani la maggior parte
dell’esercito, ritornava su Gorra e, respinto il suo avversario, vi si
piantava più saldo che mai. Dolse del fatto a quei di Giustenice che
fino allora aveano sperato soccorsi, e che da due giorni, difettando
di pane, dovevano cibarsi di crusca. La quale eziandio venendo a
mancare, si arresero il 12 di aprile, e tosto, sotto buona scorta,
furono condotti alla Pietra e imbarcati per alla volta di Savona.
Pochi giorni di poi, una galera li portò fino a Genova, ove il doge
Giano Fregoso li voleva prigionieri per quindici giorni almeno; così
annullando i patti della resa, secondo i quali la valorosa schiera
avrebbe dovuto esser posta in libertà, con che promettesse di non
impugnare più oltre le armi contro Genova, per quanto tempo durasse la
guerra.
Colà, veduto il doge e uditone amare parole, a cui fieramente rispose, Giovanni Del Carretto fu chiuso cogli altri nelle carceri Grimaldine; donde passò con Giacomo suo cugino a meno squallida prigionia nel castello di Lerici. Lo sventurato Antonio e il resto dei difensori di Giustenice rimasero prigioni in Genova; e per gli uni e per gli altri non furono quindici dì, ma dieciotto mesi di carcere. Non bella cosa da parte di Giano; ma i tempi erano tali da consentirne di simiglianti, e di peggiori per giunta.