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sentieri, s’era sparso fino al monte Porrino, di rincontro alla villata di Rialto.

Cotesto fu un sopraccapo non lieve per Galeotto; tanto più che i nemici accennavano, col taglio e la riquadratura degli alberi, a voler fare una bastita e metter campo lassù, certo per comandare i passi dell’Appennino. E in questo giudizio lo confermarono i ragguagli del giorno dopo, secondo i quali una parte dell’esercito nemico scendeva speditamente su Gorra e Gottafrigia, proprio alla vista del castello Gavone.

Qui prego il lettore a ricordarsi della ipsilonne, accennata nel primo capitolo di questa povera storia. Ci siamo? La Marina del Finaro e il breve corso del Pora sono il piede e la gamba di quella inutilissima tra le lettere dell’alfabeto. Il Calice e l’Aquila, affluenti e genitori del Pora, sono le due braccia che si prolungano in strette convalli verso le falde appennine, chiudendo nella inforcatura il Borgo, la vetta soprastante di castel Gavone e la roccia di Pertica, che lo comanda, ma a che è inaccessibile dalla parte di tramontana. Lungo la valle del Calice, che è il braccio occidentale, s’inerpica la strada che mette in Piemonte, contornando il dorso del Settepani alla torre di Melogno. Lungo la valle dell’Aquila, che è il braccio orientale, risale un’altra via che mette in Monferrato, tagliando l’Appennino sotto il monte di San Giacomo. Il castello di Vezzi è a levante di questa via.

E adesso il lettore benevolo intenderà, spero, come l’esercito genovese, lasciando il castello di Vezzi e varcando l’Aquila alle sue scaturigini, potesse andar su Rialto, paesello di montagna presso alle sorgenti del Calice, e lasciando la sponda orientale di questo, colle