Castel Gavone/IX
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CAPITOLO IX.
Qui si racconta di un nibbio, che rincorrendo
una colomba s’abbattè in una tortora.
Messer Galeotto, per celato cammino alle spalle di Verzi, conduce l’eletta de’ suoi fanti su Noli. Grande e mirabile impresa era questa, di andare, egli assediato nella sua terra, a tentare l’assalto d’una terra nemica. Per altro, anche i suoi luogotenenti si segnalavano in simili atti d’incredibile audacia, e pochi giorni addietro un Enrico da Calvisio, con un pugno di Finarini era piombato così alla sprovveduta sul Borghetto, luogo murato sulla spiaggia del mare a ponente del marchesato, che i terrazzani, fedeli allora alla signorìa genovese, avevano avuto a mala pena il tempo di chiuder le porte. Il Calvisio, non potendo altro, s’impadronì d’una galeotta che que’ del Borghetto tenevano ormeggiata alla riva, e preso il largo, avvistò otto feluche genovesi, le quali portavano vettovaglie all’esercito. Qui, senza darsi un carico al mondo della galèa nimica che incrociava su que’ paraggi e che doveva essere in quel mentre nelle acque d’Albenga, navigò incontro ai nuovi venuti, e, fingendosi mandato dal sopracòmito della anzidetta galèa, li condusse a pigliar terra dov’egli voleva; così impossessandosi delle vettovaglie destinate al nemico e introducendole, per la via di Verezzi, nel Borgo Della qual cosa non è a dire come gli fosse grato e gli dèsse lode il marchese Galeotto, prode tanto egli stesso e largo di encomio coi prodi.
Ora, innanzi di seguire quest’ultimo, vediamo Giacomo Pico che quel cicalone di Tommaso Sangonetto s’ingegna di consolare a modo suo dei rigori della sorte.
— Così è, Giacomo mio, siamo vassalli e bisogna recarsela in pace. Son essi i padroni, noi gli umilissimi arnesi. Serviamo al caso loro? Ci adoprano e ci hanno anche talvolta per la man di Dio, nel più forte delle loro necessità. Non serviamo più a nulla? Ci buttano in disparte, o si ricordano di noi, com’io delle prime calze che ho smesso. Che forse c’è mestieri di gratitudine con noi? Che importa a lui del tuo valore, a lei dello tue smanie amorose? Egli è il tuo signore, intendi uccel di rapina; ed è suo, tutto suo, quanto egli vede dall’alto di questa rupe allo intorno; ella, poi, nasce dal padre; uccel di rapina anche lei, e uno spicchio di cuore sanguinolento è il pasto più gradito a questa cara aquilina. Ah sì, gente da volergli bene, cotesta, e da pigliarcisi una scarmana, come ho risicato di far io nell’ultimo viaggio di Francia! Vedi un po’ come hanno trattato con me! Tu eri inchiodato in un letto, mio povero Giacomo, ed io subito diventavo buono a qualcosa. Mi mandano messaggiero alla Lega, e li servo di coppa e di coltello; sono contenti di me, non c’è che dire, e me lo provano, mandandomi in Francia. Vo come il vento; ritorno come il terremoto; porto loro gli aiuti e le buone promesse del re. Che si voleva di più? Non ti par egli che io dovessi credere la mia sorte assicurata? Ma no. Si tratta ora di raccogliere i frutti della mia ambasceria, di mandare una persona fidata incontro al balìvo di Tresnay. Chi dovrebbe andarci, se non io? Chi ha da compier l’opera, se non chi l’ha cominciata? Ed eccoti in cambio il cherubino, capitato tardi, ma sempre a tempo per vogarti sul remo. Abbia lui la fanciulla meritata da Giacomo Pico; vada lui frattanto per quel negozio che doveva toccare al Sangonetto. Già, vedi carità pelosa! Sangonetto sarà stanco d’ambascierie, il poverino; mandiamo questo bel chiavacuori in sua vece, ed egli invece abbia l’onore di seguire all’impresa di Noli quel pazzo da catena d’un marchese Galeotto, che va a cercare il male come i medici; si buschi un verrettone, o una piombata sul nomine patris, quel caro Tommaso; se no, povero a lui, lo fa colla voglia. Accidenti alla compassione!
— Va; — disse il Bardineto, masticando la stizza; — il tuo ladro è il mio; fo due vendette in un colpo.
— In che modo?
— È il mio segreto; lascia fare e vedrai. —
Ora il segreto di Giacomo Pico era di correr dietro al Cascherano e di freddarlo senz’altro. Questo egli aveva pensato, a mala pena lo stratagemma di madonna Nicolosina era venuto a guastargli il suo primo disegno. Senonchè, per mandare ad effetto quest’altro, gli bisognava allontanarsi con qualche pretesto dal marchese Galeotto e trovare, subito dopo, un cavallo. Ma anco a pescare la scusa per non accompagnarsi col marchese Galeotto e la cavalcatura per andar difilato sulla via di Melogno, che avea presa il Cascherano pur dianzi, o non avrebbe quella sua fuga dal Borgo dato negli occhi alla gente? E morto il rivale, non sarebbe stata attribuita a lui l’uccisione? Grama vendetta, che gli avrebbe impedito di tornare al castello, dove oramai teneva altre fila sicure, come a momenti dirò. Smesse adunque il pensiero d’inseguire il rivale, e, divorando la sua rabbia, andò col marchese Galeotto sulla via delle Magne.
Il Sangonetto aveva ragione. Noli era un osso duro da rodere, con quel suo castello in vetta del monte e una lunga scesa di mura e di torrioni per infino alla valle. Come un nido di aquilastri, piantato nel fianco d’una rupe a sottosquadro, non teme insidia di cacciatori quantunque animosi e valenti, Noli potea viver sicura dalla terra e dal mare. Di lassù, dove le sue mura comandavano i serpeggiamenti della via più faticosa che fosse mai, tornava impossibile un assedio, e una sorpresa soltanto avrebbe potuto dare la città in balìa de’ nemici; di giù, alla marina, in mezzo a due ripide balze, si stendeva una spiaggia irta di vele. I migliori marinai di Liguria nascevano appunto colà. Noli aveva armato due galere per la prima crociata, e in quella occasione s’erano stretti coi Genovesi i primi vincoli di quella amicizia che aveva a durare inalterata pel corso di sette secoli, cioè fino all’ultimo giorno di vita della serenissima repubblica.
Giunsero a notte alta sotto le mura. Il marchese Galeotto aveva sollecitato per modo il passo de’ suoi, da poter loro concedere un lungo riposo in prossimità della meta; e qui, poi, pena la morte, aveva comandato il più stretto silenzio. Insomma, niente era stato da lui pretermesso di ciò che deve curare in simili congiunture un buon capitano; e, quantunque non lo reputasse necessario con uomini della tempra de’ suoi, più d’una volta era corso avanti e indietro, ed anche rimasto un tratto in disparte ad osservare, perchè tutti ad un modo e ordinati procedessero all’assalto.
Così e non altrimenti avvenne che il Sangonetto non potesse svignarsela, come avea disegnato di fare. Il nostro Tommaso doveva quella notte esser valoroso per forza. Tanto è vero che di notte ogni gatto è bigio. Il che va inteso con discrezione e per l’apparenza soltanto, da cui si cavano i giudizi umani e le storie; che quanto al cuore, gli è un altro paio di maniche.
Ogni cosa fino al pie’ delle mura andò secondo i desiderii del marchese. E già erano rizzate le scale e chetamente appoggiate ai merli. Il Sangonetto, adocchiatane una più lunga dell’altre, comandò di appoggiarla a dirittura contro lo sporto di un torrione, e con atto d’insigne temerità volle essere il primo a tentar la salita. Ora siffatti onori si lasciano volentieri a cui piacciono, e i compagni suoi non ci trovarono niente a ridire. Così saliva animoso, o gli altri dietro a lui, ma alla distanza di due o tre piuoli, quasi per ossequio a tanto valore. Ora mentre si tirano a fatica in alto, coi loro palvesi imbracciati sul capo, ecco ad un tratto la scala traballa, gira sopra uno dei pie’; chi è in tempo s’aggrappa al legno malfido e si trattiene sospeso; chi stava in quel mentre colla mano levata, a cercare il piuolo più alto, brancica l’aria e cade riverso nel fitto dei compagni che erano pronti a seguirlo; grida involontarie rompono dal petto di chi cade e di chi riceve il colpo inatteso, e più delle grida torna molesto all’orecchio del capitano lo strepito delle armature percosse.
— Sant’Eugenio! — gridò in soprassalto una voce dai merli. — Sant’Eugenio e Noli! Cittadini, alle mura; il nemico, il nemico! —
A questa voce un’altra rispose e un’altra ancora più lunge. In breve gridarono accorr’uomo tutte le scolte e fu messo il castello a romore. Ben volle Galeotto profittare dell’oscurità e dell’incertezza dei difensori, spignendo quanti più poteva sui merli; ma già dalle caditoie piombavano pietre, e una d’esse, rompendo a mezzo una scala, fece ruzzolare un drappello de’ suoi, tra i quali Giacomo Pico, che per altro non n’ebbe alcun danno, salvo le ammaccature del suo panzerone di ferro.
L’insidia era sventata; i Nolesi accorrevano in furia alle mura e le lor grida empievano l’aria, facendoli parere i due cotanti del numero. Niente era da farsi più oltre, e il marchese Galeotto, sebbene contro sua voglia e scorrucciato oltre ogni dire, comandò di lasciare l’impresa, prima che il nemico sapesse di certo chi gli avea dato l’assalto.
Chi si dolse più forte di questa mala riuscita fu il prode Sangonetto, sospeso tuttavia alla scala, a cui, da quel furbo ch’egli era, avea dato volta con uno sforzo repentino di braccia. E volle farsi sentire, il temerario guerriero, perchè lo sapessero tutti, che c’era lui, proprio lui, appollaiato lassù; senonchè, a mala pena s’avvide, al traballio della scala, che una mano nemica dal sommo dei parapetto lavorava a dargli la spinta, lasciò di vociare, gittò lo scudo per aver più spedite le mani, e lì spenzoloni fece le bracciate di due piuoli, in cambio di uno.
— Peccato! — diss’egli nel ritorno a Giacomo Pico, e così ad alta voce che il marchese Galeotto lo udisse. — Una così bella occasione fallita, e per la balordaggine di due, o tre, venuti a romper l’ova in sull’uscio! Ero già a due braccia dai merli, quando quegli arfasatti m’hanno dato una volta alla scala, colla lor furia di corrermi tutti alle calcagna. Benedetta gente, per non dirne altro! O non lo sanno il proverbio, che la gatta frettolosa fa i catellini ciechi? Facevano a rubarsi il posto, que’ scimuniti guasta mestieri; come se in questa nobile impresa con ci fosse stato tempo e luogo per tutti! —
Così, dopo aver provveduto alla sua vita, provvedeva il Sangonetto alla fama, dando egli stesso una soffiatina nella tromba di questa compiacente signora.
Nessuno, per altro, diè retta al nostro Tommaso, che altri pensieri occupavano la mente di Galeotto e di Giacomo Pico. Taciti e spediti rifecero la strada delle Magne e sul mattino seguente rimettevano il piede entro le mura del Finaro, dove il marchese tornò alle cure della difesa e Giacomo Pico a’ suoi disegni di vendetta.
Per intendere i quali, bisognerà risalire alla mattina del giorno addietro e proprio al momento in cui madonna Nicolosina, fortemente commossa di sdegno e di tristezza, usciva dalla torre dell’Alfiere.
— Va e ricorda quel che ti pare, di me; — Aveva borbottato Giacomo Pico, seguendola infino all’uscio; — va e racconta pure ogni cosa a tuo padre! —
E guatando quella superba che scendeva le scale così grave negli atti e padrona di sè, mentre egli non lo era stato e si sentiva vinto, umiliato da lei, un odio feroce contro quella donna gli era nato d’improvviso nel cuore. Egli avrebbe voluto essere in quel punto un Dio, o un demonio, per vincere quella ritrosa, incatenarla colà, vederla a’ suoi piedi, impadronirsi, a suo malgrado, di lei. Imperocchè l’amore nell’anima del Bardineto non poteva riuscire quel delicatissimo affetto, e quasi celeste, che i poeti affermano essere certamente inspirato da una donna gentile. L’amore anzitutto è desiderio, e non sempre la nobiltà della persona amata può affinare nella mente dell’uomo e trarre a fior di virtù spirituale questo che è sempre ne’ suoi cominciamenti un prepotente ardore di sangue.
Così imbestialiva il Bardineto, desiderando ed odiando. L’avrebbe di gran cuore posseduta ed uccisa; e questo è dir tutto.
Ora, mentre egli la seguiva degli occhi, gli venne udito, a due passi discosto da lui, un suono di rammarico, quasi un singhiozzo rattenuto a fatica. Fu dietro l’uscio in un salto, e vi trovò la Gilda rincantucciata, la Gilda più morta che viva.
Subito intese che la meschina era là, ascosa e piangente, per lui. Del resto madonna Nicolosina gli aveva detto pur dianzi il segreto della sua povera ancella. Ed egli non se n’era avveduto prima; assorto nella bellezza gloriosa della giovine castellana, non avea mai chinato lo sguardo indagatore sul viso della Gilda; non aveva pensato mai che la sua bellezza, per essere in umile stato, non era già da meno di quella che a lui l’ambizione e l’amore facevano apparir così grande.
Si chinò allora verso di lei, la rialzò tra le sue braccia e la trasse di peso nella camera, senza che ella pur si provasse a resistere.
— Uccidetemi, messer Giacomo! — gli disse invece, dando in uno scoppio di pianto. — Ho udito ogni cosa e mi è più caro morire, che soffrir come faccio da un’ora. —
Giacomo Pico rimase immobile un tratto a guardarla, così abbandonata nelle sue braccia, sciolta le chiome, il volto arrovesciato, fiammeggiante, inondato di lagrime. Era bella, così; e lo amava, e soffriva per lui.
S’inginocchiò, per sostenerla meglio e sollevarle la testa, ma più, ancora per divorarla degli occhi e riscaldarla del suo alito ardente, quella donna leggiadra, che si struggeva di vergogna e di amore.
— Hai udito ogni cosa? — le disse. — Hai dunque udito che siamo i loro servi, i loro trastulli? Questi orgogliosi e malvagi signori, li conosci ora anche tu? —
— Oh, Giacomo! che dite voi mai!.... — gridò sbigottita la poveretta.
— Dico che tali son essi, e che altri dobbiamo esser noi da quelli di prima, per loro; — ripigliò Giacomo, infiammato di sdegno; — dico che bisogna odiarli.... e amarci tra noi; — soggiunse sottovoce e quasi bisbigliandole la frase all’orecchio.
Alle inattese parole e al soffio infuocato delle labbra di Giacomo, la Gilda trasaltò e volse su lui uno sguardo smarrito.
— Amarci tra noi, sì! — ripetè il Bardineto. — Non siamo noi quanto loro? In che sei tu men bella di lei? E in che son io da meno di uno sposo che ella conosce a mala pena per nome? Io e tu, fanciulla, siam nati in umile stato; è questa l’unica differenza tra essi e noi. Ma chi furono i loro antenati? E non potrebbe nascere da noi una stirpe più nobile della loro e più generosa a gran pezza? Abbiamo dunque, noi pure gli stessi diritti sulle gioie dell’esistenza; dobbiamo e vogliamo liberarci da questa infame servitù, essere, come ci sentiamo, uguali a costoro.
— Ah, messer Giacomo, — esclamò ella sbigottita, — voi parlate come Tommaso Sangonetto. —
— Che ti ama! — notò il Bardineto con accento sarcastico.
— Sì, — rispose ella prontamente, — ma non quanto io lo detesto. —
— Fai bene, sai! — disse Giacomo, carezzandone accortamente i pensieri, mentre la traeva dolcemente a sè, per ravviarle i capegli sulle tempie. — Egli non intende l’amore; è di tempra volgare; desidera, non ama. Ed io t’amo. Sei bella, — soggiunse, notando un misto di sorpresa e d’incredulità che le traspariva dagli occhi, — sei bella come la vergine Maria, che frate Angelico ha raffigurata, e che i nostri signori custodiscono tanto gelosamente nella chiesa di San Giorgio. Come torno io ad avvedermi di ciò, io che fui tanto smemorato per giorni e per mesi? Vedi, Gilda, mia Gilda, sono stato cieco; che dirti di più? Si è fuori di senno talvolta, come si è presi dal vino. Certo la tua signora mi ha posto una malìa, per condurmi in mal punto, e spezzare il tuo povero cuore. Imperocchè, vedi, io lo sentivo, di essere amato da te. Erano le tue bianche mani che mi davano più grato refrigerio, quando le s’accostavano a medicarmi la ferita. Laggiù all’Altino, te ne rammenti? sei stata la prima a giungere, la prima a toccarmi. E desiderai di rimanere eternamente colà, quando sentii il tuo braccio scorrere lievemente sotto il mio capo per rialzarlo, quando sentii sulle mie guancie l’alito della tua giovinezza. E poi, quale follìa! Come ho potuto io uscir fuori di me? Credilo, fu una malìa. Più ti guardo, e più vedo che nessuna donna ti vince in bellezza. Occhi meravigliosi che han pianto tanto!...... Anche i miei, Gilda, ma non piangeranno più, o piangeranno per te. Labbra porporine, da cui mi sarà così dolce una parola di perdono! guancie morbide, che non respingeranno i miei baci!.... —
Accesa di quelle parole, gittata di balzo in un mondo così nuovo per lei, Gilda trovò pure la forza di svincolarsi dalle strette del giovine.
— Ah no, messer Giacomo; — gridò ella piangente; — non è così che si ama.
— T’inganni; — le diss’egli, ma chetandosi tosto e persuadendola con atti riguardosi a sedere daccanto a lui, mentre stringeva una mano che ella non ebbe cuore di negargli; — t’inganni. L’amore è un’ebbrezza, uno spasimo; qualche volta un martirio. Non l’hai sentita tu una spina nel cuore, quando mi udivi, forsennato, implorar mercè da quella tua vanitosa signora?
— Non parlate così di lei, — diss’ella scorrucciata, ritraendo la mano, — o io crederò che l’amiate ancora.
Il Bardineto si morse le labbra.
— Ha ragione, — pensò egli tra sè, — ed io non sono ancora abbastanza esperto in cosifatte battaglie. —
Indi, rivoltosi a lei, prosegui raumiliato:
— Sentimi, Gilda; e non merita essa il mio sdegno? Non è sua la colpa di tutto ciò che è avvenuto? Se ella non mi avesse ammaliato, lusingato, tirato a sè con quelle arti sottili che le sue pari conoscono, avrei potuto io mai levar gli occhi e le speranze vane sino a lei, sino alla figlia del marchese mio signore?
— Amore uguaglia! — disse con accento di amarezza la Gilda.
— Sì, quando si ama; e io non l’amavo. Forse potevo io rivolgermi a lei, avendo dato a un’altra donna il mio cuore? Ed eri tu quella. Ne dubiti ancora? Ma pensaci, o Gilda; dimentica un’ora di follìa; ritorna colla mente al passato. Perchè mi hai amato, tu, se non perchè sentivi in me un affetto che rispondeva al tuo?
— Ah, l’ho creduto! — esclamò la fanciulla, coprendosi il volto colle palme.
— E avevi ragione; e così fu; — soggiunse il Bardineto. — Ma cotesto non mettea conto alla maliarda. Voleva esser sola qui, regnar sola. Un uomo giovine e prode viveva nella corte di suo padre; la vedeva, le parlava ogni giorno, e non si curava altrimenti di lei? E i begli occhi di una ancella avevano avuto più potere de’ suoi? Un reo capriccio le nacque allora nell’anima, di sviare quell’uomo, di ferir questa donna nella sua onesta alterezza. Imperocchè tutti, in qualsivoglia stato cresciuti, possiamo averci la nostra; e la tua, o fanciulla, è giusta, è sacra, come l’alterezza d’una figlia di re. Sei bella; è questa la tua nobiltà. I tuoi grandi occhi neri son gemme che tutto l’oro del mondo non basterebbe a comprare; i tuoi capegli corvini, morbidi e lucenti, che scendono amorosi a baciarti le spalle, valgono un manto d’imperatrice, come questo ferro che io stringo potrebbe valere uno scettro. Amiamoci, trionfiamo uniti dell’avversa fortuna; io son tuo per l’amore che mi distrugge; tu sei mia per le lagrime che io t’ho fatto spargere poc’anzi. Dimmi, Gilda, non perdonerai tu a chi ha tanto sofferto? Vorrai tu che quella donna m’abbia fatto impunemente il peggior male e goda di averci divisi per sempre? Serviresti alla sua gelosia, non al tuo orgoglio di donna, che ha già nelle mie supplicazioni il suo più largo trionfo. Perchè mi guardi con quegli occhi smarriti? Ti sono io così odioso? Non fuggirmi, no, non fuggirmi, te ne scongiuro! credi, alla sincerità dell’amor mio, alla grandezza dal mio rimorso, o ch’io mi uccido a’ tuoi piedi. —
Così dicendo, con meditata progressione di affetto, Giacomo Pico aveva sguainato il pugnale che gli pendeva al fianco, e fu tanta la foga con cui lo brandì, rivolgendone la punta al suo petto, che la fanciulla fu per vederlo già morto.
— Ah no, Giacomo, per amor del cielo, per l’amor mio, ve ne prego! — gridò ella atterrita.
E levate le mani, colse in aria il pugnale. Lottarono disperatamente un tratto, egli per ritenere, ella per istrappargli quell’arma paurosa. E per fermo, debole com’era, non ne sarebbe ella venuta in capo, se Giacomo, veduto scorrer sangue dalla mano di lei, non avesse tosto abbandonato l’impugnatura.
— Per l’anima mia! — gridò egli a sua volta, impallidendo, mentre tendeva le palme, per afferrar quella mano. — Ti ho ferita?
La fanciulla diede una rapida occhiata al suo braccio, che a tutta prima avea ritirato, per tema non volesse egli riafferrare il pugnale, e vide grondar sangue dal cavo della mano sul polso.
— Che importa? — diss’ella, sorridendo.
E innanzi di ridargli la mano, gittò il pugnale lungi da sè.
Ella era bella così, nel suo piantoriso, come un lieto raggio di sole attraverso le nuvole, nell’aria ancor madida degli ultimi spruzzi del nembo. Era bella nel gaudio della sua vittoria, nel sublime conforto di aver salva la vita di Giacomo, di aver veduto nel suo disperato proposito una certa testimonianza d’amore e di avergliene dato un’altra a sua volta nell’ardimento con cui ella, timida fanciulla, rifuggente dal lucicchìo delle armi, gli aveva strappato il pugnale, insanguinando in quella lotta le sue povere mani.
Ogni altr’uomo si sarebbe commosso e avrebbe rispettata quella celeste innocenza. Non così Giacomo Pico, anima bieca, indole travolta dalle sue matte ambizioni, cuore inasprito dall’odio, nè più disposto a vedere quel che ci fosse di buono o di santo dintorno a lui, se non per farne pascolo e stromento a’ suoi tristi furori.
Prese la mano della giovinetta e osservò la ferita. Vedevasi attraverso il sangue sparso una scalfittura pel largo della palma, e appariva essere stata fatta dallo scorrere della lama lungo le carni invano ristrette per trattenerla.
Prese quella mano, dico, la osservò un tratto, indi con moto rapidissimo se la recò alle labbra, suggendo avidamente quel sangue.
La Gilda tentò di ritrarsi, ma non le venne fatto.
— L’amore è una dolce schiavitù; — le disse allora Giacomo Pico, volgendole una languida occhiata, che la turbò nel profondo dell’anima; — il tuo sangue, o fanciulla, ha suggellato il patto della mia sommessione. Per questo sangue, dolce come il più dolce liquore, io ti giuro, amor mio, una eterna obbedienza. Da questo momento sarai tu la regina del cuor mio; così mi assista la sorte, come ho fede che il mio ferro ti conquisterà una corona. —
Ella non rispose parola; era vinta. Reclinò la sua bruna testa sul petto di lui, nascondendogli così il suo rossore, e facendogli palese il suo smarrimento.
Giacomo seguitava a parlare. Quel che dicesse, neppur egli sapeva. Nè la fanciulla, venuta in quella confusione, potea più meditare le parole di lui. Ne coglieva il suono indistinto e in quella musica soave le si addormentava ogni spirito di resistenza. Anima candida, credette al candore dei giuramenti di Giacomo; nè solamente dimenticò quell’ora terribile in cui aveva provate tutte le trafitture della gelosia; ma il passato, il presente e il futuro si confusero in quel profondo oblìo di sè stessa, da cui si riebbe alla fine, ma indissolubilmente legata a quell’uomo, perduta senza rimedio, innanzi di aver visto il pericolo.
Era già tardi, e il marchese Galeotto non doveva indugiar molto a mettersi in cammino per alla volta di Noli. Dalla finestra della cameretta di Giacomo si udiva il suono di molte voci nella gran sala del castello.
Il Bardineto si strappò dalle braccia di Gilda, per discendere, come avea disegnato, alla presenza del suo signore. Voleva andare incontro agli eventi, sostenere lo sguardo di tutti, mostrarsi forte, seguire il marchese all’assalto di Noli e confermare in quella impresa il suo buon nome di animoso soldato; voleva insomma un mondo di cose, delle quali poco o nulla seppe intendere l’inesperta donna che tutto aveva dimenticato per lui.
La poveretta sentì in quella vece, al dolore della separazione, quanto ella già appartenesse a quell’uomo. Rimasta sola nella torre dell’Alfiere, pianse lungamente, s’inginocchiò, chiese a Dio perdono e soccorso, non senza pensare con raccapriccio ai suoi signori, così amati da prima, ed ora così molesti al ricordo.
Finalmente, poichè tutto ha un termine quaggiù, anche il dolore, ella si riebbe dal suo abbattimento e volle esser forte.
— Non mi ama egli? — chiese a sè stessa, rialzandosi e scuotendo la bruna testa, madida ancora dei baci di Giacomo Pico. — Non lo ha giurato? Non ha bevuto il mio sangue? Così gli bruci il cuore, se egli dovesse tradirmi. Ma io saprò difendere l’amor mio; lo ucciderò, — soggiunse, raccogliendo da terra il pugnale di Giacomo e nascondendolo in seno, — lo ucciderò con questo ferro, se penserà ancora a colei.