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castel Gavone, e per fermo sarebbero riuscite dimesse e malinconiche oltre ogni dire, senz’altra musica che quella eterna e fastidiosa di Anselmo Campora. Furono fatte in quella vece allegre e sontuose nella chiesa di san Biagio, non più esposta ai colpi delle artiglierie genovesi, dinanzi a tutta la corte ed al popolo, per doppia cagione festante.
Giacomo Pico era tranquillo e sereno all’aspetto; tanto sereno (senza ilarità, s’intende, che sarebbe parsa soverchia, epperò simulata) che madonna Nicolosina, dimenticato volentieri il doloroso colloquio avuto con lui nella torre dell’Alfiere, gli si dimostrò cortese ed umana come per lo passato. Egli per altro, se non isfuggiva, neanco cercava le occasioni di vedersi trattare a quel modo da lei. Anche il conte di Osasco, siccome interviene a tutti i felici, che non vedono mai più in là d’una spanna, era entrato in grande amore per Giacomo Pico e lo avea tolto a confidente delle sue allegrezze. Carlo d’Osasco era giovine e doveva ancor molto imparare a sue spese. A testimonianza del suo candore basti dir questo soltanto, che egli con quel nuovo amico s’era aperto della sua più grande ventura, cioè del primo incontro avuto con madonna Nicolosina, a mala pena arrivato al castello. Donde il Bardineto avea tolto argomento ai dolorosi raffronti che tutti indovinano, crogiolandosi sempre più nella sua rabbia nascosta e fortificandosi ne’ suoi disegni di vendetta.
In apparenza adunque Giacomo Pico si era meritata la stima di tutti. Della fede che si riponeva in lui come soldato, neppur sarebbe mestieri discorrere. Valoroso sempre, si era nelle ultime fazioni dimostrato