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e più delle grida torna molesto all’orecchio del capitano lo strepito delle armature percosse.
— Sant’Eugenio! — gridò in soprassalto una voce dai merli. — Sant’Eugenio e Noli! Cittadini, alle mura; il nemico, il nemico! —
A questa voce un’altra rispose e un’altra ancora più lunge. In breve gridarono accorr’uomo tutte le scolte e fu messo il castello a romore. Ben volle Galeotto profittare dell’oscurità e dell’incertezza dei difensori, spignendo quanti più poteva sui merli; ma già dalle caditoie piombavano pietre, e una d’esse, rompendo a mezzo una scala, fece ruzzolare un drappello de’ suoi, tra i quali Giacomo Pico, che per altro non n’ebbe alcun danno, salvo le ammaccature del suo panzerone di ferro.
L’insidia era sventata; i Nolesi accorrevano in furia alle mura e le lor grida empievano l’aria, facendoli parere i due cotanti del numero. Niente era da farsi più oltre, e il marchese Galeotto, sebbene contro sua voglia e scorrucciato oltre ogni dire, comandò di lasciare l’impresa, prima che il nemico sapesse di certo chi gli avea dato l’assalto.
Chi si dolse più forte di questa mala riuscita fu il prode Sangonetto, sospeso tuttavia alla scala, a cui, da quel furbo ch’egli era, avea dato volta con uno sforzo repentino di braccia. E volle farsi sentire, il temerario guerriero, perchè lo sapessero tutti, che c’era lui, proprio lui, appollaiato lassù; senonchè, a mala pena s’avvide, al traballio della scala, che una mano nemica dal sommo dei parapetto lavorava a dargli la spinta, lasciò di vociare, gittò lo scudo per aver più spedite le mani, e lì spenzoloni fece le bracciate di due piuoli, in cambio di uno.