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e lucenti, che scendono amorosi a baciarti le spalle, valgono un manto d’imperatrice, come questo ferro che io stringo potrebbe valere uno scettro. Amiamoci, trionfiamo uniti dell’avversa fortuna; io son tuo per l’amore che mi distrugge; tu sei mia per le lagrime che io t’ho fatto spargere poc’anzi. Dimmi, Gilda, non perdonerai tu a chi ha tanto sofferto? Vorrai tu che quella donna m’abbia fatto impunemente il peggior male e goda di averci divisi per sempre? Serviresti alla sua gelosia, non al tuo orgoglio di donna, che ha già nelle mie supplicazioni il suo più largo trionfo. Perchè mi guardi con quegli occhi smarriti? Ti sono io così odioso? Non fuggirmi, no, non fuggirmi, te ne scongiuro! credi, alla sincerità dell’amor mio, alla grandezza dal mio rimorso, o ch’io mi uccido a’ tuoi piedi. —
Così dicendo, con meditata progressione di affetto, Giacomo Pico aveva sguainato il pugnale che gli pendeva al fianco, e fu tanta la foga con cui lo brandì, rivolgendone la punta al suo petto, che la fanciulla fu per vederlo già morto.
— Ah no, Giacomo, per amor del cielo, per l’amor mio, ve ne prego! — gridò ella atterrita.
E levate le mani, colse in aria il pugnale. Lottarono disperatamente un tratto, egli per ritenere, ella per istrappargli quell’arma paurosa. E per fermo, debole com’era, non ne sarebbe ella venuta in capo, se Giacomo, veduto scorrer sangue dalla mano di lei, non avesse tosto abbandonato l’impugnatura.
— Per l’anima mia! — gridò egli a sua volta, impallidendo, mentre tendeva le palme, per afferrar quella mano. — Ti ho ferita?