Brani di vita/Libro primo/Un'ora di pessimismo
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UN'ORA DI PESSIMISMO
Carissimo Signor Senatore,1
Ella ricordò il dolce tempo antico nel quale frequentai il Suo Corso di Economia Politica e volle un proemio a queste pagine proprio da chi sarebbe ben contento di non saper più scrivere e di sentirsi dimenticato. Nè valse il dirle che alle parole Sue avrebbe fatto migliore e più degna introduzione alcuno dei parecchi che nelle discipline economiche hanno nome ed autorità; chè Ella preferì un neutro, un profano, stimando che gli autorevoli, i quali hanno già un loro credo, siano sospetti o parziali. Così le cortesi insistenze e la vecchia gratitudine mi vinsero e faccio quel che Ella desidera.
Ma le confesso che non ho gran fede nella efficacia dell’opera nostra. Non è da oggi ch’io cerco in questo problema terribilmente scuro del socialismo, ed io e Lei ricordiamo il passato prossimo, nel quale, a parlarne, sentivamo sghignazzare di compassione i soddisfatti e risponderci: “Utopie! Sciocchezze!” Allora, come ora, vedevamo con raccapriccio che in questa società nostra la giustizia è una enorme bugia. Allora ed ora, tendendo l’orecchio alle trepidazioni del suolo, alla cupa e lontana romba che precorre i cataclismi, maravigliavamo che pochi e di rado pensassero che ci sono delle solfare in Sicilia, dei fondaci a Napoli, dei pellagrosi in Lombardia, ed i campi ricchi di messi e di aranci, e il mare azzurro di Chiaia ci parevano ironia della natura alle miserie umane. E più che ironia, insulto ci pareva, ed è, la ostentazione del lusso inutile, così cara agli imbecilli che l’imbecillità della fortuna arricchisce; e l’amaritudine della vana protesta ci saliva in gola al cospetto del dolore vero, beffato, schiaffeggiato da una felicità bugiarda.
Oh, dove sono ora gli schernitori che ghignavano: “utopie?” Nel settantuno, quando videro che socialisti ce n’erano e che, accozzati, picchiavano, li sentimmo susurrarci all’orecchio: “Tacete! Non è utile, non è patriottico parlare di queste cose, e colla discussione, destare una questione sociale, un attrito di classi, che non hanno ragion d’essere tra noi. Qui il clima è dolce e le plebi come il clima. La terra, appena tocca, dà cibo al lavoratore sobrio e contento del poco. Qui non c’è grande industria e agglomerazione di irrequieti. Tacete dunque e farete cosa santa!” — Questo si diceva, lodando la sobrietà di chi non può mangiar che polenta, benedicendo il clima beato nel quale chi mastica due peperoni crudi al giorno non muore di fame in un giorno. Ma ecco, la discussione diventa necessaria. Ecco i comizi, i suffragi mostrano che il socialismo fiorisce anche qui dove il clima è dolce e il lavoratore sobrio. Se ne discorre nei giornali, dalle cattedre, nei Parlamenti, e i Governi promettono leggi, le Accademie propongono premi, l’Imperatore di Germania raduna un Congresso, il Papa, fino il Papa! scrive un’enciclica in latino raccomandando l’abbondante elemosina. Dove sono gli schernitori, dove gli apostoli del silenzio? Alcuni ne conosco che vivono nel sospetto e nella desolazione, adorando nel tempio del loro cuore la memoria di chi inventò le Guardie di Pubblica Sicurezza.
Finalmente! Dunque la borghesia che resse trionfando tutto il secolo, udrà le grida, ascolterà le proteste, sentirà compassionevole i lamenti che le salgono dal basso? Affaticata, esaurita oramai, da vani tentativi e ricerche di riposo felice, saltò per cento anni dal giacobinismo all’assolutismo, dal potere personale ai plebisciti, dalle pacifiche finzioni costituzionali alle bellicose teorie delle nazionalità e delle razze. Cercò requie nell’individualismo più crudele, spiegando il mondo colle formole della lotta per l’esistenza; poi vaneggiò nel collettivismo più ingenuo, esagerando le rosee promesse della cooperazione. E sempre cogli occhi al passato, sempre studiosa dei nemici di ieri, fu liberale perchè l’aristocrazia, vinta e spogliata, non lo era; compilò codici impersonali perchè prima la giustizia dipendeva dalla persona del giudice; promosse l’istruzione delle masse perchè i nobili e i preti avevano candidamente confessato che le plebi ignoranti erano meglio governabili e il regno dei cieli spettava ai poveri di spirito, e fu volterriana solo perchè il passato finse di credere, mascherando intanto con relitti di filosofie ottimiste, con orpelli di dottrine umanitarie, l’utilitarismo pratico del reggimento suo e l’egoismo cieco de’ suoi. E in questa guerra assidua contro i possenti di ieri, non solo chiuse gli occhi ai pericoli del domani, ma fu costretta a chiedere aiuto al numero e forza alle masse. Armò di idee, di istruzione e di diritti le plebi per farsene un baluardo contro la reazione aristocratica e cattolica; aprì gli occhi agli umili, ai pazienti, ai sofferenti, perchè seguissero grati la sua bandiera, chiudendosi solo in un pensiero, movendosi solo per una paura; il passato.
Ma ecco, le armi fornite agli ausiliari si rivolgono contro lei. Spartaco esce dalla cella gladiatoria colla spada che Roma gli diede ed inizia le guerre servili. In nome della stessa utilità pubblica e privata, in nome della stessa libertà, della stessa giustizia che la borghesia invocò nelle sue battaglie, i diseredati, i proletari, si levano, ammaestrati ed armati da lei, per chiederle conto di un regno secolare, delle promesse non mantenute, della oppressione durata, delle lacrime piante. Già l’organismo diventa migliore e più compatto e non anderà molto che la spinta sarà irresistibile. Basterà un soffio, un cenno solo dell’esercito innumerabile che ora si disciplina, perchè di tutta questa società borghese rimanga appena la storia non bella. Le rivendicazioni giuste e gli appetiti viziosi, le aspirazioni sante e le avidità brutali vorranno esser soddisfatte. Viene il giorno del rendimento dei conti, la liquidazione sarà burrascosa, il creditore è inesorabile. Ma il debitore che fa?
Così vuole il destino, che debbano perder la mente coloro che sono destinati alla rovina. Altro che ascoltar le grida e compassionare i lamenti! La borghesia non fa e non può far nulla per allontanare o mitigare il giorno del suo giusto giudizio. Prima gridò “utopie!”, poi susurrò “silenzio” ora è in braccio ai Carabinieri. Così faceva l’aristocrazia alla vigilia della proclamazione dei diritti dell’uomo, e così vuole la natura che non si curi la salute che malati, che non si pensi alla morte che in agonia. Talora, quando la fiumana ingrossa e minaccia gli argini, si studia, si discute, si chiacchiera, e si provvede coi discorsi, coi libri e coi progetti di legge. Nei pericoli urgentissimi, o si reprime duramente o si promette qualche privilegio, appunto a quelli che insorgono contro la compressione e il privilegio; e questi paiono i rimedi più eroici. E il Papa allora grida in latino a questa borghesia che non gli crede “fate la carità poichè lo disse il Vangelo”. Ah, buon vecchio, ben altre cose disse il Vangelo e se Cristo venisse a ripeterle per le vie di Roma, troverebbe gli Scribi e i Farisei, Caifa ed Anna che lo terrebbero socialista; e, se la croce non è più di moda, c’è sempre il domicilio coatto. Ah, se il cristianesimo fosse ancora una forza, il Pontefice potrebbe mutar faccia al mondo con una parola, sciogliendo l’antico problema dell’usura nel senso più rigido. Frutti il lavoro e non il denaro. Ma tornare alle massime dei Santi non torna conto e l’obolo non frutterebbe e i preti e i frati dovrebbero lavorare, quod Deus avertat! Intanto Chiesa e borghesia possono risparmiare i pannicelli caldi, le encicliche, i trattati, le orazioni e i progetti di legge. Nulla e nessuno potrà fermare la terra e togliere l’avvicendarsi dei giorni; e anche quello del rendiconto deve spuntare.
E sarà un brutto giorno per la classe che ora regna e governa. Al suo attivo troveremo i progressi di quelle parti della scienza i cui trovati possono esser oggetto di un brevetto, di una accomandita, insomma di un guadagno; telegrafi, ferrovie ecc., tutta la scienza applicata all’industria che la rabbia dell’arricchire fece veramente gigante. Al passivo.... non oso e non saprei nemmeno cominciare la nera pagina. Del resto, solo a guardarsi intorno, fora gli occhi la enorme, la delittuosa disuguaglianza tra i cittadini, tollerata e quasi incoraggiata. In certe vie ben lastricate e pulite, vedete l’ozio ed il lusso che si pavoneggiano, mentre, giù pei vicoli scuri e fetenti, la fatica e la miseria non vedono il sole che per mostrargli i cenci orrendi e le piaghe sanguinolente. Questo sotto agli occhi di tutti, ogni giorno, come cosa incolpevole, fatale. Quanti uomini invidiano la stalla di un cavallo da corsa? Eppure questa è la miseria più comune, che pure racimola qua e là tanto da non morire; ma chi non ricorda e non sa che c’è ben di peggio? E che rimedi ha saputo trovare la filantropia borghese? Le Opere Pie? Strana invenzione per cui un moribondo impone che le generazioni future amministrino ed eroghino a modo suo i frutti di un capitale che non è più suo; e si sono viste istituzioni dette di beneficenza spendere questi frutti parte in impiegati e parte in messe di requie. Oh, quante anime del Purgatorio avranno salvato i testatori che sono all’Inferno! Ma lo Stato borghese ha trovato il rimedio radicale anche a questo: ha mutato gli amministratori.
Via, riconosciamolo; la protesta è giusta e la resistenza inutile e ben venga la retribuzione secondo l’opera. Oggi gli oziosi e i vagabondi sono di due specie: ricchi e nullatenenti. I primi vivono di rendita e vanno a Montecarlo; i secondi vivono di audacia e vanno in prigione, poichè le nostre leggi puniscono solo i secondi col pretesto che sono pericolosi alla ricchezza dei primi. Ben venga dunque il giorno della giustizia santa che elimini gli uni e gli altri come ugualmente pericolosi alla società. In questo canone, della retribuzione secondo quel che si fa e non secondo quel che si possiede, sta la essenza del socialismo, il quale potrà passare per varie transazioni, ma dovrà venire per forza inevitabile alla applicazione sincera e fatale dello spirito di giustizia che gli dà l’anima e la vita. Alle esplosioni violente si risponde ora colle violente repressioni, ma che sarà degli eserciti nel secolo venturo? Vani sono i sogni del collettivismo religioso del Tolstoi o dello Stato socialista del Bellamy, come non meno vane, nell’ambito delle speculazioni politiche, furono la Repubblica di Platone, l’Utopia del Moro o la Città del Sole del Campanella. Inutile l’accumular le ricchezze in poche mani, cercar rimedio nelle chimere della rivelazione, nelle vesciche della filosofia, nei rivoltoloni della politica, nei paralogismi della economia pubblica. Non giovano nuove forme di suffragi, nuovi metodi di governo. Questa fracida borghesia è accecata e chiusa in un circolo senza uscita. Inutile tutto, perfino la rassegnazione e non le resta che accovacciarsi sulle ceneri delle sue inutili ricchezze aspettando la morte.
Ma poi che avverrà? Ora, le aspirazioni dei socialisti seri e colti non mirano che alla soddisfazione di veri ed urgenti bisogni. L’organismo del poi non è chiaro in alcuna mente. Vedono la tavola imbandita e reclamano la loro parte che altri ingoia o sciupa. Chi ha due razioni ne ceda una e non si può dare ai laboriosi senza torre agli oziosi. È strano che ci sia ancora chi pensa e fantastica di rimediare agli abusi negativi senza distruggere i positivi, architettando sistemi per far trovare uno scudo in una mano senza toglierlo da un’altra. Certo, tra i portabandiera dei socialisti ci sono i furbi che aspirano solo a diventar borghesi e vorrebbero le due razioni per loro; ma l’indegnità degli avvocati non guasta la santità della causa. Ma poi, che avverrà? L’istinto del cessare il male presente spinge le masse alla demolizione delle Bastiglie borghesi. I fati conducono i volenti e trascinano i nolenti, talchè vano è sperare in lente evoluzioni o placidi tramonti. Come i più non insorgeranno quando della insurrezione sono chiare la giustizia e l’utilità? Manca per ora al socialismo il concorso più largo della donna, indispensabile alla costituzione di una società nuova; ma quando le madri saranno socialiste, i figli si faranno Carabinieri? Ora sentiamo il muggito lontano della fiumana che lenta, inesorabile si avvicina. Fra poco sarà qui e al bagliore livido dei lampi, tra lo schianto delle saette, squarcerà gli argini, invaderà i campi, rovescerà le case e le ville, trascinando tutto nel suo vortice, i cespi di rose e le querce secolari. Non riparo di fuga, non speranza di scampo; e le acque torbide deporranno nel fondo il limo fertile per le colture dell’avvenire. La terra, ampio maggese, accumulerà nuove forze e rinasceranno più ricche le messi, gli alberi, e i fiori. Sul triste passato il tempo stenderà le grandi ali ed al lieto presente il sole darà il sorriso fecondatore. Ma poi, che avverrà?
Vano è sperare in un assetto definitivo e pacifico. La natura stessa impose che l’aspirazione umana non possa aver termine dove stare ed adagiarsi, e la natura non cambia le sue leggi per evoluzioni o rivoluzioni di uomini. Il desiderio è una scala senza fine che l’umanità sale faticosamente da qualche millennio, urlando di dolore ad ogni nuovo gradino. La natura la insegue col flagello insanguinato, cacciandola in alto, sempre più in alto, facendo seguire una nuova aspirazione a quella che fu raggiunta, un nuovo e più faticoso gradino a quello che fu superato, e solo riposa chi muore. Questa è la legge, e la pianta crescerà finchè dia il frutto e il frutto germoglierà per esser pianta e così senza fine. Il mito delle Danaidi antiche è il simbolo dell’umanità.
Chi cresce la scienza cresce il dolore, disse quel mirabile pessimista che fu l’Ecclesiaste, e l’uomo sempre più raffinato dalla civiltà e dalla scienza si troverà cresciuta a dismisura la facoltà di soffrire. Vedrà allora la volgare e triste commedia della sua vita quotidiana essere nel suo insieme una orrenda tragedia. Vedrà che solo il dolore è reale e positivo, poichè le rare gioie umane non sono che cessazione momentanea di un dolore, appagamento di un desiderio o di una aspirazione che nella loro intensità erano dolore; e il breve appagamento, seguito tosto dalla sazietà, cede il posto a un desiderio, ad una aspirazione, insomma ad un dolor nuovo. L’arte istessa, così possente a rappresentarci il dolore, che è positivo, non può rappresentarci la gioia che è negativa. Paragonate Dante che descrive gli strazi umani dell’Inferno, con Dante che descrive le gioie teologiche del Paradiso! Vanità sopra vanità, illusione sopra illusione, dolore sopra dolore, e l’umanità, giunta a questo punto di conoscimento del proprio destino, si chiederà se questa vita valga la pena di esser vissuta.
Vedete l’amore, la più possente delle umane illusioni, da cui tutta l’arte dipende e che domina i nove decimi della nostra vita. Quanti sogni e quanti versi eterei ed ideali! Ma cercatelo, scrutatelo nelle sue midolle, e per etereo che vi appaia gli troverete sempre le radici nell’istinto sessuale. La natura c’inganna e ci induce a perpetuare la specie con l’esca di una soddisfazione dell’io. Chiedete ai più fervidi amanti che sarebbe del loro amore sa l’amata avesse vent’anni di più; tanto è vero che l’istinto solo ci muove! E colla soddisfazione dell’istinto, colla cessazione del dolore, del desiderio, ecco la sazietà, la disillusione, cui talora può succedere un sentimento di affezione amichevole, indotto dalla consuetudine, ma che non è più l’amore. "I miei lombi son pieni d’illusioni" confessò il salmista, ma la natura ci trae d’illusione in illusione per la maggiore moltiplicazione della specie, ci consiglia l’infedeltà, ci suggerisce romanzi sempre nuovi. Quante pagine sublimi inspirò l’amore contrastato, quanti Werther ignoti darebbero la vita per un bacio! Ma quante pagine tollerabili inspirò l’amor soddisfatto? E Werther, se avesse dormito un anno con Carlotta, non si sarebbe chiesto “valeva la pena?”
E se questa è l’amara verità che sta sotto alla più possente delle nostre passioni, che dire delle altre? Chiamiamo Fato, Destino, Volontà, Forza, Dio, questo ignoto da cui sembra ordinata la vita dell’universo, certo però non fu benigno alla razza umana. Già le religioni stesse insegnarono che la vita è punizione, espiazione di un fallo d’origine, altrimenti non avrebbero potuto chiamar buono Iddio, se ci creò solo per vederci soffrire; ma comunque, anche nella ipotesi religiosa, rimane che la vita è dolore e che tutto il resto è vanità ed illusione.
Così, quando dopo mille prove ed esperienze, dopo il saggio di cento sistemi sociali e politici dall’assolutismo più ferreo all’anarchia più sfrenata, l’umanità non avrà acquistato che una capacità maggiore di soffrire, farà pure una volta, con maturità di consiglio, il bilancio dei dolori e delle gioie sue e intenderà che, non l’amore della vita ci persuade a sopportare il male, ma la paura della morte. Allora, chinando mestamente il capo sul seno, i viventi diranno col Savio "Io pregio i morti più che i vivi, anzi stimo più felice degli uni e degli altri colui che fino ad ora non è stato". E la voce del Savio dirà loro: "otterra ove tu vai non vi è nè opera, nè ragione, nè conoscimento, nè sapienza alcuna" e sulla terra sono solo il dolore e l’illusione.
Perchè dunque perpetuare le generazioni dei sofferenti? L’illusione dell’amore può trovar altro rimedio che il suicidio o la mutilazione. I metodi malthusiani cui le nazioni più civili debbono il diminuire delle loro popolazioni, soccorreranno colla perfezione loro. Amate e non generate. La natura c’ingannò e noi l’inganneremo, memori del detto del poeta: "Il maggior delitto dell’uomo è l’esser nato".
Come il sole trascina seco vertiginosamente la terra verso un punto ignoto della costellazione di Ercole, così l’esperienza, credo io, conduce l’umanità al perfezionamento suo ultimo, l’estinzione. Il più geniale pessimista alemanno lo credette, ma il giorno fortunato è troppo lungi da noi e troppa via dolorosa deve percorrere ancora la nostra malnata razza prima di riposare nel nulla. La suprema gioia che vedrà il mondo, sarà allora quella degli ultimi vecchioni aspettanti tranquillamente la morte nella terra ormai deserta di creature umane.
Come saranno liete le belve non più combattute e le greggie non più decimate! I boschi non temeranno più la scure, o le messi la falce, e i fiori non saranno più recisi per farne ghirlande alle nozze o ai funerali. L’uomo avrà distrutto l’opera del sesto giorno di Dio e morrà contento. Rovini poi la terra che abitammo, rovini verso il punto lontano dove la trascina una forza ignota a dar di cozzo in qualche astro di fuoco, e s’infranga ed ardano e cigolino nel cielo vuoto le faville disperse. Che importa? L’umanità avrà cessato di soffrire.
Oh, Egregio Senatore, come sono piccine le nostre questioni a guardarle dall’alto! In faccia alla immensità, alla inevitabilità del dolore, che cosa sono i nostri sistemi, i nostri discorsi, i nostri libri? È perciò che sino dal principio non le nascosi il mio dubbio intorno all’utilità delle nostre parole. Ma se dubitai dell’utilità, non dubito però del desiderio del bene che muove e infiamma Lei a discutere i più vitali problemi del nostro tempo, con animo retto e solida scienza. È perciò che auguro sinceramente al suo libro buona fortuna, come Ella lo scrisse con animo sincero; poichè ne io nè Lei siamo di quelli che hanno orrore delle dottrine nuove e repulsione per le conseguenze delle teorie sociali. Ella le studia acutamente e le discute per indirizzarle al meglio. Io, uomo di minor fede, affretto tuttavia questo nuovo esperimento della illusione umana. Fortunato Lei, se coll’opera sua contribuirà ad alleviare i dolori di un solo vivente. Beato io, se potrò convincermi che anche il pessimismo è una illusione.
Note
- ↑ Proemio ad un libro del compianto mio Maestro A. Marescotti, intorno al Socialismo.