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260 | Brani di vita |
in questo problema terribilmente scuro del socialismo, ed io e Lei ricordiamo il passato prossimo, nel quale, a parlarne, sentivamo sghignazzare di compassione i soddisfatti e risponderci: “Utopie! Sciocchezze!” Allora, come ora, vedevamo con raccapriccio che in questa società nostra la giustizia è una enorme bugia. Allora ed ora, tendendo l’orecchio alle trepidazioni del suolo, alla cupa e lontana romba che precorre i cataclismi, maravigliavamo che pochi e di rado pensassero che ci sono delle solfare in Sicilia, dei fondaci a Napoli, dei pellagrosi in Lombardia, ed i campi ricchi di messi e di aranci, e il mare azzurro di Chiaia ci parevano ironia della natura alle miserie umane. E più che ironia, insulto ci pareva, ed è, la ostentazione del lusso inutile, così cara agli imbecilli che l’imbecillità della fortuna arricchisce; e l’amaritudine della vana protesta ci saliva in gola al cospetto del dolore vero, beffato, schiaffeggiato da una felicità bugiarda.
Oh, dove sono ora gli schernitori che ghignavano: “utopie?” Nel settantuno, quando videro che socialisti ce n’erano e che, accozzati, picchiavano, li sentimmo susurrarci all’orecchio: “Tacete! Non è utile, non è patriottico parlare di queste cose, e colla discussione, destare una questione sociale, un attrito di classi, che non hanno ragion d’essere tra noi. Qui il clima è dolce e le plebi come il clima. La terra, appena tocca, dà cibo al lavoratore sobrio e contento del poco. Qui non c’è grande industria e agglomerazione di irrequieti. Tacete dunque e farete cosa santa!” — Questo si diceva, lodando la