Brani di vita/Libro primo/Suum cuique tribuere
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SVVM CVIQVE TRIBUERE
Don Vencenzì, Cavaliere della Croce d’Italia e Presidente del Tribunale, sull’imbrunire era solo nel suo scrittoio.
Lo chiamava scrittoio e non studio per un vago ricordo del parlare toscano, poichè era stato pretorucolo in non so qual buco di Maremma, ma certo in quello scrittoio Don Vencenzì ci scriveva poco perchè aveva sempre vissuto in mediocre armonia colla grammatica e la penna gli faceva ribrezzo come una serpe. Il fatto è che il preteso scrittoio pareva piuttosto un tempietto sacro ai Lari domestici, perchè sopra un asse, lungo il muro, stavano in fila quattordici statuette di gesso, da Sant’Antonio a Santo Espedito, ammesso lì per ultimo per guastare il malaugurio del numero tredici.
Don Vencenzì aveva acceso quattordici candelotti ai suoi quattordici protettori e tutti con un fiammifero solo; cosa che egli riteneva di buon augurio, sebbene non di rado si scottasse le dita. Si inginocchiò e ad ogni imagine distribuì imparzialmente la debita razione di Pater, Ave e Gloria; indi corazzatosi con uno sfoggiato segno di croce, contemplò, contento come un bambino, le quattordici statue, dipinte dei colori striduli e violenti dei figurinai ed illuminate da sotto in su dai moccoli fumiganti. Dall’uscio semiaperto si udiva l’acciottolio dei piatti, sintomo dell’imminente desinare, annunziato del resto anche da un odor grasso di frittume, stagnante nell’afa densa della calda serata d’agosto.
Don Vencenzì, distratto dalle sue meditazioni devote, pensò ai maccheroni col sugo; il suo piatto favorito.
Eppure Don Vencenzì era infelice! non si sarebbe detto badando al ventre cucurbitaceo ed al faccione lucido che pareva unto. Certo le funzioni animali si compivano bene in lui anche su due gambe corte e non perfettamente verticali; ma tuttavia era infelice. L’ufficio non gli dava di gran sopraccapi poichè spediva le cause sonnecchiando e, buttando giù col lapis il dispositivo delle sentenze, era tranquillo, perchè il Giudice Avena, un magro scettico ed ironico, si prestava a stendere la motivazione, aguzzando sofismi e cavilli per dare qualche verosimiglianza di diritto ai farfalloni del Presidente. Dopo, ci pensava la Corte d’Appello a mettere in sesto il tutto alla meglio; ma Don Vencenzì nemmeno se ne occupava. Non se ne incaricava, diceva lui.
Nè gli davano noia le risate del pubblico quando, presiedendo in Corte d’Assisie, non capiva il dialetto del paese e non poteva far capire il suo ai testimoni; poichè anch’egli parlava volentieri in dialetto e dava luogo ad equivoci ridicoli e rumorosi. Nemmeno lo turbava l’insolenza degli avvocati che gli tagliavano la parola in bocca, in piena udienza, dicendogli: — “Ma scusi, Presidente, Lei non capisce niente!” — Frase che, in grazia della rima al mezzo, era diventata quasi proverbio. Il pubblico rideva di gusto, ma Don Vencenzì che ne aveva sentite di peggio, non ci badava o, tutt’al più, tirava su gli angoli della bocca verso le pinne del naso polputo, convinto così di punire e stritolare i colpevoli con un sorriso di irresistibile finezza canzonatoria ed era una smorfia balorda.
Meno poi lo offendevano i monelli che gli scrocchiavano dietro certi suoni inarticolati e sudici, quando la domenica menava in giro il cane, un bastardo di cento razze, vecchio, gonfio, spelato e che gli somigliava. Lo chiamava Gerundio, in memoria del latino che non aveva potuto mai imparare in Seminario e, quando passava davanti a una chiesa, sospirava perchè la compagnia del cane gli inibiva di entrar nella casa di Dio a dire qualche posta di rosario. La corona l’aveva sempre nella tasca del panciotto, vicino al cuore, e la toccava come un amuleto, quando la ragazzaglia gli cacciava i cerchi tra le gambe o gli faceva rimbalzare le palle nel cappello.
Ma Don Vencenzì era infelice per cagion della moglie. L’aveva sposata quasi per forza, dominato dalla volontà imperativa di lei che, quantunque di bassa condizione e più attempata e più alta di lui un buon palmo, lo aveva soggiogato e gli rendeva amarissima la vita. Ora poi Zì Marù, come la chiamava quasi con umiltà, aveva messo i baffi e l’abitudine del comando era diventata una tirannide brontolona ed ingiuriosa. Il coniugio, non rallegrato da prole, tra quei due esseri così diversi, uno grasso e torpido, l’altra secca e feroce, sarebbe finito male senza la sottomissione imbecille del marito. Zì Marù non rideva mai, o tutt’al più aveva certi sorrisi di sarcasmo che le scoprivano i canini ingialliti, come i gatti quando soffiano. Dava di gran sbarbazzate alle serve che cambiava ad ogni mese e spiava i vicini dalle finestre socchiuse. Don Vencenzì coi colleghi la chiamava la donna forte e il Giudice Avena un giorno aggiunse: "sì! come l’aceto!" Ma Don Vencenzì finse di non aver capito.
Sicuro: gli piacevano i maccheroni col sugo che mangiava alzando la forchetta e ricevendoli in bocca, a poco a poco, interi, ungendosi il mento; ma Zì Marù glieli avvelenava con obiurgazioni insolenti e ingiuriose che aveva l’arte di rendere sempre più atroci, salendo di tono sino allo strillo, tanto che alcune volte il povero Don Vencenzì aveva dovuto chiudere la finestra perchè la gente si fermava lì sotto. Zì Marù era persuasa che il marito fosse un asino e glielo diceva rabbiosamente. Sarebbe marcito nei gradi inferiori della Magistratura, fortunato ancora che quel birbo dell’Avena si prestasse, ridendo, a rabberciargli le castronerie. Asino, perchè visitando il Vescovo a capodanno, intontito da tanta maestà, aveva dimenticato di baciargli l’anello! Asino, perchè non aveva fegato di far mettere a posto quelle pettegole di mogli di Giudici che la salutavano appena o con un sorriso beffardo! Asino, perchè era la favola della città. Asino.... Asino.... Asino!
Questo, ahimè, era sempre il condimento dei maccheroni e al povero Don Vencenzì pareva di mangiarli coll’arsenico. Così quella sera, sotto la lampada sospesa, l’Illustrissimo Signor Presidente, chinava il cranio lucido, biascicando di malavoglia, mentre Zì Marù scopriva i canini gialli e lo aizzava, lo accoltellava, lo stilettava, coi vituperi. In quello stesso giorno aveva condannato al massimo della pena un povero tanghero, il barrocciaio Barlacchia, reo di aver lasciato scappare un’asina nell’orto del Vescovo, con notevole detrimento dei sacri erbaggi. Nel pronunciare la condanna, gli pareva di esser stato imponente, maestoso, come un Arcangelo vindice della Religione più che della Legge. Si trattava di danni dati ad un Vescovo e si ricordava del Seminario da cui era uscito bigotto ed ignorante. Ora di tanta maestà che rimaneva? Se il Barlacchia avesse potuto ascoltare dietro l’uscio le contumelie e l’obbrobrio che Zì Marù rovesciava addosso a lui, al Giudice tremendo, che vergogna! Ma taceva perchè non era buon consiglio rispondere, sia pure con sommissione, al vomito nero di Zì Marù.
E il povero martire pensava dolorosamente alla sua triste fortuna. Quanti colleghi gli erano passati avanti! Lo stesso Giudice Avena che gli motivava per ironica compassione le sentenze, sarebbe stato promosso prima di lui! Qualche iettatura (ci credeva) doveva pur esserci. Non aveva certo la pretesa di esser un’aquila, ma nel nebbione delle idee tarde e crasse gli pareva di capire che anche nei gradi più alti c’erano degli imbecilli più imbecilli di lui. Ricordava certe sentenze, certe porcheriole, certe transazioni colla coscienza che egli non avrebbe mai firmato. Solo in una cosa si sentiva poco imparziale ed era quando l’accusato non sentiva bene della Religione e, peggio poi, se ne aveva offeso la Gerarchia. Allora non ci vedeva più e il vecchio seminarista sciabolava pene per dritto e per traverso, persuaso che Dio e i quattordici santi del suo scrittoio glielo avrebbero scritto a merito per la vita eterna.... e per la promozione.
Ma intanto di promozione non si parlava. Aveva scritto al Comm. Liborio Chiavone, suo antico condiscepolo di Seminario ed ora pezzo grosso al Ministero di Grazia e Giustizia, dove si occupava più degli affari della Madonna di Pompei che di quelli dello Stato. Don Vencenzì aveva intravvisto, dietro le suggestioni velate del Commendatore, che la Madonna di Pompei ha le braccia lunghe e perciò ogni Bollettino della Pia Opera recava il suo nome e una modesta offerta. L’imagine pompeiana teneva il primo luogo nella sfilata degli Dei Lari sull’asse dello scrittoio e da qualche mese il povero Presidente raddoppiava la offerta. Ma la promozione non si vedeva e in certi momenti dagli angoli della bocca di Zì Marù colavano le bave dell’idrofobia.
Il pranzo, così largamente condito di aceto e di fiele, volgeva tristamente al suo fine, quando un insolente scampanìo all’uscio troncò in bocca a Zì Marù gli sconci oltraggi e in mente a Don Vencenzì lo strazio della meditazione. Gerundio abbaiò in falsetto e si sentirono le ciabatte della serva strascicate pel corridoio; indi un cicalìo sommesso, rotto da risate mal represse, finchè Zì Marù impazientita, squittì un chi è? imperioso.
Era l’usciere Proietti. Entrò levandosi il cappello e tenendolo contro la bocca per non ridere, ma inutilmente, perchè l’ilarità gli schizzava dagli occhi come quando raccontava all’osteria le sudicerie pornografiche dei giudicanti e dei giudicati. Zì Marù fece il viso più arcigno del consueto, ma l’usciere fu lesto a porgere un piego a Don Vencenzì, dicendo con una voce in cui si sentiva vibrare un’ultima risata: "Signor Cavaliere Presidente, manda il signor Giudice Avena!" e si rimise l’ala del cappello sulla bocca come per turarla.
Don Vencenzì, benchè di intelletto non molto agile, indovinò bene che doveva essere accaduto qualche stroppiatura, prese il piego e si ritirò in fretta nello scrittoio per leggere il messaggio al lume della candela di Sant’Espedito.
Ma Zì Marù aveva capito anche lei. Avrebbe letto tanto volentieri le carte mandate dal Giudice Avena, ma non aveva confidenza collo stampato e tanto meno col manoscritto. Preferì quindi di interrogare l’usciere.
—
— Come mai, caro Proietti, a quest’ora? Che c’è di nuovo?
Il caro era ricco di troppi erre arrotati per parere carezzevole e lusinghiero e Zì Marù credette bene di prender pel collo la bottiglia del vino come tacita promessa di premio al caro Proietti che rispose:
— Nulla, signora; un caso....
Si vedeva che l’usciere rideva ancora di dentro ed aveva più voglia lui di parlare che Zì Marù di ascoltare. Tuttavia l’indegna strega lo incoraggiò col più leggiadro de’ suoi sorrisi; quello che le scopriva i canini.
— Ecco! proseguì l’usciere. Il Barlacchia ha lasciato scappare l’asina nell’orto del Vescovo!... Lei sa!... Articolo 481: “Chiunque lascia senza custodia o altrimenti abbandona a sè stessi in luoghi aperti animali da tiro.... è punito cogli arresti.... fino ad un mese....”
L’usciere conosceva il Codice Penale meglio di Don Vencenzì, ma Zì Marù non capiva che cosa ci fosse da ridere.
Rispose l’usciere: — Ecco! E accaduto che.... per distrazione certo.... il Signor Cavalier Presidente ha condannato invece il Barlacchia.... in base all’articolo 381.... sa? un 3 per un 4.... un piccolo errore.... di cifra....
Il riso compresso gli dava delle contrazioni sussultorie all’epigastrio, tanto che si rimise l’ala del cappello contro la bocca per sfogarsi almeno un poco decentemente e la mosse con molto appetito.
Ma Zì Marù insisteva cogli “Ebbene?”
—
— Ebbene, ecco — seguitò l’usciere respirando male e colle lagrime agli occhi — per quello scambio di numeri, il Barlacchia s’è preso dal Cavalier Presidente quattro anni di detenzione....
— Ebbene? tornò ad insistere la befana.
— Ma — aggiunse l’usciere, quasi sorpreso — l’articolo 381 è un altro....
“La donna che con qualunque mezzo adoperato da lei, o da altri col suo consenso, si procura l’aborto, è punita colla detenzione da uno a quattro anni....”
Ebbe uno scoppio di riso convulso e singhiozzò: — Capisce, 481.... 381.... il Barlacchia si è beccato quattro anni.... per essersi procurato l’aborto!...
Ma Don Vencenzì, spalancando l’uscio dello scrittoio, strozzò a mezzo la risata dell’usciere che tacque, mentre Zi Marù profittava dell’accidente per ritirare la mano dalla bottiglia. Il Cavalier Presidente fu maestoso nel riconsegnare il piego al Proietti con un gesto solenne e a dirgli un "andate!" teatrale; ma, quando fu uscito, si tornarono a sentire nel corridoio le ciabatte della serva e un cicalìo interrotto dalle risate.
Don Vencenzì cadde allora a sedere sulla seggiola e Zi Marù lo morse con una occhiata di sprezzo più velenosa di un sacco di vipere.
Il povero imbecille, colla testa tra le mani, tartagliava alcune scuse puerili. Era stato un equivoco, uno scambio di numeri; si sa.... il caldo e poi si trattava di Monsignor Vescovo! Il Pubblico Ministero, quando il Cancelliere lesse il dispositivo, era distratto. Giuoca al lotto e forse combinava un terno. L’altro Giudice sonnecchia volentieri e l’Avena, che forse se n’era accorto, aveva taciuto per mortificarlo. Ora aveva corretto. La correzione confinava col falso, ma bisognava pure....
Zì Marù alzò le spalle aguzze e ripetè colla voce rauca, tra i denti, come se parlasse a sè stessa — “Asino! Asino! Asino!!”
Seguì un silenzio increscioso e pesante. Le farfalle volavano intorno al lume e, colle ali bruciate, cadevano nei bicchieri ancora pieni. Dalle finestre aperte entrò un pipistrello e Zì Marù che ne aveva orrore, quella sera non si mosse nemmeno, tanto che la bestiaccia, quasi seccata, finì per volar fuori. Si sentiva la gente che passava ridendo, giù, per la strada e a Don Vencenzì pareva che ridessero di lui come sghignazzava il pubblico quando gli avvocati gli dicevano in faccia che non capiva niente. Oh, come riderebbero domani in Cancelleria! E si sentiva umiliato, avvilito dalla confermazione brutale e pubblica della propria asinità. Nello stesso silenzio penoso, sentiva la presenza formidabile dello sprezzo, incarnato nelle laide forme della sua donna iraconda.
Ed ora travedeva, così in barlume, nella nebbia della coscienza semispenta, la miseria propria e la stoltezza di chi aveva affidato alla sua ignoranza supina ed alla sua intransigenza di gesuita, gli averi, la libertà, l’onore dei cittadini. Gli tornavano in gola certe sentenze malvagie in cui aveva coscientemente negato, offeso, vituperato il buon diritto altrui per livore confessionale, per rabbia di clericalismo. Qualche punta di rimorso lo feriva e, pur consolandosi perchè se n’era confessato e n’era stato assolto e perdonato, nondimeno ne provava un po’ di amaritudine.
Ma ad un tratto il campanello squillò e si udirono di nuovo i latrati di Gerundio e le ciabatte della serva. Era un telegramma e Don Vencenzì, unico in casa che sapesse scrivere il suo nome, firmò frettolosamente la ricevuta ed aprì la carta gialla con le mani tremanti. Nella sua anima superstiziosa, dopo lo sproposito dell’aborto, era rimasto il terrore di nuovi guai e la persuasione che tutto in quel giorno gli dovesse andar male. Egli che scaraventava le sentenze così a cuor leggero, temeva che quel foglietto contenesse una sentenza; ma, fattosi coraggio, dopo averlo letto alla meglio, diventò rosso come il belletto e lo tese a Zì Marù stridendo con la sua voce di cappone stonato: “Leggi, leggi, Zì Marù!” Ma Zì Marù aveva le sue buone ragioni per non leggere ed allora Don Vencenzì declamò il testo del telegramma che diceva:
“Godo essere primo annunziarle sua promozione Consigliere Corte Appello Lampedusa – Chiavone.”
Zì Marù rimase fredda. Certo la promozione non le spiaceva, ma era una diminuzione per lei ed una esaltazione pel marito: perciò tacque.
Ma non tacque Don Vencenzì cui la notizia era andata alla testa così che pareva trasfigurato. L’ora dello sconforto era passata e finalmente si rendeva giustizia alla sua anzianità. Finalmente riacquistava l’onor suo trionfando sugli invidiosi e sui malvagi che lo canzonavano e lo insolentivano in tribunale come un burattino e uno scimunito. I monelli non gli avrebbero più scagliato addosso i cerchi, le palle e, come ahimè! era una volta avvenuto, i torsoli di cavolo! Era finita la berlina e cominciava il trionfo, dal quale il pover’uomo si sentì così invasato che ebbe il coraggio di levarsi in piedi, in faccia a Zì Marù, di guardarla in viso quasi sfidando e di battere la mano sul telegramma aperto, gridandole — “E questo che cosa è?... E questo che cosa vuol dire?”.
Zì Marù scoprì i canini fino alle gengive con una risata più amara del chinino; poi con una voce secca ed insolente, rispose — "Questo vuol dire che c’è degli asini.... più asini di te!" — ed, afferrato un candeliere, uscì sbatacchiando l’uscio. Ma Don Vencenzì non se ne offese. Quella fuga era la consacrazione del suo trionfo.
Il nuovo Consigliere d’Appello spense la lampada sospesa, congedò la serva e si ritirò nello scrittoio, santuario delle sue lunghe ed incoscienti orazioni.
Quella sera, in via di ringraziamento, la Madonna di Pompei e Sant’Espedito ebbero razione doppia e il povero stolido, inginocchiato sul pavimento, non si poteva staccare da quelle imagini di gesso che stimava autrici della grazia ricevuta.
Le accarezzava cogli occhi snocciolando la corona e pensando al dispetto che proverebbe domani il Giudice Avena, quello che gli faceva il piacere di motivargli le sentenze. Che mortificazione, che bile pei colleghi, per gli avvocati, pel pubblico, per tutti! E ringraziava le imagini nella sincerità del suo cuore per aver fatto del bene a lui e del male agli altri!
Finita la corona, spense ad uno ad uno i moccoli, quasi chiedendo scusa ai santi di gesso e andò in punta di piedi nella camera da letto. Zì Marù russava stertorosamente come per dispetto e Don Vencenzì si spogliò con precauzione per non destare il drago addormentato. Ma rimasto in camicia, non potè resistere ad un ultimo impeto di tripudio. Col candeliere nella sinistra, si piantò sulle gambuccie torte davanti allo specchio dell’armadio e sorrise beatamente alla sua imagine sciocca che gli rimandava un sorriso rimbambito, ma secondo lui, eroico. Si tirò il berretto da notte sull’orecchio destro, alla sgherra, contemplò soddisfatto il dondolìo del fiocchetto bianco e picchiando con gesto melodrammatico il palmo aperto sulla pancia piriforme, disse: La Giustizia sono io!!
E spense il lume.
Don Vencenzì, a quando in Cassazione?