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Suum cuique tribuere 357

non aveva fegato di far mettere a posto quelle pettegole di mogli di Giudici che la salutavano appena o con un sorriso beffardo! Asino, perchè era la favola della città. Asino.... Asino.... Asino!

Questo, ahimè, era sempre il condimento dei maccheroni e al povero Don Vencenzì pareva di mangiarli coll’arsenico. Così quella sera, sotto la lampada sospesa, l’Illustrissimo Signor Presidente, chinava il cranio lucido, biascicando di malavoglia, mentre Zì Marù scopriva i canini gialli e lo aizzava, lo accoltellava, lo stilettava, coi vituperi. In quello stesso giorno aveva condannato al massimo della pena un povero tanghero, il barrocciaio Barlacchia, reo di aver lasciato scappare un’asina nell’orto del Vescovo, con notevole detrimento dei sacri erbaggi. Nel pronunciare la condanna, gli pareva di esser stato imponente, maestoso, come un Arcangelo vindice della Religione più che della Legge. Si trattava di danni dati ad un Vescovo e si ricordava del Seminario da cui era uscito bigotto ed ignorante. Ora di tanta maestà che rimaneva? Se il Barlacchia avesse potuto ascoltare dietro l’uscio le contumelie e l’obbrobrio che Zì Marù rovesciava addosso a lui, al Giudice tremendo, che vergogna! Ma taceva perchè non era buon consiglio rispondere, sia pure con sommissione, al vomito nero di Zì Marù.

E il povero martire pensava dolorosamente alla sua triste fortuna. Quanti colleghi gli erano passati avanti! Lo stesso Giudice Avena che gli motivava per ironica compassione le sentenze, sarebbe stato