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364 | Brani di vita |
che lo canzonavano e lo insolentivano in tribunale come un burattino e uno scimunito. I monelli non gli avrebbero più scagliato addosso i cerchi, le palle e, come ahimè! era una volta avvenuto, i torsoli di cavolo! Era finita la berlina e cominciava il trionfo, dal quale il pover’uomo si sentì così invasato che ebbe il coraggio di levarsi in piedi, in faccia a Zì Marù, di guardarla in viso quasi sfidando e di battere la mano sul telegramma aperto, gridandole — “E questo che cosa è?... E questo che cosa vuol dire?”.
Zì Marù scoprì i canini fino alle gengive con una risata più amara del chinino; poi con una voce secca ed insolente, rispose — "Questo vuol dire che c’è degli asini.... più asini di te!" — ed, afferrato un candeliere, uscì sbatacchiando l’uscio. Ma Don Vencenzì non se ne offese. Quella fuga era la consacrazione del suo trionfo.
Il nuovo Consigliere d’Appello spense la lampada sospesa, congedò la serva e si ritirò nello scrittoio, santuario delle sue lunghe ed incoscienti orazioni.
Quella sera, in via di ringraziamento, la Madonna di Pompei e Sant’Espedito ebbero razione doppia e il povero stolido, inginocchiato sul pavimento, non si poteva staccare da quelle imagini di gesso che stimava autrici della grazia ricevuta.
Le accarezzava cogli occhi snocciolando la corona e pensando al dispetto che proverebbe domani il Giudice Avena, quello che gli faceva il piacere di motivargli le sentenze. Che mortificazione, che bile pei colleghi, per gli avvocati, pel pubblico, per tutti! E ringraziava le imagini nella sincerità del